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Il fine ultimo della vita umana è arrivare a comprendere l’unicità di tutte le esistenze

di Francesco Lamendola - 30/07/2010



 
QUESTO ARTICOLO È DEDICATO AD ENRICO E ANTONELLA, DUE FEDELI E SIMPATICI LETTORI, PROTESI ALLA RICERCA DELLA VERITÀ.

Dopo giorni e settimane di pesante umidità, con il cielo lattiginoso che sembrava un sudario steso sul mondo quasi per soffocarlo, stamattina la pioggia ha purificato l’atmosfera e un vento fresco ha spazzato le nuvole basse, aprendo uno squarcio limpidissimo di sereno e avvicinando le verdi pieghe delle montagne, che sembrano adesso a portata di mano.
Tutto è bellezza radiosa e calmo splendore: i richiami degli uccelli in volo, i netti chiaroscuri sui boschi delle colline e la trama incredibilmente delicata delle nuvole bianco-azzurre tra le quali erompe, trionfante, il cielo di una incredibile profondità e nitidezza.
Ecco, è in momenti come questo che si sente come tutto è Uno; che si intuisce come i timori e le brame disordinate non sono che inganni dei sensi; e che non  esistono il passato né il futuro, ma solo un fulgido presente, ove tutto è luce, pienezza e assenza di turbamento.
La tecnica della concentrazione, ossia il fissarsi della mente su un oggetto esterno o un punto interno, e quella della meditazione, ossia lo stabilirsi della mente nello stato in cui non esistono più pensieri provenienti dai sensi, sono propedeutiche alla scoperta di questa verità: che noi e il Tutto non siamo due cose distinte e separate, ma un’unica, luminosa realtà.
Nel corso della nostra vita, noi disperdiamo una immensa quantità di energie psichiche, lasciandoci trasportare da pensieri oziosi o addirittura negativi: ad esempio, girando e rigirando il coltello nella piaga delle nostre sconfitte, delle nostre delusioni, delle nostre amarezze. I ricordi sgradevoli, le assurde gelosie (e la gelosia è sempre assurda), in una parola ciò che non dipende a noi e che non possiamo modificare, ci opprime con il suo peso morto.
In ogni caso, per la maggior parte del tempo la nostra mente è immersa in una ridda di pensieri incessanti e di emozioni, molte delle quali risultano dannose per il nostro equilibrio spirituale e per la nostra stessa salute fisica: non perché esse siano, di per sé, distruttive, ma perché distruttivo e disordinato è il modo in cui le viviamo e ce ne lasciamo sopraffare, permettendo loro di assumere un potere capriccioso e tirannico sulla nostra vita cosciente.
Quel che dobbiamo fare, allora, è riprendere possesso della nostra mente e filtrare i pensieri e le emozioni, affinché il loro bombardamento continuo e disordinato non comprometta il nostro equilibrio; e il modo migliore per riuscirvi, la via maestra da battere, è quella della concentrazione e della meditazione.
Così come la persona spiritualmente evoluta non teme la solitudine, ma le va incontro con lieto animo, interamente padrona di se stessa e per nulla turbata dal fatto di avere o non avere l’approvazione altrui, senza presunzione ma anche senza timore o timidezza; allo stesso modo è necessario imparare a non temere né l’assalto di pensieri ed emozioni, né il “vuoto” dovuto al fatto che essi ci abbandonino, o, piuttosto, che noi abbandoniamo loro, riconquistando spazi significativi di libertà e di pace interiore.
La pace dell’anima, infatti, è il frutto di un certo stile di vita, ma anche, e soprattutto, di un certo stile di pensieri ed emozioni; che devono sempre essere positivi, sempre, sempre: perché la grande legge della vita è che tutto è rivolto al bene, anche quello che, sul momento e per un difetto di prospettiva, ci sembra male.
Ora, se noi teniamo fermo a questo presupposto, ecco che gli eventi esterni smetteranno di turbarci così fortemente, come di solito accade: perché riusciremo a discernere, nell’apparente casualità degli eventi, un filo benevolo che li unisce e li collega mirabilmente; anzi, che li lega con tutti gli eventi di tutto l’universo -  presenti, passati e futuri - in una rete sapiente di relazioni armoniose.
Swâmi Sivânanda Sarasvati, il grande maestro indiano e uno dei massimi conoscitori dello Yoga, così insegnava ai suoi seguaci e a tutti gli uomini alla ricerca della verità («Concentrazione e meditazione»; titolo originale: «La pratique de la méditation»,  Jean Herbert-Vandoeuvres, Suisse, 1950; traduzione italiana  di Ferruccio Ledvinka, Roma, Edizioni Mediterranee, 1972, 1985, pp. 196-97):

«Una mente rivolta verso il mondo ha bisogno di essere dominata e di subire una completa trasformazione psicologica. La concentrazione e la meditazione arrivano a costruire  una mente nuova con dei nuovi modi di pensare.  La vita contemplativa è diametralmente opposta alla vita di questo mondo; essa comporta anche un totale cambiamento. Le vecchie impregnazioni sensuali (samskaras) devono essere completamente annullate con le pratiche intese e costanti, continuate con zelo per lungo tempo; debbono essere create delle nuove impregnazioni questa volta spirituali.
L’uomo è composto di anima, di mente e di corpo.  L’âtman ha due aspetti: uno immutabile e uno mutevole. Quest’ultimo si chiama mondo, il primo Dio.  Ed il mondo stesso non è altro che Dio che si manifesta; il mondo è Dio in movimento. Questo non significa che il mondo è privo d’esistenza, ma che essa è relativa.
L’âtman è onnipervadente, è ogni felicità, ogni conoscenza, eternamente puro e perfetto. Riveste con la sua propria volontà quei nomi e quelle forme che chiamiamo mondo (nâma-rûpa-jagat). È dunque, senza desideri, perché non ha niente fuori di sé. La sua volontà agente si chiama “shakti”; e l’âtman in azione. In Dio senza attributi (nirguna-âtman) la shakti è statica; quando Egli è con attributi la shakti è dinamica. L’âtman è senza desideri perché non ha nulla che gli sia di oggetto. I desiderio implica un’attrazione che a sua volta, presuppone un’imperfezione; è una vera negazione della volontà, che è invece la decisione d’agire per dei motivi estratti da sé. L’âtman vuole e l’universo nasce. La volontà dell’âtman sostiene e governa l’universo.  Gli esseri umani sono sospinti qua e là dell’egoismo, dal desiderio, dal timore nati dall’identificazione del limitato composto di mente e di corpo. Questa idea di limitazione si chiama egoismo.
Il fine ultimo della vita umana è di arrivare a comprendere l’unicità di tutte le esistenze, manifestate o no. Questa unicità già esiste, ma noi l’abbiamo dimenticata, a causa della nostra ignoranza. La nostra disciplina spirituale deve tendere in particolare modo ad allontanare quel velo d’ignoranza, quell’idea che non siamo limitati al corpo ed alla mente. Da ciò deriva logicamente che, per giungere all’unità, dobbiamo abbandonare la diversità. Dobbiamo costantemente conservare quest’idea: di essere l’onnipenetrante, l’onnipotente, ecc. Quindi non c’è più posto per il desiderio, perché nel’Uno non c’è attrazione emotiva ma solo una felicità permanente, calma ed eterna. Il “desiderio di liberazione” è una contraddizione in termini, perché liberazione significa possesso dello stato d’infinità; e questo stato è già esistente, è la nostra vera natura. Non può esservi desiderio di una cosa che è la nostra stessa natura. Tutti i nostri desideri di prole, di ricchezze, di felicità in questo mondo e nel’altro ed, infine, il desiderio stesso di liberazione dovrebbero essere eliminati definitivamente, tutte le azioni dovrebbero essere guidate da una volontà pura e disinteressata riguardo allo scopo finale.
Questo sâdhâna - il continuo tentativo di sentire d’essere il tutto -  dev’essere (o meglio dovrebbe essere) praticata durante la più intensa attività. È l’insegnamento fondamentale della “Bhagavad-Gîtâ,” ed è logico, perché Dio è contemporaneamente con e senza attributi, con e senza forma. Lasciate pure lavorare il corpo e la mente e sentite di essere, al di sopra di essi, il testimonio che l domina. Non vi identificate con il ricettacolo del corpo e della mente (âdhâra).»

Dunque: si tratta di fare appello alla scintilla divina che è in noi, a quella pare divina che si cela nelle nostre profondità, ignorata o dimenticata; e di riprendere il controllo dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, impedendo loro di andare e venire incessantemente, con grave danno del nostro equilibrio interiore e della nostra pace spirituale - oltre che, come già abbiamo detto, della nostra stessa salute fisica.
Anche nel Vangelo di Giovanni (10, 34) si ricorda questo concetto: che nell’essere umano vi è già una scintilla divina, che lo lega all’Essere da cui proviene e di cui esso è una diretta e gloriosa emanazione.
Concentrazione e meditazione, peraltro, sono solamente delle tecniche, non sono affatto lo scopo da perseguire per la liberazione spirituale: pensare diversamente, significherebbe scambiare il mezzo o gli strumenti per il fine.
Il fine è arrivare a comprendere il legame profondo che esiste fra tutte le esistenze, da quelle apparentemente più alte a quelle più umili; il frutto che ne deriva, è il conseguimento della pace spirituale: la pace dell’anima, non in senso statico e vagamente sonnolento, ma in senso dinamico e vigorosamente partecipativo.
L’anima che ha raggiunto la pace non si riposa pigramente sugli allori, ma si protende verso più alte mete; le energie psichiche che essa “risparmia”, sottraendosi alla sarabanda dei pensieri disordinati e negativi, e volgendole a favore delle emozioni e dei pensieri positivi, hanno lo scopo di darle nuova forza e di conferirle nuovo slancio per riprendere l’ascesa verso i livelli superiori dell’esistenza.
Che ci sono, eccome se ci sono: anche se noi, immersi nel fango della palude e imbottiti di presunzione scientista e materialista, stentiamo non solo a vederli, ma anche soltanto ad immaginarli e ad ammetterne l’esistenza in via ipotetica.
Il fatto di credere nell’esistenza dei livelli superiori, ovvero - se si preferisce - di credere che la realtà non è fatta solo di ciò che possiamo quotidianamente vedere e toccare, e quindi di ciò che possiamo misurare e quantificare, ma di un Altrove che, tuttavia, è già qui, presente ed operante, non è solo un fatto di astratte preferenze filosofiche: perché la verità è che noi siamo tutt’uno con i nostri pensieri.
Se noi crediamo, ad esempio, che l’uomo non sia altro che un ammasso di cellule, di neuroni e di processi chimici e fisiologici, questo e non altro saremo; ma se crediamo di far parte dell’Essere, di costituirne una emanazione o un riflesso o una scintilla, la nostra parte divina si illumina e prende vita. Noi siamo esseri in potenza, suscettibili di protenderci oltre noi stessi, per realizzare la parte ultima di noi stessi; ma solamente a condizione di volerlo.
Anche in ciò risiede la libertà dell’uomo: nel fatto che nessuno è obbligato ad innalzarsi al livello dell’Assoluto, se non lo vuole. Chi preferisce rimanere nello stagno a gracidare, rimarrà una rana immersa nel fango; chi decide, consapevolmente e deliberatamente, di spegnere la fiammella divina che ha in se stesso, scenderà al disotto del livello dei bruti.
Si tratta anche di un principio di giustizia, come si può ben comprendere, oltre che di libera autodeterminazione. L’uomo diventa ciò che vuole essere, consapevolmente o meno; di fatto, i nostri pensieri ci portano a realizzare l’una o l’altra delle possibilità che sono in noi fin dall’inizio, ancora allo stato latente.
Sorge, pertanto, una domanda piuttosto impegnativa per il nostro destino: chi desideriamo essere e che cosa vogliamo diventare?
È strano che la maggior parte degli esseri umani dedichino così poco tempo a riflettere su ciò: strano, specialmente considerando a quante domande superflue ed oziose essi si sforzano di trovare una risposta; ma altamente significativo.
Una cosa è certa.
Qualunque sia la risposta che noi decidiamo di dare a questo interrogativo, non possiamo illuderci di diventare alcunché fino a quando continueremo a perseguire i nostri obiettivi pensando solo a noi stessi e credendoci separati dal Tutto, di cui siamo parte.
Non è così che funziona.
Noi possiamo diventare qualche cosa di bello, di aperto, di gioioso, solo nella misura in cui arriviamo a comprendere il nesso che lega tra loro tutte le esistenze: dalle galassie al filo d’erba.