«Tra ipocrisie e malafede» è il titolo dell'articolo che l'altro ieri Gianni Riotta, vicedirettore del Corriere della Sera, ha dedicato all'elezione dei membri del nuovo Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani. Titolo perfettamente azzeccato. Così azzeccato che non ho resistito alla tentazione di usarlo anch'io. Ovviamente, con una sottile variante semantica, che può essere espressa con l'adagio medice, cura te ipsum: prima di accusare gli altri, occupati della tua personale ipocrisia e malafede, e cerca di curarti. Nel suo articolo Riotta ripete diligentemente gli argomenti di John Bolton, l'ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite. Secondo Bolton tutti gli Stati non in regola con la difesa dei diritti umani avrebbero dovuto essere esclusi dalla procedura di elezione del Consiglio.
E nel Consiglio i paesi occidentali, essendo i soli autentici difensori dei diritti umani, avrebbero dovuto avere molto più spazio. Assecondando queste tesi, nel suo articolo Riotta si scatena nel denunciare l'indegnità di una serie di Stati - una sua personale lista di «Stati canaglia», che figurano fra gli eletti nel nuovo Consiglio. Mentre si sono sdegnosamente rifiutati di farne parte gli Stati Uniti, Israele e l'Italia, nel Consiglio sono entrati, fra gli altri, la Cina, la Russia, la Nigeria e soprattutto Cuba. Questi paesi, sostiene Riotta, fanno strage dei diritti fondamentali dei loro cittadini. Lo scandalo è intollerabile: l'organismo che dovrebbe vigilare, dall'alto della sua integerrima moralità, contro torture, incarcerazioni illegali, vessazioni, aggressioni, ecc., accoglie fra le sue fila tiranni, torturatori e fondamentalisti islamici.
Certo, non si può negare che con l'elezione di questo Consiglio le Nazioni Unite abbiano mostrato ancora una volta la loro impotenza, incongruenza funzionale e irreformabilità. La loro pretesa di erigersi a baluardo di principi e valori universali è risibile. La tutela imparziale e universale dei diritti fondamentali delle persone non può essere affidata ad una istituzione politico-militare che si fonda sulla particolarità degli interessi dei governi nazionali e che, per di più, è dominata, al vertice della sua struttura gerarchica, dallo strapotere di alcune grandi potenze, in primis gli Stati Uniti.
Questa ambizione universalistica è altrettanto mistificante quanto lo è stato il tentativo del Segretario generale Kofi Annan di chiudere il suo mandato varando una (modestissima) riforma delle Nazioni Unite, riforma che l'ambasciatore Bolton ha efficacemente sabotato. Ed ora la vicenda si chiude nel grigiore e nella mistificazione di un Consiglio per i diritti dell'uomo che l'opposizione degli Stati Uniti renderà comunque impotente, come ha reso impotente la Corte penale internazionale, inutilmente insediatasi all'Aia tre anni fa (da allora non è riuscita a varare un solo processo). Resta dunque immutato uno scenario di gravissima, diffusa violazione dei diritti dell'uomo. Ma a violarli nel modo più clamoroso sono anzitutto i paesi occidentali. Basterebbe ricordare gli orrori e le infamie di Guantanamo (e annessi voli-prigione della Cia) e di Abu Ghraib, della strage di Fallujah, delle migliaia di vite umane falciate dalle armate occidentali in guerre di aggressione mascherate come guerre umanitarie o guerre preventive contro il terrorismo.
Jimmy Carter, ex presidente degli Stati Uniti, l'8 maggio ha pubblicato sul New York Times un articolo intitolato Punishing the innocent is a crime. Vi sostiene che Israele e i suoi alleati statunitensi ed europei, costringendo alla fame e a gravissimi disagi il popolo palestinese che ha votato per Hamas, lo assoggettano a una «punizione collettiva», e cioè a un gravissimo crimine contro l'umanità previsto dalle Convenzioni di Ginevra. Riotta provi a riscrivere il suo articolo almeno tenendo conto dell'opinione di Jimmy Carter. Medice, cura te ipsum.
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