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Il mio Tibet

di Valerio Zecchini - 01/08/2010

 

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A trentaquattro anni dalla sua morte,  sulla piazza Tien-an-men di Pechino campeggia ancora oggi un’enorme immagine di Mao Zedong, il dittatore comunista sulla cui coscienza pesavano più di quaranta milioni di vittime; com’è possibile? Probabilmente grazie all’acume politico di Deng Xiaoping, che già dai primi anni ottanta, ben prima dei vari Occhetto, Fassino e Gorbaciov, intuì che il futuro del mondo era nella globalizzazione, nel liberismo e nella deregulation finanziaria – e che per mantenere saldamente il  potere occorreva imboccare quella via con decisione. E’ a quell’epoca che prende forma il mostro cinese che oggi fa paura a tutto il mondo: una nomenclatura comunista che applica con rigore i dettami del liberismo più estremo, paradossalmente rendendolo più efficace rispetto ai paesi occidentali che ne detenevano la primogenitura. Questi ultimi sono quindi costretti a trattare la Cina come un loro pari in politica e come loro privilegiato business partner, ma tutti sappiamo benissimo che se non fosse  per la sua potenza economica, si troverebbe senz’altro nella lista degli “stati canaglia”. Ci sono però due stati canaglia che continuano ad esistere grazie alla protezione cinese: la Birmania (un regime militare anch’esso di origine comunista) e la Corea del Nord, utilissimo spauracchio militare contro la Corea del Sud  e il Giappone. Ma la Cina Popolare, oltre a mantenere in stato di semi-schiavitù la stragrande maggioranza della sua popolazione, tiene sotto costante minaccia di aggressione gli arcinemici di Taiwan (la Cina anticomunista) ed esercita una brutale oppressione nelle due province ribelli dello Xinjiang e del Tibet.
Infatti, nonostante la nomenclatura di Hu Jintao abbia recentemente rivalutato l’antica saggezza confuciana, e sebbene esista una formale libertà di culto, per i maggiorenti del partito vale ancora  la massima di Mao “la religione è veleno”; le recenti rivolte musulmane nello Xinjiang e buddiste in Tibet, oggetto di repressioni violentissime, sono lì a testimoniarlo.
In occidente la storia del Tibet è conosciuta dal grande pubblico soprattutto grazie ad alcuni film hollywoodiani di grande successo: “Sette anni in Tibet” di Jean-Jacques Annaud con Brad Pitt (ricostruzione romanzata della spedizione tedesca in Tibet del 1937 – primi occidentali ad entrare nella città sacra di Lhasa), “Kundun” di Martin Scorsese, accurata biografia dell’attuale Dalai Lama, e “Il piccolo Budda” di Bernardo Bertolucci (sullo stesso argomento ma decisamente meno interessante).
Per la nuova collana di Rizzoli “Prima persona”, dedicata esclusivamente alle storie di vita è appena uscito “Il mio Tibet”, avvincente biografia familiare di Yangzom Brauen; l’autrice è modella, attrice e attivista pro-Tibet. Figlia di una profuga tibetana e di un etnologo svizzero, è cresciuta a cavallo di due culture, tra l’Europa e il retaggio buddista della sua famiglia.
Nell’inverno del 1959, lo stesso anno in cui il Dalai Lama era andato in esilio, anche la famiglia della Brauen abbandonò il Tibet, cercando rifugio in India. Mola (nonna dell’autrice) e il marito Tsering, entrambi monaci non possono accettare la violenta repressione dei culti che praticano da sempre messa in atto dagli invasori cinesi, quindi sfidano in pieno inverno le nevi dell’Himalaya per raggiungere il Dalai Lama nel suo esilio indiano. Poco cibo sulle spalle, abiti leggeri e due bambine al seguito – una delle quali muore nella fuga – è tutto quello che hanno con loro. Ad accoglierli, un paese in fermento, poverissimo, che riserva loro solo miseria e lavori pesanti per sopravvivere. E infine il trasferimento in Svizzera, la promessa di una vita nuova e la timida scoperta del mondo occidentale.
Yangzom Brauen, ultima erede di questo viaggio, ripercorre l’epopea della sua famiglia attraverso la vita di due donne: la nonna Mola, monaca e madre dalle mille risorse, che ha conosciuto la morte da bambina, ha scelto la meditazione da ragazza e da allora è diventata la tenace depositaria di un antico buddismo popolare destinato a sparire con la sua generazione; e Sonam Dolma, sua figlia, che giovanissima abbandona la realtà che conosceva per seguire il futuro marito.
Dai loro ricordi Yangzom ha imparato ad amare un Tibet ormai scomparso – quello delle capanne di frasche, degli eremiti, delle lampade a burro, del fumo delle offerte che si innalza verso il cielo dai monasteri in alta quota – ma che si è impresso come una ferita aperta nella memoria di chi l’ha vissuto e nella coscienza di un popolo ancora in lotta per salvarlo. Ma vediamo come l’autrice descrive con estrema efficacia la fase più drammatica della repressione cinese, attuata col pretesto della liberazione dalla tirannia teocratica: “I cinesi avevano aggredito e occupato il nostro paese già nel 1950, ma solo diversi anni più tardi gettarono la maschera amichevole indossata all’inizio e presero ad arrestare, torturare e incarcerare sistematicamente i tibetani, soprattutto religiosi buddisti e nobili. I miei nonni erano monaci, quindi correvano un serio pericolo. Il loro monastero fu assalito e depredato dai soldati cinesi, che infuriarono anche nel villaggio sottostante. Presero i nobili e li trascinarono per i capelli nella piazza, li malmenarono, li costrinsero a pulire le latrine, distrussero le loro case, portarono via le loro statue sacre e devastarono i loro campi. Rubarono il bestiame, derisero dei Lama venerandi e calpestarono le consuetudini del villaggio, vecchie di secoli. Era a causa di questi atti di barbarie che mia nonna Kunsang Wangmo e mio nonno Tsering Dhondup avevano deciso di fuggire in India con mia madre Sonam Dolma e la sua sorellina di quattro anni. Volevano attraversare a piedi la catena dell’Himalaya, con pochi soldi in tasca, senza avere idea delle fatiche del tragitto”.
L’essenzialità narrativa e la semplicità formale della scrittura della Brauen rendono questo esordio letterario una lettura appassionante per chiunque, non soltanto dunque per i sostenitori della causa tibetana o per i cultori di antiche tradizioni spirituali.