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Dobu: l’isola paradisiaca dove il Diavolo cammina ancora su piedi umani

di Francesco Lamendola - 10/08/2010

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È noto come gran parte del mito illuminista del “buon selvaggio” nacque allorché le spedizioni scientifiche inglesi e francesi del XVIII secolo si inoltrarono nel Pacifico meridionale e vennero a contatto con quelle popolazioni isolane, che vivevano appartate e remote dalle grandi civiltà del Vecchio Mondo.

La mitezza del clima, l’esuberanza della vegetazione, l’estrema limpidezza delle acque, il mistero degli antichi megaliti - come quelli dell’Isola di Pasqua - e, non ultima, l’avvenenza delle “vahiné”, le fanciulle dei Mari del Sud, confluirono alla nascita di tale mito, reso ancor più seducente dalla lunghissima traversata che i marinai europei dovevano affrontare per giungervi, in condizioni di estremo disagio fisico e sottoposti a una crudele disciplina militare.

Alcune isole ed arcipelaghi della Melanesia, invero, mal si prestavano all’immagine del “buon selvaggio”: popolate da feroci tribù di cannibali, privi sia delle attrattive dell’ospitalità che di quelle della bellezza fisica (almeno secondo le categorie occidentali), sembravano piuttosto le isole dell’Inferno, sulle quali crudeli stregoni esercitavano il loro tirannico potere ispirato agli esecrabili rituali della magia nera.

Tale il caso di Dobu, un’isola dell’arcipelago D’Entrecasteaux, che si trova oltre l’estremità sud-orientale della Nuova Guinea; precisamente, essa sorge a sud dell’isola Fergusson e a nord di quella di Normanby. I suoi abitanti erano cannibali fino a tempi non troppo lontani e, per giunta, assidui praticanti delle peggiori forme di stregoneria.

Dove stava la verità, dunque? Chi aveva ragione?

Le isole del Sud Pacifico erano il miraggio paradisiaco che aveva incantato gli ammutinati del «Bounty» e sedotto artisti come Robert Louis Stevenson e Paul Gauguin, oppure i luoghi assurdi e crudeli descritti da scrittori come Jack London nel romanzo «Adventure» o come Frederic Prokosch ne «Il naufragio della “Cassandra”»?

In realtà, e fatta la tara alle aspettative e alle indebite sovrapposizioni del paradigma culturale della modernità, resta il fatto che bisogna distinguere da caso a caso: perché le distanze, nell’Oceano Pacifico, sono immense; e le differenze culturali tra le varie società isolane - specialmente fra quelle polinesiane e melanesiane - lo sono altrettanto.

Ma torniamo all’isola di Dobu.

L’antropologo neozelandese Reo Fortune - che fu sposato a Margaret Mead -  soggiornò sull’isola nel 1928 e vi condusse uno studio sul campo, definendo la società dell’isola “paranoide” e osservando che i suoi membri erano letteralmente ossessionati dai riti della magia nera, nonché singolarmente inclini alle pratiche del sesso e della violenza. Il suo libro «Sorcerers of Dobu: the social anthropology of the Dobu Islanders of the Western Pacific» (London, Routledge and Kegan Paul, 1963) costituisce un classico, se si vuole, anti-roussoiano.

Poco dopo, l’analisi di Fortune è stata ripresa e fatta conoscere al grande pubblico dal saggio della famosa etnologa Ruth Benedict «Modelli di cultura», in cui i Dobu sono descritti come tetri, vendicativi, schizofrenici, e posti a confronto con altri due popoli “primitivi”: i Kwakiutl della costa nord-occidentale americana, folli d’ambizione e di mania di grandezza, e gli Zuni del Sud-ovest degli Stati Uniti, apollinei, moderati e cerimoniosi.

Poi, siccome l’antropologia non è precisamente una scienza esatta e la tarda modernità si adopera a revisionare e magari ribaltare continuamente le proprie acquisizioni culturali - talvolta a ragione e talaltra a torto -, non poteva mancare un tentativo di riabilitare i Dobu dalla loro cattiva fama e ci ha pensato Susanne Kuehling, nel 2005, con il suo libro «Ethics of Exchange on a Massim Island, Papua New Guine» (Honolulu, University of Hawaii Press).

Quello della Kuehling, peraltro, ci sembra un tentativo forse benintenzionato, ma anacronistico e ispirato piuttosto da un’esigenza di tipo ideologico: recuperare ad ogni costo il mito del “buon selvaggio”, senza il quale l’uomo occidentale, abbandonato alle proprie frustrazioni e ai propri sensi di colpa (anche e soprattutto nei confronti delle culture “altre”), decisamente non riesce a sopravvivere.

Certo, il problema è grosso: si tratta, niente di meno, che del relativismo culturale. Come è possibile giudicare, dall’interno di un certo paradigma culturale, uomini e istituzioni sociali che appartengono ad un paradigma totalmente diverso? L’antropofagia, per esempio: è chiaro che genera raccapriccio nel pubblico occidentale; ma è altrettanto chiaro che essa non può venire spiegata, e tanto meno compresa, se si fa astrazione dal contesto socioculturale in cui è nata e si è sviluppata, attraverso vicende che a noi sono solo parzialmente note.

Certo, il buon antropologo (come il buon storico) non è colui che giudica ed emette sentenze, ma colui che si sforza, semplicemente, di capire ciò che appartiene ad una realtà economica, sociale e culturale molto diversa dalla sua: e, per farlo, deve giudicare il meno possibile. Ma fino a che punto questo è possibile? Non è forse vero che ogni categoria puramente descrittiva - linguistica, ad esempio - sottende, sempre e comunque, anche delle ben precise categorie filosofiche, religiose, estetiche e morali?

Sia come sia, tanto Fortune che la Benedict non hanno applicato ai Dobu le categorie ed i giudizi morali della civiltà occidentale moderna; si sono limitati a guardarli con gli occhi dei loro stessi vicini melanesiani, ossia degli abitanti delle altre isole del gruppo D’Entrecasteaux.

Ma lasciamo la parola a Ruth Benedict nella descrizione della società dei Dobu (da: «Modelli di cultura»; titolo originale: «Patterns of Culture»,  Boston, New York, Houghton Miffin Company, 1934; traduzione italiana di Elena Spagnol, Milano, Feltrinelli, 1960, 1970, pp. 135-75, passim):

 

«Di loro [dei Dobu], si parla soprattutto come di gente pericolosa. Si dice che siano maghi con poteri diabolici e guerrieri  che non si arrestano davanti a nessuna efferata crudeltà. Un paio di generazioni, prima che intervenissero i bianchi, erano cannibali; e in una zona dove l’antropofagia è rara.  Essi sono, per gli abitanti delle isole tutt’attorno, selvaggi temuti, di cui non ci si fida.

E bisogna dire che meritano la fama di cui godono fra i loro vicini. Sono privi di legge, perfidi e sleali pronti a darsi addosso l’un l’altro. Non possiedono l’efficiente organizzazione del lavoro degli abitanti delle Trobriand, che, guidati da capi rispettati, mantengono pacifici e continui  scambi di merci e di privilegi. In Dobu non ci sono capi, non c’è nessuna organizzazione politica, né, in senso stretto, nessuna legalità. Questo, non perché i suoi abitanti vivano in uno stato di anarchia come l’”uomo naturale” do Rousseau non ancora legato al contratto sociale, ma perché le forme sociali vigenti in Dobu attribuiscono il massimo valore alla malvagità e alla perfidia sleale,  e ne fanno le virtù riconosciute dalla società. […]

Coloro che condividono lo stesso ratto di costa,coloro che compiono lo stesso lavoro quotidiano, sono quelli che si fanno l’un altro del male: male tanto soprannaturale quanto reale. Sono loro che danneggiano il raccolto del vicino, loro che gettano la confusione nei suoi affari economici, loro che causano malattie e morte. Tutti conoscono pratiche magiche adatte a questi scopi e ne fanno uso, come vedremo, in tutte le occasioni. La magia è indispensabile per cavarsela entro i confini del proprio territorio; ma non si pensa che conservi la sua forza al di fuori della nota e familiare cerchia di villaggi. Le persone che incontri ogni giorno sono le streghe e gli stregoni che minacciano i tuoi affari.»

 

Segue una raccapricciante descrizione dell’istituto del matrimonio: che, svolgendosi fra membri di villaggi diversi, prevede una serie incessante di umiliazioni per lo sposo da parte dei parenti della sposa; rinfocola gli odî tribali e i rancori domestici; e si riflette sulla vita intima dei due coniugi, al punti che altissimo è il numero degli adulterî, dei divorzi e perfino degli uxoricidi, generalmente mascherati.

Interessante è poi il legame fra magia e religione, nel quadro tracciato dalla Benedict:

 

«la violenza della brama di possesso, e la misura in cui questa implica la volontà di danneggiare altri - che contraccambiano con sospetto e con altrettanta malvagità - si riflette grossolanamente nella loro religione. Tutta la religione dell’Oceania vicina a Dobu è uno dei luoghi del mondo più ricchi di pratiche magiche, e quegli studiosi che definiscono religione e magia come forme escludentisi a vicenda e opposte l’una all’altra dovrebbero negare la religione a Dobu. Ma parlando da un punto di vista antropologico, magia e religione sono modi complementari l’uno all’altro di affrontare il soprannaturale, giacché la religione consiste essenzialmente nello stabilire buone relazioni personali con quel mondo, e la magia nell’usare tecniche che automaticamente piegano le forze soprannaturali al volere dell’uomo. In Dobu non vi è propiziazione degli esseri sopranaturali, non doni né sacrifici destinati a cementare l’amicizia fra dèi e mortali. Gli esseri soprannaturali che Dobu conosce sono pochi nomi magici segreti, la conoscenza dei quali, conferisce il potere di comandare. Il nome degli esseri sopranaturali è dunque sconosciuto a molti isolani; si conoscono solo pagando o ricevendoli in eredità. Questi nomi importanti non sono mai pronunciati Ad alta voce, ma mormorati appena, così che nessuno possa udire. Tutte le credenze che vi si connettono si riferiscono più alla magia del nome che non a una propiziazione religiosa dei soprannaturali.

Ogni attività possiede i propri incantesimi, e una delle più sconcertanti credenze è quella che in nessun campo dell’esistenza si possa raggiungere un risultato senza ricorrere alla magia. […]

Gli incantesimi di malattia sono do una cattiveria tutta particolare. Ogni uomo o donna nel villaggio di Tewara [l’isolotto in cui soggiornò l’antropologo Fortune] ne possiede da uno a cinque. Ciascuno si riferisce a una particolare malattia, e la persona che conosce l’incantesimo possiede anche la formula per allontanare quella stessa malattia. Alcune persone hanno il monopolio di certe malattie, e sono quindi sole a possedere il potere di provocarle o quello di curarle. Chi dunque ha l’elefantiasi o la scrofola sa chi ringraziare.  Il possesso di tali formule dà una grande potenza ed è molto desiderato.

Le formule magiche danno modo a chi le possiede di esprimere la malevolenza nel modo più aperto permesso nella loro cultura. Di solito una tale espressione è tabù: l’uomo di Dobu non si arrischia a lanciare un’aperta sfida quando vuol recare danno a qualcuno. È anzi ossequioso e raddoppia le manifestazioni di amicizia, perché pensa che la stregoneria acquisti forza quanto più lui si fa intimo alla persona che vuole colpire, e aspetta l’occasione,. Ma nel lanciare l’incanto sul nemico o nell’insegnarlo al figlio della propria sorella [la società di Dobu segue la linea di discendenza matrilineare], può dare sfogo a tutta la sua cattiveria: il suo nemico non può vederlo né udirlo, e non c’è più bisogno di fingere. Sussurra le parole dell’incantesimo soffiandole sugli escrementi della vittima  o in un ramoscello rampicante che depone attraverso  il sentiero di dove passerà il nemico, nascondendosi poco lontano per accertarsi che la vittima davvero lo sfiori. Nel comunicare incantesimo, lo stregone imita in anticipo l’agonia delle fasi finali del male che sta infliggendo: si contorce per terra, urla di spasimo. Solo così, dopo una fedele riproduzione dei suoi effetti, l’incantesimo funzionerà a dovere. Lo stregone è soddisfatto. Quando la vittima ha sfiorato il viticcio egli lo porta con sé e lo porta nella sua capanna, e quando vuole che il suo nemico muoia, lo brucia. […]

 

Segue la descrizione del “wabuwabu”, una pratica commerciale truffaldina di cui gli isolani sono particolarmente fieri; della pratica del veneficio associata a quella della magia mera, per eliminare un nemico occulto; e della smisurata “pruderie” che vieta ogni forma di pubblicità della propria vita sessuale: che però, a differenza di quella anglosassone, dominata da una analoga “pruderie”, è straordinariamente promiscua e sfrenata, ma, al tempo stesso, avvelenata dal tarlo della gelosia e di molti altri sentimenti negativi.

 

«Gli abitanti d Dobu, dunque, sono tetri e musoni, pieni di pudore a appassionati, consumati dalla gelosia, dal sospetto e dal risentimento. Ogni momento di prosperità sembra loro strappato a un mondo maligno, con un conflitto in cui il nemico ha avuto la peggio. L’uomo buono è quello che ha a suo credito molte di queste vittorie, come ognuno può arguire dal fatto che egli è ancora vivo e ha conseguito anche una certa prosperità. Si dà per certo che ha rubato, ha ucciso bambini e le persone più vicine a lui con la stregoneria, ha commesso truffe ogni volta che ne ha avuto il coraggio. […]

Dietro ogni dimostrazione d’amicizia, dietro alle apparenze della cooperazione, in ogni campo dell’esistenza, l’uomo di Dobu crede di diverso aspettare solo inganno e perfidia. Gli altri si sforzano con ogni energia di gettare confusione e rovina nei suoi piani. […]

In Dobu si coltivano dunque forme estreme di animosità e di malignità che altrove le istituzioni hanno ridotte asl minimo. Le istituzioni di Dobu le esaltano invece al più alto grado. Dobu vive, senza freno, i peggiori incubi in cui l’uomo attribuisce all’universo una volontà malvagia, e secondo la sua concezione della vita la virtù consiste nello sceglie una vittima su cui si possa dar libero sfogo alla cattiveria attribuita sia alla società umana, sia alle forze della natura. Tutta l’esistenza umana è concepita come una lotta all’ultimo sangue in cui antagonisti mortali si affrontano in un conflitto in cui ciascuno dei due lotta per la vita. Il sospetto e la crudeltà sono le armi più apprezzate, e non si concede pietà, né la si chiede.»

 

Anche se fosse vera solo una metà delle osservazioni fatte da Fortune e riprese dalla Mead, resterebbe pur sempre il fatto che la struttura sociale di Dobu è quanto di più simile noi possiamo concepire - e forse non noi soltanto - al concetto dell’Inferno  sulla Terra.

Un mondo in cui tutti, come voleva Hobbes, sono lupi per gli altri esseri umani; in cui tutti praticano la magia nera a danno dell’altro, al fine preciso di danneggiarlo quanto maggiormente possibile, farlo ammalare, ucciderlo; in cui il veleno e altre forme di assassinio coronano una vita matrimoniale nata nell’ostilità e protratta nel rancore e nell’umiliazione quotidiana; in cui il successo nella coltivazione della terra e nel commercio si basa sul perenne tentativo di ingannare e truffare l’altro, onde provocarne la rovina economica; in cui ogni ramo posto sul sentiero può nascondere il maleficio di uno stregone; in cui la dissimulazione, la perfidia, la slealtà e il tradimento sono eretti a sistema e, addirittura, celebrati come la forma più nobile e bella di esistenza: tutto questo somiglia molto più ad un incubo o ad un romanzo dell’orrore, che a una società realmente esistente.

Eppure non si tratta affatto di fantasie, né di una distorsione dovuta all’approccio culturale occidentale, ma di dati di fatto precisi e documentati.

Per esempio, quando uno degli uomini più rispettati di Dobu mise a parte Fortune di un incantesimo per rendersi invisibile, si affrettò a consigliargli di farne uso per penetrare nei negozi di Sydney (la grande città più vicina, sulla costa orientale dell’Australia) e svaligiarne a piacere tutti i negozi che voleva; altro uso, per tale formula magica, non gli  veniva neppure in mente.

La verità è che il mito del buon selvaggio è tanto falso e ingannevole quanto il mito, opposto e speculare, del selvaggio crudele e malvagio, assolutamente irrecuperabile alla civiltà. Le diverse culture tradizionali sono estremamente differenziate l’una dall’altra; assai più di quanto non lo siano, nelle loro strutture fondamentali e nelle loro istituzioni sociali, le civiltà che si autodefiniscono evolute.

Il caso di Dobu è uno di quelli che illustrano fino a che punto possa giungere la miseria morale dell’uomo; fino a che punto il male possa essere rovesciato e chiamato bene, ed il bene, male; fino a che punto, leopardianamente, gli uomini siano capaci di dedicarsi con il massimo impegno a rendersi la vita impossibile l’uno con l’altro.

Non erano tutte invenzioni o esagerazioni i racconti dei missionari cristiani relativi alla crudeltà gratuita e alla malevolenza sistematica di certe popolazioni extraeuropee.

Certo, sovente gli Europei non avrebbero titoli per ergersi a giudici del livello etico di altre popolazioni; da tale constatazione, tuttavia, non consegue che si possa parlare solo degli aspetti negativi della società occidentale, mentre diventerebbe una forma di razzismo o di etnocentrismo parlare dell’antropofagia, della stregoneria o della diffusa e sistematica cattiveria di certe società tradizionali.

«Qui mira e qui ti specchia..», si potrebbe dire agli attardati nipotini di Rousseau - parafrasando il Leopardi de «La ginestra» - mostrando loro l’impietosa realtà di Dobu, per guarirli dalla loro ingenua o troppo scaltra infatuazione primitivista.

Al tempo stesso, potremmo formulare uno scomodo interrogativo: quando impareremo a guardare agli uomini e alla loro storia senza pregiudizi ideologici - né di segno negativo, né di segno positivo -, per considerarli, puramente e semplicemente, in base a ciò che essi sono?