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Se i cinesi si portano via pure il calcio

di Marcello Foa - 06/08/2010

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Negli anni Ottanta erano i giapponesi: sembrava volessero conquistare il mondo. Bravi al punto da togliere il sonno agli americani, che, nel tentativo di contrastarli, mobilitarono persino Hollywood, la quale alimentò il mito del nipponico mafioso, infido, ingiusto. Poi la Borsa di Tokyo crollò e l’incubo svanì. Ma altri rivali sono emersi nel frattempo. Gli arabi, che già negli anni Settanta, con il primo grande shock petrolifero ci fecero pagare un conto salatissimo, sono tornati ricchissimi, da quando il petrolio viaggia stabilmente sopra i 50 dollari al barile. E spavaldi. Spuntano dappertutto, ultimamente anche in Unicredit, oltre che nel magico mondo del football, che dal punto di vista finanziario raramente è redditizio, ma assicura una popolarità immediata, planetaria, e tanto divertimento. Lo sceicco di Abu Dhabi, Mansour bin Zayed al-Nahyan, si è tolto lo sfizio, acquistando il Manchester City, nella speranza di emulare un altro prototipo di ultramiliardario, quello russo, sublimato Roman Abramovich, patron del trionfante Chelsea.
Il calcio riflette le gerarchie economiche tra le nazioni e dunque il nuovo mondo globalizzato, fortissimamente promosso da noi occidentali, non sempre con la dovuta saggezza. Pensavamo di poter dominare il mondo, esportando il nostro know-how, impiantando fabbriche all’estero, facendo leva sulla nostra potenza finanziaria. Scopriamo che gli altri hanno imparato fin troppo bene la lezione e ora prendono il largo.

Ex colonizzatori, come i britannici, si scoprono colonizzati e il football diventa il paradigma di un Occidente, che è glorioso, progredito, ma tragicamente indebitato, dunque ricattabile. Dagli Arabi, dai russi e, naturalmente, dai cinesi.

La novità è clamorosa: un magnate, Kenny Huang, starebbe per comprare il Liverpool, una delle squadre gloriose della Premier League, messo in ginocchio da un passivo di 237 milioni di sterline. Si trattasse solo dell’ennesimo riccone sedotto dal calcio inglese, varrebbe una colonna; ma la vera notizia è dentro la notizia. Secondo il Times, Huang agirebbe per conto di China investment corporation (Cic). E qui viene il bello, perché la Cic non è una delle tante società d’investimento private, bensì il fondo sovrano della Repubblica popolare cinese, creato nel 2007 per investire lo stratosferico surplus dei conti pubblici. Ovvero, il governo cinese vuole comprare il Liverpool. Nemmeno Gheddafi ha osato tanto.
Non è detto che l’affare vada in porto, anche perché l’indiscrezione del Times, ha suscitato un vespaio in patria. La City di Shanghai si chiede se un investimento di questo tipo sia davvero indicato per un fondo che dovrebbe gestire in modo oculato la ricchezza dei contribuenti. Viste le polemiche, è verosimile che la China investment corporation faccia un passo indietro o che prenda tempo.

Qualunque sia l’esito della trattativa, la svolta è innegabile. Di immagine. Fino a oggi Pechino si era mossa con raffinata oculatezza sui mercati internazionali, mirando a stabilire accordi con Paesi ricchi di materie prime, come ha fatto in Africa, o con società straniere ad altissima tecnologia, vedi le numerose partecipazioni azionarie in Europa e in America, o ad acquisire nuovi sbocchi commerciali per i beni Made in China. Ha tentato di acquistare il Pireo, approfittando della crisi finanziaria in Grecia; ora ha messo gli occhi su Taranto che vorrebbe trasformare nel più grande porto d’Europa.

Efficace, discreta, quasi invisibile; la Cina del boom economico applica l’insegnamento degli antichi strateghi cinesi. Ma, forse, bisognerebbe dire applicava. Questa Pechino, che improvvisamente si lascia sedurre dalla Premier League, si comporta come quegli imprenditori di successo, esemplari padri di famiglia, che improvvisamente, a cinquant’anni, sentono l’impulso di esibire la propria ricchezza e si comprano la cabriolet fuoriserie.

La Cina non si accontenta più di prosperare nell’ombra, non riesce più a frenare il proprio ego. Si scopre vanitosa, cerca l’applauso del mondo. Lontana dalle sue tradizioni e davvero globalizzata. Anche nell’aspetto. Anzi, nell’anima.