A cosa serve la poesia?
di Miro Renzaglia - 10/05/2006
Fonte: mirorenzaglia
La poesia non serve a niente, si sa.
Proprio perché non serve, però, è indispensabile. In un mondo in cui tutto si calcola sulla base dell’utile, l’inutile dire della poesia è antidoto alla mercificazione dell’essere e dell’esistere. Anche se pensiamo di farne a meno, in realtà non è così. Senza esserne sempre consapevoli, certe tecniche pubblicitarie, certi headline, certi titoli di giornali, certi slogan e i versi di non poche canzoni d’autore ci veicolano poesia.
Certo, anche chi la crea in questi ambiti, poche volte accetterà di confessarsi poeta e di battezzare la sua operazione come poesia. Gli è che, così come ce li hanno imposti a scuola, la poesia e i poeti godono di una reputazione tanto pessima da disaffezionare l’autore prima ancora del lettore.
Se poi ci aggiungiamo quell’autentica calamità che sono le decine di migliaia di autoedizioni annue, prodotte dall’invincibile armata degli omeridi domenicali, beh! riesco persino a capire quella signora che, sfogliando a caso i libri sul banco di una libreria, ritrasse le mani come se, al contatto di una raccolta di versi, si fosse bruciata le dita.
E non parliamo, per carità, del circuito dei reading poetici: quelle sciagurate congreghe dove si va ad affliggere il prossimo (quasi sempre, però e per fortuna, altri sfigati che a rotazione si cambiano di posto col poeta (?) di turno): roba che già Leopardi nelle Operette Morali bollava come insopportabile.
E, allora, vi sarebbe lecito domandarmi: se le cose stanno così, che senso ha la tua perorazione?
Innanzi tutto - vi risponderei - perché la poesia non è un monolite da prendere o scartare in blocco. Provate a praticarla come fate con la musica: scegliete il vostro genere; individuate in quel genere l’autore o gli autori che lo interpretano meglio; trovate nella loro produzione quei due o tre testi o, anche, solo pochi versi e lasciate che lentamente vi vadano a memoria (le arti sono mitologicamente figlie di Mnemosine e l’ippocampo, la loro residenza naturale). Scommettiamo che la cosa non vi dispiacerà?
In secondo luogo, peroro la causa smarrita, se non persa, della poesia perché, per scrivere, ho bisogno di parole. Ne abbiamo bisogno tutti, in realtà: scrittori e non. E se ognuno è libero di andarsele a cercare dove vuole, a me sembra che proprio lì, nella poesia, la ricerca del “giusto termine” venga premiata con maggiore puntualità e precisione. Perché - vedete - il poeta ha un rapporto diverso con la parola rispetto a qualsiasi altro scrittore: lui non si accontenta del significato, vuole la forma. Anzi: vuole addirittura la forma prima del significato, perché è al “bello” che aspira. E, caso vuole, il “bello” della parola è nella sua forma.
Terzo luogo. Nel film “Palombella rossa” (se non sbaglio), Nanni Moretti se la prende con un tizio che usa la parola “trend” e, quasi offeso, lo fulmina: “Io non parlo così, io non penso così”. Parlare male, per stereotipi o in modo impreciso, denuncia un pensiero approssimativo o difettoso. Ecco, anche senza scomodare il pensiero-poetante di Heidegger, se cominciassimo a capire che il pensare ha un’attinenza indissolubile con la parola, forse potremmo tornare a considerare la poesia un luogo dove allenarsi ad una corretta comunicazione fra cosa da dire e modo di dirla.
Purché sia poesia. Purché non sia porcheria.