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Cosa c'è che non va nell'ordine economico globale?

di Ha-Joon Chang - 18/08/2010





Ho un figlio di sei anni. Si chiama Jin-Gyu. Vive a spese mie, tuttavia potrebbe benissimo guadagnarsi da vivere. Pago per il suo alloggio, il cibo, l’educazione e le cure sanitarie. Ma milioni di bambini della sua età hanno già un lavoro. Daniel Defoe nel 18° secolo capì che i bambini sono capaci di guadagnarsi da vivere già dall’età di 4 anni.

Inoltre, lavorare farebbe un mondo di bene al carattere di Jin-Gyu. In questo momento sta vivendo in una bolla economica con nessun senso del valore del denaro. Non apprezza affatto gli sforzi che io e sua madre facciamo per il suo bene, sovvenzionando la sua esistenza oziosa e proteggendolo dalla dura realtà. È stra-protetto e ha bisogno di essere esposto alla competizione, in modo da diventare una persona più produttiva. Pensandoci bene, più viene esposto alla competizione e prima questo accade, migliore sarà il suo futuro sviluppo. Lo sbatterebbe in una mentalità che è pronta al duro lavoro. Dovrei fargli lasciare la scuola e trovarsi un lavoro. Magari potrei trasferirmi in un paese dove il lavoro minorile è ancora tollerato, se non legale, per dargli più opportunità d’impiego.

Posso sentirvi dire che devo essere pazzo. Miope. Crudele. Mi dite che devo proteggere e nutrire il bambino. Se conduco Jin-Gyu nel mercato del lavoro a sei anni, potrebbe diventare un astuto lustrascarpe o anche un prosperoso venditore ambulante, ma non diventerà mai un neurochirurgo o un fisico nucleare – il che richiederebbe come minimo un’altra dozzina di anni della mia tutela e dei miei investimenti. È chiaro che, anche da un mero punto di vista materialistico, sarebbe più saggio per me investire nell’educazione di mio figlio piuttosto che gongolare sui soldi che ho messo da parte non mandandolo a scuola. Dopo tutto, se avessi ragione, Oliver Twist avrebbe fatto meglio ad essere un borseggiatore per Fagin, piuttosto che essere salvato dallo sviato Buon Samaritano Mr. Brownlow, il quale lo ha privato dell’opportunità di restare competitivo nel mercato del lavoro.

Tuttavia questo modo di pensare è essenzialmente il modo in cui gli economisti liberalisti giustificano la rapida e vasta liberalizzazione dei mercati nei paesi in via di sviluppo. Affermano che che i produttori dei paesi in via di sviluppo in questo momento devono essere esposti alla competizione il più possibile, così che abbiano l’incentivo per aumentare la loro produttività per poter sopravvivere. La protezione, di contro, crea solamente pigrizia e compiacenza. Il più presto si espongono, così funziona, il meglio sarà per lo sviluppo economico.

Gli incentivi, tuttavia, sono solo una parte della storia. L’altra è la capacità. Anche se venisse offerta a Jin-Gyu una ricompensa di 20 milioni di sterline o fosse minacciato con una pistola alla tempia, non sarebbe in grado di essere all’altezza della neurochirurgia, avendo lasciato la scuola a 6 anni. Allo stesso modo, le industrie dei paesi in via di sviluppo non sopravviveranno se esposte troppo presto alla competizione internazionale. Hanno bisogno di tempo per migliorare le loro capacità, conoscere a fondo le tecnologie più avanzate e costruire delle organizzazione efficienti.

Naturalmente, la protezione che garantisco a Jin-Gyu non deve essere usata per sempre come uno scudo dalla competizione. Farlo lavorare all’età di sei anni è sbagliato, ma lo è anche mantenerlo fino ai 40. Alla fine dovrà entrare nel grande e vasto mondo, trovare un lavoro e vivere una vita indipendente. Ha bisogno di protezione solo mentre accumula le capacità per trovare un lavoro ben pagato e soddisfacente.

Ovviamente, come accade con i genitori che crescono i loro figli, la tutela delle neo-industrie può andare male. Proprio come alcuni genitori sono iper-protettivi, i governi possono coccolare le neo-industrie un po’ troppo. Alcuni bambini non vogliono preparasi alla vita adulta, proprio come il sostegno alle neo-industrie è sprecato per alcune aziende. Allo stesso modo in cui alcuni bambini manipolano i loro genitori al fine di mantenerli anche oltre l’infanzia, ci sono industrie che estendono la tutela del governo attraverso un astuto lobbying. Ma l’esistenza di famiglie disfunzionali non è certo una polemica contro l’essere genitori in sé. Allo stesso modo, i casi di fallimento della protezione delle neo-industrie non possono discreditare la strategia di per sé. Gli esempi di cattivo protezionismo ci dicono semplicemente che questa politica deve essere usata in modo saggio.

Il “Ten-Dollar Bill” e la Storia Segreta del Capitalismo

Il concetto per il quale le nuove industrie delle economie relativamente sottosviluppate hanno bisogno di protezione e sostegno prima che possano competere con le loro rivali superiori è conosciuto come il “concetto delle industrie neonate”. Fu sistematicamente sviluppato per la prima volta da qualcuno di cui molti conoscono la faccia senza conoscerne l’identità – Alexander Hamilton, il cui ritratto adorna le banconote da dieci dollari.

Hamilton diventò il primo Ministro delle Finanze (Segretario del Tesoro) degli Stati Uniti nel 1789, all’oltraggiosa età di 33 anni. Due anni dopo, presentò al congresso americano il suo Report on the Subject of Manufactures [“Rapporto sulla Produzione”, ndt]. In esso espose la sua teoria per la quale il paese aveva bisogno un vasto programma per sviluppare le sue industrie. Il nucleo della sua idea era che un paese sottosviluppato come gli Stati Uniti doveva proteggere le “industrie nella loro infanzia” dalla competizione straniera e sostenerle fino a quando non avessero camminato con le loro gambe. Hamilton propose una serie di misure per raggiungere lo sviluppo industriale nel suo paese, inclusi: dazi protettivi e divieti di importazione; sussidi; divieti di esportazione di materie prime fondamentali; liberalizzazione dell’import e riduzione dei dazi sui prodotti industriali; premi e brevetti per le invenzioni; regolamentazione dei criteri dei prodotti; sviluppo delle infrastrutture finanziarie e dei trasporti. Sebbene Hamilton mettesse giustamente in guardia contro il portare avanti questa politica troppo a lungo, queste sono comunque misure alquanto potenti ed “eretiche”. Se fosse stato oggi il Ministro delle Finanze di un paese in via sviluppo, il FMI e la Banca Mondiale avrebbero sicuramente rifiutato di prestare dei soldi al suo paese ed avrebbero fatto pressione per farlo sollevare dall’incarico.

Raccomandando un tale modo di agire al suo giovane paese, l’impudente Ministro delle Finanze trentacinquenne con una semplice laurea in arti liberali da una mediocre università (il King’s College di New York, l’odierna Columbia University) stava andando apertamente contro i consigli dell’economista più famoso al mondo, Adam Smith. Come la maggior parte degli economisti dell’epoca, Smith suggerì all’America di non sviluppare la produzione. Sosteneva che qualsiasi tentativo di “fermare l’importazione dei prodotti europei” avrebbe “ostacolato invece che promosso il cammino del loro paese verso la grandezza ed il benessere”.

Molti americani – in particolare Thomas Jefferson, Segretario di Stato dell’epoca ed arci-nemico di Hamilton – erano d’accordo con il grande economista. Alquanto ragionevolmente, sostenevano che fosse meglio importare prodotti di alta qualità dall’Europa con i profitti guadagnati dall’esportazione dei prodotti agricoli, piuttosto che provare a produrre merci confezionate scadenti. Di conseguenza, il Congresso accettò senza troppa convinzione la raccomandazione di Hamilton e aumentò il tasso medio dei dazi dal 5% al 12.5%.

Comunque, a seguito della Guerra anglo-americana del 1812, gli Stati Uniti cominciarono a passare ad una politica protezionista e nel 1820 la media delle tariffe industriali aumentò oltre il 40%, istituendo fermamente il programma di Hamilton. Durante gli anni ’30 del 19° secolo, il tasso del dazio industriale diventò letteralmente il più alto del mondo e restò tale fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando la supremazia manifatturiera americana divenne assoluta.

Gli Stati Uniti sono stati forse il primo paese a teorizzare la tutela delle neo-industrie, ma la pratica esisteva già da prima. Il primo paese che la applicò su vasta scala fu, inaspettatamente, l’Inghilterra – un paese comunemente considerato come l’inventore del libero scambio.

Dichiarando che “niente contribuisce alla promozione del benessere pubblico tanto quanto l’esportazione di merci manifatturiere e l'importazione di materie prima straniere”, tramite un messaggio del Re al Parlamento nel 1721, Robert Walpole, il primo Premier inglese, lanciò una serie di politiche che proteggevano e sostenevano le industrie manifatturiere inglesi contro i superiori concorrenti dei Paesi Bassi (Belgio ed Olanda), in seguito diventati il centro della produzione europea. Le politiche di Walpole durarono per tutto il secolo successivo. Tra il tempo di Walpole ed il 1830, quando l’Inghilterra cominciò a ridurre i dazi (sebbene non passò al libero scambio fino al 1860), il tasso medio dei dazi industriali inglesi oscillava tra il 40% ed il 50%, contro il 20% in Francia ed il 10% in Germania, paesi che oggi vengono associati al protezionismo commerciale.

L’Inghilterra e gli Stati Uniti, ipoteticamente le due terre natie del libero scambio, sono forse state le professioniste più ardenti – e più di successo – nella tutela delle neo-industrie, ma non sono delle eccezioni. Praticamente tutti i paesi benestanti di oggi hanno adottato dei cauti provvedimenti politici per proteggere e sostenere le loro neo-industrie prima di diventare ricchi.

Ad eccezione dell’Olanda e (fino alla Prima Guerra Mondiale) della Svizzera (di cui parleremo più avanti), hanno tutti attuato la protezione delle tariffe, sebbene nessuno di loro in maniera tanto estesa quanto gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Anche quando la protezione complessiva era relativamente bassa, alcuni settori strategici furono in grado di avere un’alta tutela. Ad esempio, durante gli ultimi anni del 19° secolo ed i primi del 20°, mantenendo un tasso medio dei dazi industriali relativamente moderato (5-15%), la Germania concesse una forte tasso di sostegno ad industrie strategiche come quelle del ferro e dell’acciaio. Nello stesso periodo, anche la Svezia fornì un’alta protezione alle sue industrie ingegneristiche neo-emergenti, sebbene il tasso medio delle tariffe fosse del 15-20%. Nella prima metà del 20° secolo, il Belgio mantenne dei livelli moderati di tutela complessiva (circa il 10% di tasso medio di dazi industriali), ma protesse pesantemente il settore tessile (30-60%) e l’industria del ferro (85%).

I dazi non erano i soli mezzi della politica commerciale usati in passato dai paesi benestanti. Quando ritenuto necessario per la tutela delle neo-industrie, la maggior parte di essi vietavano le importazioni e vi imponevano delle tasse. Fornivano inoltre dei sussidi d’esportazione – a volte su tutte le esportazioni (come fecero Giappone e Corea), ma spesso su merci specifiche (ad esempio, nel 18° secolo, l’Inghilterra fornì dei sussidi d’esportazione sulla polvere da sparo, sulle tele da vela, sullo zucchero raffinato e sulla seta). Alcuni di loro fornirono anche una diminuzione sui dazi pagati sulle esportazioni, per incoraggiarne lo sviluppo. Molti credono, come anch’io ero solito fare, che queste misure siano state inventate in Giappone negli anni ’50, ma di fatto furono inventate in Inghilterra durante il 17° secolo.

Non è solo nel regno del commercio internazionale che i precedenti storici dei paesi attualmente più ricchi vanno contro l’ortodossia del libero mercato.

Quando si trovavano alle strette, molti di loro discriminavano gli investitori stranieri. Nel 19° secolo, gli Stati Uniti subirono restrizioni sugli investimenti esteri nel settore bancario, navale, minerario e degli alloggi. Le restrizioni furono particolarmente severe per le banche. Ad esempio, lungo tutto il 19° secolo, gli azionisti non residenti non potevano votare e solo i cittadini americani potevano diventare direttori di una banca nazionale (in quanto opposta a quelle statali). Negli anni ’80 dello stesso secolo, il governo dello stato di New York introdusse persino una legge che vietava alle banche straniere di impegnarsi in “affari bancari” (come ad esempio prelevare depositi o scontare note o fatture). Sorprendente? Non molto, se si considera che il Bankers’ Magazine nel 1884 scrisse che “sarà per noi un giorno felice quando nessun titolo americano sarà posseduto all’estero e quando gli Stati Uniti  cesseranno di essere un terreno di sfruttamento per i bancari europei ed i prestatori di denaro”.

Alcuni altri paesi andarono oltre rispetto gli Stati Uniti. Il Giappone impose severe restrizioni sull’investimento estero diretto, chiudendo la maggior parte delle industrie e imponendo ad altre un tetto del 49% sui diritti di proprietà fino agli anni ’70. La Corea seguì questo modello attentamente fino a che fu costretta a liberalizzare l’investimento estero dopo la crisi finanziaria del 1997. La Finlandia andò un po’ più oltre e tra gli anni ’30 e gli anni ’80 classificò ufficialmente tutte le aziende con più del 20% di proprietà straniera come “imprese pericolose”. Persino i paesi che non adottavano tali controlli draconiani imposero condizioni formali ed informali su ciò che potevano fare le aziende straniere. In modo particolare, era necessario per loro acquistare più di un certa quota di input da fornitori interni, conosciuti come “richieste di quantità locali”.

Malgrado il loro attuale sostegno alla privatizzazione delle imprese pubbliche nei paesi in via di sviluppo, molti paesi sviluppati hanno costruito le loro industrie tramite la proprietà statale. All’inizio della loro industrializzazione, la Germania ed il Giappone costituirono imprese statali in settori chiave dell’industria – tessili, acciaio e costruzione navale. Nel caso della Francia, imprese familiari come Renault (automobili), Alcatel (mezzi di telecomunicazione), St. Gobain (vetro ed altri materiali di costruzione), Thomson (elettronica), Thales (elettronica per la difesa), Elf Aquitaine (petrolio e gas), Rhone-Poulenc (farmaceutica; fusa con la compagnia tedesca Hoechst per formare la Aventis, che fa ora parte della Sanofi-Aventis) erano solite essere imprese statali (ed alcune, come Renault e Thales, lo sono ancora in parte). Anche la Finlandia, l’Austria e la Norvegia svilupparono le loro industrie tramite un’estesa statalizzazione dopo la Seconda Guerra Mondiale. Taiwan realizzò il suo “miracolo” economico con un settore di imprese statali che produce il 16% del PIL, cioè più della media internazionale (che è di circa il 10%). Il settore delle imprese pubbliche di Singapore, che produce il 22% del PIL, è uno dei più vasti al mondo e comprende molte aziende di livello internazionale, come la Singapore Airlines.

Come già menzionato, l’Olanda e (fino alla Prima Guerra Mondiale) la Svizzera non usufruivano molto di dazi o sussidi. Ma deviarono l’odierna ortodossia del libero mercato in maniera significativa – rifiutarono di tutelare i brevetti. La Svizzera, malgrado la sua attuale presa di posizione aggressiva sui brevetti farmaceutici, non ha avuto nessuna legge in merito fino al 1888 – quasi un secolo dopo rispetto a paesi come la Francia (1791) e gli Stati Uniti (1793). La sua legge sui brevetti del 1888 non tutelava le invezioni del settore chimico (e quindi anche farmaceutico). Solo sotto la pressione della Germania, dalla quale stava liberamente “prendendo in prestito” le tecnologie chimiche, introdusse i brevetti per i processi chimici (ma non per le sostanze chimiche, come fu anche il caso della Germania e molti altri paesi all’epoca). L’Olanda abolì la sua legge sui brevetti del 1817 nel 1869, sulla base del fatto che i brevetti creano monopoli artificiali che vanno contro i loro principi di libero scambio e libera competizione (ovviamente vanno contro, sebbene molti economisti del libero scambio di oggi non riescano a capirlo). Non re-introdusse una legge sui brevetti fino al 1912, quando ormai la Philips si era fermamente stabilita come maggiore produttrice di lampadine, la cui tecnologia era stata “presa in prestito” da Thomas Edison.

Anche i paesi che avevano leggi sui brevetti erano negligenti nella tutela dei diritti di proprietà intellettuale – specialmente quelli degli stranieri. Nella maggior parte dei paesi, inclusi Inghilterra, Austria, Francia e Stati Uniti, era esplicitamente concesso il brevetto delle invenzioni importate. Quando nel 1810 Peter Durand prese in Inghilterra la licenza per la tecnologia conserviera, usando l’invenzione del francese Nicholas Appert, l’istanza dichiarava esplicitamente che era una “invenzione da me comunicata da un certo straniero”, un espediente poi divenuto di uso molto comune per prendere il brevetto sull’invenzione di uno straniero.

“Prendere in prestito” le idee non veniva semplicemente fatto con invenzioni che potevano essere brevettate. Nel 19° secolo c’era anche una vasta contraffazione dei marchi – in modo simile a quella successivamente adottata da Giappone, Corea, Taiwan ed oggi Cina. Nel 1862, l’Inghilterra modificò la sua legge sui marchi, il Merchandise Mark Act, con lo scopo specifico di prevenire la contraffazione dei prodotti inglesi da parte degli stranieri, specialmente dai tedeschi. La ratifica della legge rendeva obbligatoria la specificazione, da parte del produttore, del paese e del luogo di fabbricazione come parte della “descrizione commerciale” necessaria. La legge sottovalutava l’ingenuità tedesca, comunque – le aziende tedesche escogitarono alcune brillanti tattiche evasive. Ad esempio, attaccavano il bollo che indicava il paese di origine sull’imballaggio invece che sui singoli articoli; oppure, lo attaccavano dove era praticamente invisibile. Il giornalista inglese del 19° secolo, Ernst Williams, scrisse un libro intero sulla contraffazione tedesca, Made in Germany, che spiega come: “un’azienda tedesca, che esporta un grande numero di macchine da cucire in Inghilterra, cospicuamente etichettate come “Singer” e “North-British Sewing Machines”, mette il marchio del Made in Germany a piccoli caratteri sotto il pedale. Ci vorrebbe la forza di mezza dozzina di sarte per capovolgere la macchina e leggere la didascalia: altrimenti passa inosservata”.

Anche i diritti d’autore venivano regolarmente violati. Malgrado l’attuale atteggiamento entusiastico nei confronti del copyright, gli Stati Uniti rifiutarono di tutelare i diritti degli stranieri nella legge in merito del 1790. Firmarono l’accordo internazionale sui diritti di autore (la Convenzione di Berna del 1886) solo nel 1891. A quell’epoca, gli Stati Uniti erano un importatore netto di materiali tutelati da diritti d’autore e colsero l’occasione per proteggere i soli autori americani. Per un altro secolo (fino al 1988), non vennero riconosciuti i diritti sui materiali stampati al di fuori degli Stati Uniti.

Cattivi Samaritani: Togliere la Scala e l’Amnesia Storica

Il quadro è chiaro. Il paesi ricchi sono arrivati dove sono oggi attraverso politiche nazionalistiche, con vari mezzi quali tutela, sussidi, statalizzazione delle imprese, regolamentazioni severe sugli investimenti esteri e debole protezione dei diritti di proprietà intellettuali degli stranieri.

Malgrado questa storia, negli ultimi 25 anni, questi paesi sono stati raccomandati, o anche costretti, a sviluppare delle politiche nazionali che andassero direttamente contro la loro esperienza storica. Attraverso i termini di prestito del FMI e della Banca Mondiale, come anche le condizioni relative ai loro sussidi, i paesi ricchi hanno imposto ai paesi in via di sviluppo la liberalizzazione del mercato. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) ha ridotto in modo significativo i dazi ed altre restrizioni commerciali nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. I paesi benestanti stanno tentando di ridurre ancor di più le tasse industriali su tali paesi attraverso nuove negoziazioni con l’OMC, come anche attraverso accordi bilaterali e regionali di libero scambio. Molti dei sussidi sono stati vietati dall’OMC – ad eccezione di quelli che vengono ancora usati dai paesi ricchi, come i sussidi sull’agricoltura e sulla ricerca e lo sviluppo. L’OMC ha reso illegali la maggior parte delle restrizioni sull’investimento estero, come ad esempio le “richieste di quantità locali”, mentre il FMI e la Banca Mondiale hanno fatto costantemente pressione sui paesi in via di sviluppo al fine di liberalizzare l’investimento estero. L’OMC ha inoltre reso più rigide le leggi sui diritti di proprietà intellettuale, essenzialmente richiedendo a tutti i paesi, tranne quelli in via di sviluppo più poveri, di aderire agli standard americani sulla tutela dei diritti – tutela che persino molti americani considerano eccessiva.

Perché lo stanno facendo? Nel 1841, un economista tedesco, Friedrich List, criticò l’Inghilterra per aver predicato il libero scambio agli altri paesi, dopo aver raggiunto la sua supremazia economica attraverso dazi altissimi e sussidi estensivi. Accusò gli inglesi di “togliere la scala” che loro avevo usato per salire fino alla posizione economica più alta al mondo: “è un espediente davvero comune, dopo che ognuno abbia raggiunto l’apice della sua grandezza, togliere la scala con la quale si è saliti, in modo da privare gli altri dei mezzi per poterci raggiungere”.

Oggi, ci sono sicuramente alcune persone nei paesi benestanti che predicano il libero scambio ed il libero mercato ai paesi poveri in modo da accaparrarsi le quote maggiori sugli ultimi mercati e per attutire l’emergere di nuovi concorrenti. Predicano “fate come vi diciamo, non come abbiamo fatto” e razzolano come “Cattivi Samaritani”, approfittandosi di coloro che sono nei guai*. Ma ciò che è più preoccupante è che molti di questi Cattivi Samaritani di oggi non si rendono neanche conto del fatto che le loro politiche stanno nuocendo ai paesi in via di sviluppo. La storia del capitalismo è stata talmente riscritta che molte persone nel mondo benestante non si accorgono che nel raccomandare il libero scambio ed il libero mercato ai paesi in via di sviluppo vengono considerati due pesi e due misure.

Non sto suggerendo che da qualche parte ci sia un sinistro comitato segreto che spazza via sistematicamente gli indesiderati dalle fotografie e che riscrive i fatti storici. Ad ogni modo, la storia è scritta dai vincitori ed è nella natura umana re-interpretare il passato dal punto di vista del presente. Di conseguenza, nel corso del tempo i paesi ricchi hanno in modo graduale, se non inconscio, riscritto le loro storie personali per renderle più coerenti con la visione che hanno di loro stessi oggi, piuttosto di come sono veramente – più o meno allo stesso modo in cui oggi la gente scrive del Rinascimento in “Italia” (un paese che non è esistito fino al 1861) oppure include nella lista dei Re e delle Regine “inglesi” gli Scandinavi francofoni (re normanni).

Il risultato è che molti Cattivi Samaritani potrebbero raccomandare politiche di libero scambio e libero mercato ai paesi poveri nell’onesta ma sbagliata convinzione che questa è la stessa strada che i loro stessi paesi hanno percorso in passato per diventare benestanti. Ma di fatto stanno rendendo la vita di coloro che vogliono aiutare ancora più difficile.

I paesi in via di sviluppo hanno fatto davvero poco negli ultimi 25 anni malgrado l’adozione di “buone politiche”, come la liberalizzazione del commercio e dell’investimento estero ed un’efficace tutela sui brevetti. Il tasso annuale di crescita pro capite del mondo in via di sviluppo si è di base dimezzato durante l’ultimo periodo, in confronto ai “brutti vecchi tempi” del protezionismo e dell’intervento dello stato degli anni ’60 e ’70. Ed anche questo solo perché la media include la Cina e l’India, due giganti in rapida crescita, che hanno sicuramente liberalizzato la loro economia in molti modi, ma hanno rifiutato di abbracciare pienamente la dottrina del neo-liberalismo ortodosso.

Il deficit di crescita è stato notevole in modo particolare nell’America del Sud e nell’Africa sub-sahariana, dove i programmi neo-liberali sono stati realizzati in modo più approfondito rispetto all’Asia. Negli anni ’60 e ’70, il reddito pro capite dell’America Latina cresceva del 3.1% all’anno, poco più velocemente della media dei paesi in via di sviluppo. In modo particolare, il Brasile aveva una crescita veloce come quella delle economie “miracolose” dell’Asia. Ad ogni modo, dagli anni ’80, quando il continente abbracciò il neo-liberalismo, la crescita dell’America Latina è stata di un terzo rispetto a quelli dei “brutti vecchi tempi”. Anche se si considerano gli anni ’80 come un decennio di assestamento e si sotraggono dall’equazione, il reddito pro capite della regione nel corso degli anni ’90 è cresciuto di circa la metà in meno rispetto al tasso degli anni ’60 e ’70 (3.1% contro 1.7%). Tra il 2000 ed il 2005, è andata anche peggio: il reddito pro capite è praticamente rimasto fermo, con una crescita del solo 0.6% all’anno. Come pure l’Africa sub-sahariana, il cui reddito pro capite è cresciuto alquanto lentamente anche negli anni ’60 e ’70 (1.6% all’anno). Ma dagli anni ’80, la regione ha subito un crollo degli standard di vita. Questo dato è un’accusa schiacciante all’ortodossia neo-liberale in quanto durante gli ultimi 25 anni la maggior parte delle economie dell’Africa sub-sahariana sono state gestite praticamente dal FMI e dalla Banca Mondiale.

Contro il “Level Playing Field” [“Campo da Gioco Equo”, ndt]

Spingendo per politiche di libero mercato che rendono più difficile ai paesi poveri usare politiche nazionalistiche, i Cattivi Samaritani hanno spesso usufruito della retorica del “level playing field”. Sostengono che ai paesi in via di sviluppo non dovrebbe essere permesso di usare mezzi politici extra per la tutela, i sussidi e la regolamentazione, in quanto si tratta di concorrenza sleale. Se gli fosse concesso, allora i paesi in via di sviluppo sarebbero come una squadra di calcio, sostengono i Cattivi Samaritani, che attacca dall’alto, mentre l’altra squadra (i paesi ricchi) lottano per risalire il piano inclinato del campo a gioco. Bisogna liberarsi delle barriere protettive e fare in modo che ognuno competa nelle stesse condizioni: dopo tutto, i frutti del mercato possono essere colti solo quando la concorrenza sottostante è leale. Chi mai potrebbe non essere d’accordo con un concetto che suona talmente ragionevole come il “level playing field”?

Io non sono d’accordo – quando si tratta di una competizione tra giocatori impari. E noi tutti non dovremmo – se vogliamo costruire un sistema internazionale che promuova il progresso economico. Un campo da gioco equo porta ad una concorrenza sleale se i giocatori non sono alla pari. Quando una squadra in una partita di calcio è, ad esempio, la nazionale brasiliana e l’altra squadra è formata dalle amichette di undici anni di mia figlia Yuna, è giusto permettere alle ragazze di attaccare in discesa. In questo caso, un campo da gioco inclinato, piuttosto che pianeggiante, è il modo per assicurare una concorrenza leale.

Questo tipo di campo inclinato non esiste solo perché alla nazionale brasiliana non sarà mai permesso di giocare contro una squadra di ragazzine undicenni, e non perché l’idea di un piano inclinato sia sbagliata di per sé. Infatti, nella maggior parte degli sport, non è semplicemente permesso che giocatori impari competano gli uni contro gli altri – piano inclinato o meno – per l’ovvia ragione che sarebbe ingiusto.

Il calcio e la maggior parte degli altri sport hanno gruppi di età e divisioni di genere, mentre altri come la boxe, il wrestling, il sollevamento pesi hanno delle classi di peso. E queste classi sono divise in modo ben definito. Ad esempio nella boxe, le classi dei pesi più leggeri sono letteralmente nei limiti di fasce di 1-1.5 chili. Perché pensiamo che un incontro di boxe tra due persone con poco più di un paio di chili di differenza sia ingiusto mentre accettiamo che gli Stati Uniti e l’Honduras debbano competere sullo stesso piano? Nel golf, per fare un altro esempio, esiste persino un esplicito sistema di “handicap” che da ai giocatori vantaggi inversamente proporzionali alle loro abilità di gioco.

La concorrenza economica mondiale è un gioco tra giocatori impari. Fa scontrare tra di loro paesi che vanno, come noi economisti dello sviluppo amiamo dire, dalla Svizzera alla Swazilandia [in inglese “from Switzerland to Swaziland”, ndt]. Di conseguenza, l’unica cosa giusta sarebbe inclinare il campo da gioco in favore dei paesi più deboli. In pratica, questo significa permettergli di tutelare e dare sussidi ai loro produttori più vigorosamente e di imporre regolamentazioni più severe sull’investimento estero. Questi paesi dovrebbero anche poter tutelare i diritti sulla proprietà intellettuale in maniera meno rigorosa in modo da poter “prendere in prestito” più attivamente le idee dai paesi più avanzati. I paesi benestanti potrebbero dare un ulteriore aiuto trasferendo le loro tecnologie a condizioni favorevoli; questo avrebbe il valore aggiunto di far crescere l’economia nei paesi poveri in maniera più compatibile con la lotta al surriscaldamento globale, dato che le tecnologie dei paesi più ricchi tendono ad essere più efficienti dal punto di vista energetico.

I Cattivi Samaritani dei paesi benestanti potrebbero contestare tutto questo vedendolo come un “trattamento speciale” per i paesi in via di sviluppo. Ma chiamare qualcosa un trattamento speciale vuol dire che la persona che riceve tale trattamento ottiene anche un vantaggio sugli altri. Tuttavia non definiremmo mai come “trattamenti speciali” le scale di risalita per gli utenti di sedie a rotelle o l’alfabeto Braille per i ciechi. Allo stesso modo, non dovremmo definire “trattamenti speciali” il mettere a disposizione dei paesi in via di sviluppo dei dazi più alti o altre misure di tutela. Sono semplicemente trattamenti differenti – ed equi – per paesi con bisogni e capacità differenti. 

Ultimo ma non meno importante, inclinare il piano da gioco in favore dei paesi in via di sviluppo non è solo una questione di trattamento leale, adesso. Si tratta anche di fornire ai paesi economicamente meno avanzati i mezzi per acquisire nuove capacità sacrificando i guadagni a breve termine. Infatti, permettere ai paesi poveri di incrementare più facilmente le loro capacità fa avvicinare il giorno in cui il divario tra giocatori sarà minore e quindi non sarà più necessario inclinare il campo di gioco.

Cosa è Giusto e Cosa è Facile

Supponiamo che io abbia ragione e che il campo da gioco dovrebbe essere inclinato a favore dei paesi in via di sviluppo. Il lettore può ancora chiedersi: quante probabilità ci sono che i Cattivi Samaritani accettino questa proposta e cambino il loro atteggiamento?

Potrebbe sembrare inutile tentare di convertire quei Cattivi Samaritani, che agiscono per interesse personale. Ma possiamo ancora fare appello al loro interesse personale illuminato. Dal momento che le politiche neo-liberali rendono la crescita dei paesi in via di sviluppo più lenta che altrimenti, i Cattivi Samaritani stessi farebbero molto meglio a concedere delle politiche alternative che permettano ai paesi in via di sviluppo di crescere più velocemente. Se il reddito pro capite aumenta solo dell’1% all’anno, come nel caso dell’America del Sud negli ultimi 20 anni di neo-liberalismo, ci vorranno 70 anni per raddoppiarlo. Ma se la crescita fosse del 3%, come nel caso dell’America del Sud durante il periodo di industrializzazione in sostituzione alle importazioni, il reddito aumenterebbe di otto volte nello stesso lasso di tempo, fornendo ai Cattivi Samaritani un mercato molto più vasto da sfruttare. Quindi è nell’interesse a lungo termine persino dei Cattivi Samaritani più egoisti  accettare queste politiche “eretiche” che porterebbero una crescita più veloce nei paesi in via di sviluppo.

Quelli più difficili da convincere sono gli ideologi – quelli che credono nelle politiche dei Cattivi Samaritani perché pensano siano “giuste”, non perché ne traggano qualche beneficio personale, se non nessuno. Il moralismo è spesso molto più ostinato dell’interesse personale. Ma anche qui c’è ancora speranza. Una volta accusato di incoerenza, John Maynard Keynes diede la famosa risposta: “quando le cose cambiano, io cambio idea – lei cosa fa, signore?”. Molti di questi ideologi, seppur sfortunatamente non tutti, sono come Keynes. Loro possono cambiare idea, e l’hanno fatto, se si trovano di fronte a nuove svolte negli eventi del mondo reale e a nuove polemiche, a condizione che queste siano abbastanza interessanti da fargli abbandonare le loro convinzioni precedenti.

Quello che dovrebbe darci un po' di speranza è il fatto che la maggior parte dei Cattivi Samaritani non sono né degli avidi né dei bigotti. Molti di noi, me compreso, facciamo cose cattive non perché ne ricaviamo un grande beneficio materiale o perché crediamo ciecamente in tali azioni, ma perché sono quelle più facili da fare. Molti Cattivi Samaritani vanno avanti con le politiche sbagliate per il semplice motivo che è più facile essere conformisti. Perché andare in giro a cercare “verità sconvenienti” quando si può semplicemente accettare ciò che dicono la maggior parte dei politici e dei giornali? Perché disturbarsi a scoprire cosa sta veramente succedendo nei paesi poveri quando si può facilmente dare la colpa alla corruzione, la pigrizia o la licenziosità della loro gente? Perché andare fuori strada per controllare la storia del proprio paese, quando la versione “ufficiale” suggerisce che è sempre stato la madre di tutte le virtù – libero scambio, creatività, democrazia, prudenza, ricordate?

È esattamente perché la maggioranza dei Cattivi Samaritani sono fatti così che io nutro speranze. Sono persone che potrebbero voler cambiare atteggiamento, se gli si dà un’immagine più bilanciata. Questo non è solo wishful thinking. Ci fu un periodo tra il Piano Marshall (iniziato 60 anni fa nel 1948) e la nascita del neo-liberalismo negli ultimi anni ’70, quando i paesi ricchi, guidati dagli Stati Uniti, non si comportavano come dei Cattivi Samaritani.

Durante questo periodo, i paesi benestanti concessero ai paesi poveri di adottare i provvedimenti politici nazionalistici come meglio credevano al fine di integrarsi con l’economia mondiale al loro ritmo.

Il fatto che i paesi ricchi almeno in un’occasione in passato non si siano comportati come dei Cattivi Samaritani ci dà speranza. Il fatto che l’episodio storico abbia prodotto degli ottimi risultati economici – per il mondo in via di sviluppo non fu mai meglio, né prima né dopo – ci dà il dovere morale di imparare da quell’esperienza.

* La storia originale è quella del “Buon Samaritano” dalla Bibbia. In quella parabola, un uomo derubato dai briganti viene aiutato da un “Buon Samaritano”, malgrado il fatto che i Samaritani fossero dipinti come degli insensibili e non interessati ad approfittarsi delle persone che si trovavano nei guai.

Ha-Joon Chan insegna economia all’Università di Cambridge. Questo articolo è basato su Bad Samaritans: The Myth of Free Trade and The Secret History of Capitalism [“Cattivi Samaritani: il Mito del Libero Scambio e la Storia Segreta del Capitalismo”, ndt], pubblicato da Bloomsbury Press, New York, a gennaio 2008.


Fonte: http://mrzine.monthlyreview.org
Link: http://mrzine.monthlyreview.org/2009/chang230109.html


Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ROBERTA PAPALEO