Chiunque voglia comprendere la natura del rappporto tra politica e scienza non può prescindere dalla lettura delle due famose conferenze di Weber, da lui tenute a Monaco nel 1917-1919, ora ripubblicate negli Oscar Mondadori, e introdotte da Massimo Cacciari: La scienza come professione - La politica come professione.
Vanno subito segnalati due punti interessanti, e dunque degni di riflessione.
Il primo è che per Weber lo scienziato “per professione”, deve mantenersi al di sopra della mischia: può scegliere, sulla base dei propri valori, un tema di ricerca, ma se i poi fatti dovessero contraddire le sue ipotesi, non gli resterebbe che modificare queste ultime. Un professore, se non vuole trasformarsi in demagogo, deve indicare allo studente solo le alternative e le conseguenze di ogni azione politica: “Se volete questo o quell’altro scopo, allora dovete mettere in conto questa o quell’altra conseguenza concomitante”, eccetera (p.40). La scienza, nota ancora Weber, è al “servizio dell’autoriflessione e della conoscenza di connessioni oggettive, e non un dono grazioso di visionari e profeti, dispensatrice di beni di salvezza e di rivelazioni” (p.42).
Il primo è che per Weber lo scienziato “per professione”, deve mantenersi al di sopra della mischia: può scegliere, sulla base dei propri valori, un tema di ricerca, ma se i poi fatti dovessero contraddire le sue ipotesi, non gli resterebbe che modificare queste ultime. Un professore, se non vuole trasformarsi in demagogo, deve indicare allo studente solo le alternative e le conseguenze di ogni azione politica: “Se volete questo o quell’altro scopo, allora dovete mettere in conto questa o quell’altra conseguenza concomitante”, eccetera (p.40). La scienza, nota ancora Weber, è al “servizio dell’autoriflessione e della conoscenza di connessioni oggettive, e non un dono grazioso di visionari e profeti, dispensatrice di beni di salvezza e di rivelazioni” (p.42).
Il secondo punto è che l’esercizio della “la politica come professione”, impone di credere fermamente nei valori (“etica dei principi”) e di saper padroneggiare le situazioni prevedendo le conseguenze delle proprie azioni (“etica delle responsabilità”). Perciò, scrive Weber, “ l’etica dei principi e l’etica della responsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto insieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la ‘vocazione per la politica’ “ (p. 133). E come si distingue il vero politico? Dal fatto che non è disposto a cedere “anche se il mondo (…) è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli”. E’ colui che sconfitto dice: “Non importa andiamo avanti” (135).
Quanto alla lunga introduzione di Massimo Cacciari, va detto che al filosofo-sindaco, sfuggono le basi sociologiche del pensiero weberiano. Weber è un pluralista: per il sociologo tedesco la società è frutto del complesso equilibrio tra forze sociali differenti . Politica e scienza, se correttamente intese, devono rispettare, a prescindere dai contenuti di verità difesi dalle diverse forze sociali, l'equilibrio pluralistico della società. Pertanto, la tesi cacciariana sul valore tragico della scelta in Max Weber, non riguarda "ogni singola scelta" (del politico, dello scienziato, ecc. ) ma la preservazione dell'equilibrio pluralistico della società. Una volta accettato il pluralismo (ecco la "grande scelta" che Weber impone a politici e scienziati), ci si può anche dividere, e laicamente (senza quel pathos, enfatizzato da Cacciari...), su tutto il resto.
Il punto non è secondario, perché se si accetta la tesi di Cacciari, e si sottovaluta, come dire, il pluralismo a priori weberiano, si rischia poi di mettere Weber sullo stesso piano di pensatori socialmente monisti, e decisionisti, come Carl Schmitt, per i quali il politico, come scelta, conflitto e decisione viene prima del pluralismo sociale, e che comunque non ha come compito la sua preservazione. Mentre in Weber è l'accettazione del pluralismo sociale che deve precedere la scelta.
Il che spiega perché Weber, a differenza di Carl Schmitt, sia ancora oggi apprezzato dalla cultura liberaldemocratica.