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L’alpinismo, in quanto evasione dal tempo, equivale alla conquista di una libertà assoluta?

di Francesco Lamendola - 18/08/2010


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Avete mai provato a trovarvi in alta montagna, soli con voi stessi, davanti a una parete di roccia da scalare, con l’immenso panorama spalancato sotto di voi in tutta la sua selvaggia bellezza, avvolti dal silenzio irreale di un mondo che non è stato fatto per la vita comune e con la piena consapevolezza del privilegio di cui state godendo, ma anche del rischio mortale che ne è il pedaggio inevitabile?
Tutto diventa strano, solenne, esaltante in quegli istanti; il tempo si sfilaccia, si sbriciola, perde di significato: Kronos, il tempo quantitativo, ordinario; e subentra Kairos, l’altro tempo, quello sacro e qualitativo, che in fondo non è un altro tempo ma è una sospensione o piuttosto una vera e propria assenza del tempo, una evasione dal regno del tempo.
Ecco: il senso di euforia, di esaltazione che si prova in quei frangenti è soprattutto una conseguenza di tale evasione dal tempo: perché l’uomo che spezza le catene del tempo entra, perciò stesso, in un mondo nuovo e sconosciuto, come Alice al di là dello specchio; un mondo fantastico, ove tutto è possibile, ove si è messi brutalmente a tu per tu con se stessi e dove gli istanti valgono come settimane, mesi o anni; e dal quale non si ritorna mai come si era prima, non si ritorna mai uguali all’uomo vecchio nel quale si tirava a campare più o meno stancamente, con il pilota automatico pigramente inserito.
È noto il fascino che l’alpinismo ha sempre esercitato sugli animi portati al senso del mistero, alla spiritualità, al misticismo: l’esoterista e pensatore Julius Evola, il filosofo e matematico Arturo Reghini, il mago Aleister Crowley - per citare solo i primi che ci vengono alla mente - sono stati tutti dei valenti alpinisti.
Non si tratta, genericamente, del fascino e dell’attrazione esercitati dalle altezze, elemento che è presente in tutte le religioni (si pensi all’Olimpo per il paganesimo greco, al Monte Sinai per l’ebraismo, al Tabor per il cristianesimo, al Kailash per l’induismo e il buddhismo, al Fujiama per lo scintoismo, ecc.) e che si ritrova in svariati riti dello sciamanesimo; intendiamo parlare di quel trovarsi a tu per tu con l’abisso e con la vertigine, a faccia a faccia con il vuoto sopra e sotto di sé, che genera un senso straordinario di libertà, peraltro inseparabile dal sentimento dell’orrido e della morte incombente.
Quando ci si trova in parete, sospesi letteralmente nel vuoto, nel silenzio assordante delle alte quote ove soffiano liberi i venti, rotto solo dal fruscio della corda, dal tintinnare dei moschettoni e dai risuonare argentino dei colpi di martello sui chiodi; quando non si ha altro che il cielo infinito sopra di sé e il mondo intero disteso al di sotto, e ogni singola azione diventa solenne, decisiva, vitale: allora ogni pensiero meschino della vita ordinaria scompare d’incanto, ogni noia e ogni preoccupazione materiale si dissolvono e non resta altro che la pura essenza della vita, colta nella sua nuda immediatezza.
È bello.
Ma fa anche paura.
Molte persone si arrampicano in montagna per evadere dal tempo quotidiano, per accedere alla dimensione fuori del tempo che è propria di questa disciplina atletica; e si inebriano di quel pericoloso senso di libertà che consiste nel sapere la propria vita attaccata all’esile corda di sicurezza.
Tuttavia, potremmo domandarci: la dimensione atemporale esperita nel corso di tali esperienze, coincide “sic et simpliciter” con la libertà assoluta o è soltanto una esperienza psicologica, preziosa quanto si vuole, ma pur sempre legata ad un particolare stato dell’essere e non già ad una trasformazione ontologica del soggetto in questione?
In altre parole: allorché l’alpinista, sospeso nel vuoto, si sente pervaso da una sensazione di felicità che coincide con il senso della libertà assoluta, sta REALMENTE sperimentando l’universo della libertà, oppure ne sta solo vivendo una copia sbiadita, una duplicazione soggettiva, che non lo portano davvero fuori di sé e oltre di sé, ma glie ne danno solamente l’illusione?
Non si tratta di una questione oziosa.
Senza scomodare Platone e il mito della caverna, è naturale domandarsi se quel che si trova è esattamente quello di cui si era andati alla ricerca; vale a dire, se la realtà dell’esperienza estatica dell’alpinista è conforme  alle aspettative con le quali era stata intrapresa.
Ci sia permesso di dubitarne.
La libertà di cui si inebria la coscienza dell’alpinista, per quanto gagliarda ed esaltante possa rivelarsi, non è in alcun modo, a nostro avviso, la libertà assoluta, perché interamente legata alle circostanze materiali che l’hanno resa possibile. L’esperienza della libertà assoluta (assoluta sempre in senso relativo, ché nulla di assoluto esiste nella sfera del mondo fisico) prescinde interamente dalla materia e, quindi, non ha bisogno né di montagne, né di pareti di roccia, tanto meno di strumenti artificiali per innalzare il proprio corpo, e sia pure dopo averlo fortificato mediante una opportuna preparazione atletica.
Quando il mistico entra in unione con l’Essere, non ha bisogno di spostarsi fisicamente a tre o quattromila metri di quota; non ha bisogno di corda e moschettoni; non ha bisogno di aspettare una giornata limpida e serena. Non ha bisogno di alcuna cosa che non si trovi già nelle profondità della sua stessa anima.
Egli ha bisogno solo di concentrarsi, di rientrare in se stesso, di abbandonarsi alla grande corrente della Coscienza universale; come un fiume tranquillo e maestoso che scorre verso l’oceano, il mistico non dipende più da nulla e nessuno e trova in sé stesso quella scintilla divina che lo mette in comunione profonda con tutte le cose.
Tale è la vera esperienza della libertà: una libertà totale, incondizionata; non quella che può incrinarsi al primo soffio di vento, al primo strappo di una banalissima corda, al primo franare di un mucchio di sassi.
Si rifletta su quanto ha scritto Joe Simpson, uno dei massimi scalatori dell’ultima generazione (è nato nel 1960 e si è laureato in Lettere e Filosofia all’Università di Edimburgo), nel suo libro «Questo gioco di fantasmi. Storie vere di un sopravvissuto» (titolo originale: «This game of ghost», Londra, 1993; traduzione italiana di Paola Mazzarelli, Torino, Vivalda Editori, 1994, 2001, pp. 336-338):

«Trovarsi sotto un’immensa parete ghiacciata e muovere il primo passo, quello che ci consegna all’azione, è sempre una scelta. In questa scelta c’è il piacere e la consolazione di scegliere la propria paura. È cosa che si fa perché la si vuole fare. è muovere incontro  all’immediato futuro, e a tutto ciò che ci scaglierà contro,  a braccia aperte e con mente chiara, fiduciosi che saremo in grado di affrontarlo e tenerlo sotto controllo. Ma non c’è controllo, né scelta nell’ansia dei genitori , nelle incertezze del manager stressato, negli incubi di chi è solo e insicuro. Se cominciamo ad assecondarle, quelle paure immaginarie ci terranno prigionieri. Sono lo scotto del pensiero, la penitenza del vivere.
In un certo senso l’alpinista smette di vivere nel momento in cui comincia ad arrampicare. Esce dal mondo dell’ansia per entrare in un mondo in cui on c’è spazio , né tempo per tali distrazioni. L’unica cosa di cui gli importa è sopravvivere al presente. Bollette e mutui da pagare, amici e nemici, tutto svapora nella necessità di concentrarsi in ciò che accade al momento. È una vita separata, di decisioni semplici, nette: SCALDATI, NUTRITI, BADA A QUELLO CHE FAI, RIPOSATI, ABBI CURA DI TE E DEL TUO COMPAGNO, SII PRESENTE. Presente, appunto: finché non c’è altro che il presente e non ci sono più paure a minare la sicurezza.
Vivere per il presente, per l’ora e qui, comporta un inaspettato vantaggio. Se riusciamo a sottrarci al bisogno di conoscere il futuro e a liberarci dalle pastoie del passato, e dunque il nostro agire è solo nel presente e per il presente, conquistiamo una libertà assoluta. Il puro e semplice esistere ci rende più liberi di quanto possiamo immaginare. Questa convinzione mi porta quanto più vicino possibile alla comprensione  della visione esistenzialista. Jean-Paul Sartre sosteneva  che “solo la realtà è affidabile” e che “speranze, ambizioni sogni, aspettative, sono illusori. “L’uomo non è altro che una serie di azioni… egli esiste solo in quanto realizza se stesso e dunque non è altro che la somma delle sue azioni, non è altro che ciò che è la sua vita”.
Nella libertà assoluta che si realizza con il vivere esclusivamente nel presente,  sia pure per breve tempo, mi sembra di sperimentare di persona ciò che Sartre intendeva dire. L’accettazione di un alto livello di rischio è per l’alpinista una scelta. Nel compierla, l’intera responsabilità  della sua esistenza riposa sulle sue spalle. Questo vale per ogni momento della sua vita, ma mai appare con tanta evidenza come quando l’alpinista entra nell’universo sospeso del presente.  Là ogni sua azione ha influenza diretta sulla sua esistenza  e su quella del compagno, verso il quale ha altrettanta responsabilità che verso se stesso. Sartre dice che l’esistenzialismo “non è una filosofia del quietismo, dal momento che definisce l’uomo  del suo agire; né una descrizione pessimistica  dell’uomo, giacché non vi è dottrina più ottimista di quella  che pone il destino dell’uomo al’interno dell’uomo stesso  Non è neppure un tentativo di distogliere l’uomo dall’azione,  poiché anzi l’esistenzialismo afferma che non vi è speranza  se non nell’azione e che l’unica cosa che consente all’uomo di vivere è l’agire. L’esistenzialismo è un’etica dell’azione e dell’impegno..”
Vi sono momenti in alta montagna, momenti di intensa vitalità,  in cui è proprio così. Sono fragili momenti transitori, quando i confini tra il vivere e il morire sembrano sovrapporsi, quando passato e futuro cessano di esistere e si è liberi.  È questo darsi completamente al presente che rende così difficile voltarsi indietro a guardare quel che si è fatto e spiegare perché si è scelto di farlo. Forse bisogna accettare il fatto che un giorno il nostro futuro io si volterà  indietro e si farà beffe di ciò che siamo oggi, che verrà il momento in cui rinnegheremo ciò in cui oggi crediamo.  Nel guardare indietro si perde la prospettiva del presente: per questo non si può mai spiegare davvero il proprio agire.
Quando l’alpinista si muove sul labile confine tra la vita e la morte e sbircia  con cautela dall’altra parte, è come se fosse immortale,, n vivo, né morto. Quando scende dalla montagna  e rimette piede nella vita, cerca, senza riuscirci di comprendere l’esperienza che ha vissuto. Di quelle giornate conserva un ricordo potente e bellissimo, ma non sa dire esattamente che cosa è successo.  Sa che qualcosa è effettivamente accaduto, ma non riesce a metterci il dito sopra.  Ma con il riprendere del tempo, con il tornare del pensiero al passato e al futuro, la certezza a poco a poco svanisce  fino ad assomigliare al vago ricordo di un fantasma intravisto  di sfuggita in fondo a un corridoio sbiadito. Un tempo sapevamo che cosa avevamo visto, non c’erano dubbi sulla sua realtà; ora non sappiamo più con certezza, ora nulla sembra reale.»

L’esperienza interiore dell’alpinistica somiglia molto, in effetti - anche per il suo carattere volontaristico ed “eroico” - ad una affermazione dell’io, ad una manifestazione vitalistica della filosofia dell’esistenzialismo.
Tuttavia, se l’esistenzialismo è solo una filosofia dell’”hinc et nunc”, allora la sua identificazione dell’uomo con le azioni che egli compie, ne rivela l’intimo carattere anti-metafisico ed anti-spirituale: perché solo aprendosi alla dimensione dell’infinito, l’anima esce realmente da se stessa; diversamente, rimane prigioniera delle pesanti catene dell’ego.
In altri termini: se fosse vero che l’uomo è soltanto la somma delle sue azioni, cadremmo nel più grossolano comportamentismo: non varrebbe la pena di chiedersi perché compiamo determinate azioni e non altre, perché facciamo determinate scelte: basterebbe immergersi nel flusso temporale e lasciarsi trasportare da esso.
Invero, non si capisce nemmeno perché dovremmo prenderci la briga di scegliere: basterebbe l’azione per l’azione; se noi e le nostre azioni siamo tutto ciò che esiste, allora che differenza passa tra un’azione e l’altra?
Identificare l’uomo con le sue azioni e queste ultime con la sequenza temporale degli istanti in cui le compie, significa svilirlo e rimpicciolirlo; significa ridurlo alle dimensioni di un nanerottolo presuntuoso, che si inorgoglisce di evadere dal tempo, quando in realtà sta solo ribadendo le catene della propria schiavitù.
Non si passa da Kronos a Kairos, dal tempo quantitativo e materiale al tempo qualitativo e spirituale, se non in virtù di un salto, di una rottura radicale: ma nessuna rottura radicale è possibile se si rimane all’interno del circolo vizioso, per cui il nostro essere si misura in quantità di tempo e il ritmo temporale delle nostre azioni definisce tutto intero il nostro essere.
In questo modo non si esce dal tempo, se ne diventa definitivamente schiavi.
Perciò, ben venga l’alpinismo come sana pratica sportiva e anche, perché no, come occasione di riflessioni spirituali e di intense emozioni dell’anima; ma non si dimentichi che esso non potrà mai offrire, per sua natura, la via regale d’accesso alla libertà assoluta.
«Per altra via, per altri porti verrai a piaggia», direbbe il gran padre Dante, «non qui, per passare».
Per altra via: e cioè quella che scende all’interno dell’anima, indipendentemente dai paesaggi e dalle situazioni esteriori legati alla dimensione del corpo fisico.