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Accanto alla tigre. Intervista a Lorenzo Pavolini

di Lorenzo Pavolini - Fiorenza Licitra - 06/08/2010

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Nel libro scrivi che la reticenza della tua famiglia rispetto alla storia di tuo nonno ti ha salvato, ma non ha anche creato “il fantasma Pavolini”?

 

«Sì, il fatto che in famiglia non mi sia stata trasmessa alcuna impostazione su come avvicinarmi a questa figura famigliare mi ha lasciato molto libero. Questo non vuol dire che io non comprendessi cosa significasse la figura di Pavolini per mio padre o per mia nonna, però il fatto che nessuno si sia preoccupato di dirmi cosa ne dovessi pensare mi ha permesso di formarmi un’idea più svincolata e dunque mi ha salvato: diventando adulto non ho dovuto abbattere nessuna posizione. In effetti il luogo comune che vuole nella reticenza una forma di rimozione negativa, può essere in alcuni casi, un mantenere l’equilibrio con il tempo delle guerre civili, che esigono una decantazione dei dolori e delle ferite. Sono passati più di sessant’anni dalla fine della guerra, sappiamo benissimo che i testimoni diretti cominciano a essere sempre meno, ma è anche vero che le distanze delle ferite fanno sì che si inizi a uscire dal tunnel. In quel tipo di reticenza mi sono educato a vedere un rispetto, una pietas; soprattutto ho imparato che la comunicazione tra le persone non è basata solo su quello che ci si dice e sulla retorica mediatica di dire tutto fino in fondo. Solo alla fine del libro, alla reticenza segue il riaprirsi di un dialogo».

 

Sono stati i libri su tuo nonno e certe persone in particolare a venire da te e non il contrario. Tu che neghi il destino, non ti sembra questa invece una forma di destino?

 

«Non sono davvero una persona che crede nel destino, non sono un fatalista, però sono abbastanza disponibile al mondo e mi sono accorto che si possono scrivere delle storie anche solo per ascoltarne delle altre. Negli anni ho visto che c’erano delle persone che pensavano che io potessi raccontar loro qualcosa su questa figura così contraddittoria e misteriosa, sul perché un intellettuale come lui fosse paradossalmente un violento…ma poi tutto il 900 è costellato di intellettuali che scelsero la strada della violenza. Il fatto che le mie risposte fossero pari a quelle che si potevano leggere sui libri mi ha anche portato a interrogarmi e a riflettere su questa storia, che un po’ mi è tornata addosso, senza però nessuna retorica del destino».

 

Che sentimento hai depositato in questa vicenda storica?

 

«Sicuramente all’inizio c’è stato un sentimento d’imbarazzo, non sapendo raccontare una storia a chi veniva a chiedermela; via via, pur non avendolo conosciuto, ho compreso il significato e il valore che ha avuto Alessandro Pavolini per la mia famiglia e ho sentito una forma di pietas. Per questo la dedica è rivolta ai padri: mentre scrivevo il libro, pensavo a mio padre e insieme a cosa volesse dire sentirsi figli mentre si diventa adulti; è un sentimento strano perché tiene il rispetto da una parte e dall’altra l’istinto di ribellarsi. Pensavo a mio padre che non ha avuto il suo durante la mia crescita. La generazione che ha dato vita al fascismo e quella successiva, che ha dato vita all’ Italia repubblicana, hanno avuto padri assenti perché affaccendati in guerre  e conquiste, così i figli hanno preso coscienza del mondo molto autonomamente, nel bene e nel male. Si prova quasi un’invidia rispetto a quelle generazioni: sono cresciute prematuramente e hanno dovuto prendere quell’impegno nei confronti della vita che oggi non c’è più.»

 

Ci sono delle immagini poetiche che attraversano le pagine del tuo libro. Vuol dire che in fondo alla brutalità della guerra è possibile trovare uno scorcio di bellezza?

 

«Io non avverto una poeticità della guerra, del sacrificio, del dialogo con i morti. Ho un afflato poetico per quel che voleva dire l’amicizia rispetto al dividersi e al tradirsi.  Ho dovuto prendere una distanza dalla storia, come se mi fossi trovato di fronte a un quadro: occorreva stabilire la distanza dall’immagine, capire se volevo avvicinarmi tanto da vederne la materia, oppure allontanarmi per scoprire se provavo ancora attrazione. In alcuni momenti quest’immagine mi ha attratto come se mi ci fossi perso dentro e provavo un sentimento di umanità, di poesia. Quando ho descritto l’impressione che mi ha fatto riascoltare la voce di mio nonno è stato un po’come abbandonarmi. Mi sono accorto della questione inspiegabile per cui uno può sentire una forma quasi di poesia nel rapporto con una persona che non ha mai conosciuto, ma questo riguarda la visione che hai di quell’immagine».

 

Durante o anche dopo la stesura di Accanto alla tigre hai trovato risposte nuove ai tuoi interrogativi?                       

 

«Ci sono state risposte ad alcune questioni, anche se non sono mai assolute e definitive. E’ un libro che contiene diversi interrogativi, come la questione dell’intransigenza, del dialogo con i morti che ti fa pensare a quanto noi oggi siamo distanti dal pensiero della morte e dal ragionamento del passato come questione viva. Rendersi conto di come questi discorsi fossero avvertiti negli anni ’20 e pensare a quel tipo di intransigenza e di determinazione nell’andare fino in fondo sono già delle risposte. E’ anche vero che chi nella vita va fino in fondo lo fa anche perché ha stabilito nella sua vita un sorta di patto con i suoi morti, con il suo passato inamovibile, ed è per questo che si ha una determinazione molto forte. Un libro, però, va scritto non per trovare delle risposte, ma più per porsi delle domande. Inoltre è perfetto ragionare sul ‘900: siamo in un Paese che non va avanti, inattuale e quindi cosa c’è di meglio che continuare ad analizzare le radici di una storia per comprenderci? ».

 

Non cavalcare la tigre è la scelta di una distanza che assumi dal passato?

 

«Sì, e la distanza scelta per rapportarmi con questo passato è quella di stargli accanto. Una distanza che non ti permette di guardare le cose direttamente negli occhi, che non ti consente di dominare il passato, cavalcando la tigre come possibilità di controllo. Ho scelto di stare accanto alla tigre, bella e pericolosa, che mi affascina e mi spaventa. Sono stato davvero molto influenzato dal libro di Saroyan e dall’immagine poetica di un ragazzo che gira per le strade di New York con una tigre accanto, che però vede soltanto lui, che è la sua forza, ma anche la sua follia. Devo dire che il titolo del libro è venuto in corso d’opera, il titolo iniziale era Il libro della reticenza. Alla fine ho deciso di stare accanto a questa tigre nella distanza, che è un modo di esprimere un equilibrio».                                                                             

 

Alessandro Pavolini è rimasto Alessandro Pavolini e non è diventato tuo nonno?

 

«Ho utilizzato l’espressione “mio nonno” solo all’inizio del libro e poi effettivamente ho interposto sempre una certa distanza utilizzando un nome e un cognome. Scrivere un libro del genere è capire anche il punto di equilibrio tra l’autobiografia ombelicale e narcisistica e qualcosa che abbia un senso più collettivo. Mi sono spesso chiesto se stessi raccontando una storia che interessasse me soltanto oppure se stessi rispondendo alle domande che mi rivolgevano più persone, muovendomi su un campo collettivo di una narrazione e non di un diario intimo. Nel tentativo di mantenere questo equilibrio ho sentito la necessità di continuare a dire “Alessandro Pavolini”, l’uomo cioè che è nei libri di storia e nella memoria degli italiani. Anche alla fine del libro, anzi tanto più, Alessandro Pavolini resta Alessandro Pavolini perché il mio non è un romanzo famigliare».