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Connery, il burbero baronetto indifferente allo star system

di Stenio Solinas - 25/08/2010

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«Ci sono solo due grandi star a cui il successo non ha dato alla testa. Una è Lassie, l’altra è Sean Connery». In questa frase di Audrey Hepburn, che con Connery girò quel film malinconico e struggente che si chiamava Robin e Marian, l’ironia maschera una saggezza che vale la pena approfondire. Così come il suo collega a quattro zampe ribattezzò la sua razza, collie, con il proprio nome, non c’è più stato agente segreto, con o senza «licenza di uccidere», che abbia retto al confronto con quello originale da Sean interpretato. Grandi attori come Michael Caine e Richard Burton possono aver delineato meglio il lato antieroico e più banalmente prosaico della professione (Ipcress, la Talpa), simpatici attori come Roger Moore o Jean Dujardin possono averne accentuato l’elemento istrionico o addirittura umoristico, ma il marchio di fabbrica resta indiscutibilmente il suo. E va da sé che la sovrana e animalesca indifferenza con cui Lassie si mosse nel mondo del cinema, fa il paio con la sovrana e animalesca indifferenza con cui Connery ha trattato il mondo del cinema. L’unica differenza fra loro è che se il cane Lassie fu un magnifico attore, l’attore Connery non è mai stato un cane.
Adesso sir Sean compie ottant’anni (è nato il 25 agosto del 1930, è stato nominato baronetto nel Duemila), ha alle spalle mezzo secolo di carriera, una cinquantina di film e un Oscar, due anni fa ha scritto la propria autobiografia, «Being a Scot», che è un inno al suo essere scozzese, è ancora considerato, a dispetto dell’età, un sex symbol. Il suo ultimo James Bond, Mai dire mai, lo girò che aveva quasi cinquant’anni, dieci anni dopo Una cascata di diamanti, sesta pellicola di una serie che negli anni Sessanta aveva fatto il pieno ai botteghini. A Ian Fleming, lo scrittore-inventore di 007, di primo acchito Connery non piacque: per il suo comandante Bond voleva qualcuno come Cary Grant, «non un cascatore di età avanzata». Ma Harry Saltzman, che con Albert Broccoli era il produttore, capì subito di avere di fronte l’uomo giusto: «Non avevo mai visto un tipo così sicuro di sé o un figlio di puttana così arrogante». Dana, la moglie di Broccoli, completò il quadro: «Si muove come una pantera. Le donne e gli uomini lo adoreranno».
Fleming, che era un snob nato nella buona borghesia, aveva dato al suo personaggio i propri gusti e le proprie manie: auto veloci, champagne e liquori di marca, il vino bianco con il pesce, il Rolex submariner al polso, il cappello in testa come indice del cattivo automobilista… Connery, che era figlio di un camionista e di una cameriera e aveva fatto il bagnino e il muratore, li fece suoi con assoluta naturalezza. L’animalità sessuale radiografata all’istante da Dana Broccoli fece il resto; in Italia il semiologo Umberto Eco applicò al tutto l’aggettivo «fascista» e milioni di fascisti ignari si misero in fila per andarlo a vedere…
Successi così creano carriere con la stessa velocità con cui le distruggono. La prima moglie di Connery, Diane Cilento, ha raccontato che quando la popolarità gli esplose sulla testa Sean andò, dietro suo consiglio, da R.D. Laing, il guru della psicanalisi del tempo, il medico che curava i Beatles e Harold Pinter a dosi di Lsd, allora ancora legale. La droga lo tramortì per una decina di giorni e, una volta risvegliatosi, Sean prese a schiaffi la moglie. La sua fama di uomo manesco nasce allora e insieme con quella di essere attaccato ai soldi (è rimasta celebre la causa per 225 milioni di dollari fatta allo stesso Broccoli per i profitti di 007) da allora lo accompagna. Eppure, la vita privata di Connery non è mai stata al centro di pettegolezzi né quella pubblica di scandali, e un attore che sceglie di staccarsi dal ruolo che gli ha dato, e ancora avrebbe potuto dargli, notorietà e ricchezza è inusuale e non ha come chiave di lettura l’avidità economica. Con pazienza, e fin dall’inizio, Connery lavorò sull’altro sé stesso cinematografico: per Alfred Hitchcock girò Marnie dopo Dalla Russia con amore, per Sidney Lumet La collina del disonore dopo Goldfinger, per Martin Ritt I cospiratori dopo Si vive solo due volte… Costruì insomma, nel tempo, uno Sean Connery credibile e distinto dalla maschera famosa che l’aveva imposto. Nel già citato all’inizio Robin e Marian, in Cinque inverni un’estate, nell’ Uomo che volle farsi re, portò alla perfezione quel misto di cinismo e stanchezza, ironico distacco e ultimi fuochi di passione e di energia, che sono divenuti i suoi tratti salienti d’attore, il malinconico sorriso su ciò che si è stati, il ricordarlo, ma senza darvi peso, l’onda del tempo che cancella la sabbia della vita su cui ci ostiniamo a tracciare il nostro nome. Bisogna aver seriamente vissuto per non prendersi sul serio.