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Perché la vita ci fa incontrare se poi ci dividerà per sempre?

di Francesco Lamendola - 17/09/2010

 

«Perché incontrarsi quando poi il destino ci obbliga a perderci?», si domanda il protagonista di un racconto di Emilio Del Bel Belluz, «Il legionario dannunziano»; interrogativo notevole, cui si potrebbe ricondurre la vicenda umana universale, e non solo quella di pochi individui coinvolti da circostanze speciali.
Anche lo scrittore ungherese Ferenc Körmendi ne aveva fatto oggetto di un romanzo assai fortunato negli anni Trenta, anche se di non eccelso valore letterario (e dal quale, in Italia, nel 1983 è stata ricavata una miniserie televisiva per la regia di Mario Foglietti), significativamente intitolato «Incontrarsi e dirsi addio».
Tutti, prima o poi, dobbiamo lasciare le persone che abbiamo incontrato lungo le strade della vita: le persone che amiamo, le persone alle quali ci sentiamo legati da profondi vincoli di affetto; tutti, quando arriva la fine della nostra esistenza terrena.
D’altra parte, anche senza spingere la riflessione su questo versante, così universale e così malinconico, resta il fatto che tutti, o quasi tutti, hanno fatto la singolare esperienza di incontrare delle persone con le quali si è stabilita un’intesa immediata e profonda; di incontrarle quando non se lo aspettavano, quando non lo credevano possibile, sì da vivere tali incontri come una rivelazione, se non come un vero e proprio segno de destino; e di trovarsene poi separati da circostanze esterne più o meno brusche, più o meno imponderabili, ricavandone un senso di vuoto esistenziale, tanto più incolmabile, quanto più profonda era stata la sensazione di intimità.
Vi sono persone che hanno fatto simili incontri nella loro prima giovinezza o addirittura nell’adolescenza, se non nell’infanzia; e ne sono rimaste così toccate, che tutta la loro vita si è poi svolta nella nostalgia e nel rammarico di quel sogno sfumato, di quella rivelazione delusa, di quella promessa di felicità tradita.
A volte tali persone si sono lasciate andare ad una cupa malinconia, che ha condizionato tutta l’evoluzione della loro vita interiore, così come quella di relazione; altre volte hanno nascosto a tutti la loro ferita, comprimendola per evitare che sanguinasse troppo copiosamente, e si sono sforzate di mostrarsi intraprendenti e dinamiche, niente affatto inclini alle fantasticherie, forse per nascondere dietro una corazza protettiva la coscienza della propria vulnerabilità.
Persone deluse, che si sono sentite oggetto di una beffa crudele da parte del destino: perché aver fatto un incontro così eccezionale, se poi la vita si è rimangiata ogni promessa e le ha lasciate ancor più nude e sole di prima, dopo averle illuse? Non sarebbe stato preferibile non sfiorare nemmeno quella meravigliosa sensazione di sentirsi in comunione profonda con un altro essere umano, per non dover poi sentire, più duramente di prima, il peso del disinganno?
Ora, se realmente il destino si divertisse a giocarci scherzi del genere, questo sarebbe un grave atto di accusa contro la vita stessa, un atto di accusa di tutto rispetto, tale da mettere in imbarazzo i più insigni filosofi e teologi: perché - parliamoci chiaro- le soddisfazioni professionali, sportive, artistiche, sono una gran bella cosa per chi le sperimenta, e così pure le gioie tranquille della famiglia e dell’amicizia; ma nessuna di esse può reggere il confronto con i sentimenti esaltanti, inesprimibili, che afferrano l’anima, quando essa riconosce al volo un’altra anima a lei affine e si inebria al senso di luminosa pienezza che scaturisce da un tale incontro.
Vale la pena, quindi, di valutare con calma la questione, per vedere se davvero noi siamo i balocchi di un destino capriccioso e crudele, che si diverte a giocare con noi senza uno scopo.
In realtà, se si considera bene la cosa, non si tarda ad accorgersi che sono diverse le motivazioni e le componenti che entrano a far parte della sindrome - ché di una vera e propria sindrome si tratta - dell’incontrarsi per poi doversi dire addio.
Innanzitutto, anche se è vero che essa colpisce di preferenza le persone dotate di un’indole sensibile, la tendenza al romanticismo non vi svolge poi quel ruolo centrale che, forse, ci si aspetterebbe.
Più importante, a nostro avviso, è un elemento molto meno “romantico”, anche se altrettanto legittimo e anzi, nella sua umile quotidianità, forse anche più nobile e rispettabile: l’orrore istintivo della mediocrità, dello squallore, di una vita noiosamente prosaica. E questo orrore, questa esigenza di evasione si sono fatti, crediamo, più acuti e pressanti da quando i ritmi e lo stile della società di massa hanno appiattito ogni spazio di individualità ed hanno reso anonimi, per così dire, gli stessi sentimenti, così come anonima si è fatta la cornice in è dato loro di esplicarsi.
L’individuo, compresso e frustrato dai ritmi spersonalizzanti e ossessivi della vita moderna, è perennemente esule da se stesso: ha perduto il proprio centro di gravità, non sa più nulla, o quasi nulla, di se stesso, dell’ascolto della propria anima; non sa neppure riconoscere le proprie esigenze profonde, chiamarle con un nome, esprimerle in atti e parole.
La letteratura contemporanea,da Dostojevskij (il più grande di tutti), a Thomas Mann, a Kafka, a Svevo, a Pirandello, riflette in pieno questo senso di impotenza e di nevrosi, di alienazione e di rabbia compressa, che intossica la vita individuale e svuota di significato quella sociale; e le cronache dei nostri giorni (solo ieri vi sono state due stragi della follia, una a Bratislava ed una in Arizona) testimoniano quanta ira, quanto desiderio di vendetta, quanta incontenibile distruttività alberghino ormai nella mente di tanti individui “normali”.
Dunque, il bisogno di trovare nell’altro una rispondenza profonda e quasi magica, di sentirsene istantaneamente capiti e apprezzati, di essere accolti come ospiti d’onore del salotto migliore della sua stessa anima, nasce e si sviluppa, a volte in maniera quasi compulsiva, come reazione a tanta solitudine, a tanta frustrazione, a tanta amarezza. È come se le persone cercassero inconsciamente un poderoso indennizzo a tutto quanto hanno sofferto in termini di isolamento e disinganno e lo cercassero tutto in una volta, tutto in un unico individuo, sul quale proiettare le loro immense aspettative e ricoprirlo con gli ornamenti più sontuosi della loro fantasia.
È relativamente facile, del resto, aprire il proprio cuore ad uno sconosciuto o ad una sconosciuta, mentre è cosa assai faticosa farlo con una persona ben nota e della quale conosciamo, o crediamo di conoscere, tutti i limiti e tutte le manchevolezze. Mentre aprirsi ad uno sconosciuto è come contemplare un paesaggio nuovo, visto per la prima volta: non ci si stancherebbe di ammirarlo, perché la sua stessa novità lo riveste, ai nostri occhi, dello splendore e della freschezza di ciò che non conosce il grigiore del lento logoramento quotidiano.
Quanto più la nostra vita è grigia e deludente, tanto più la nostra anima brama l’incontro eccezionale, come la cerva assetata - recita un bellissimo salmo dell’Antico Testamento - anela ai rivi delle acque, per dissetarsi. Ma l’incontro eccezionale, per definizione, promette molto più di quanto non possa mantenere: un meccanismo psicologico inconscio ci spinge a ritenerlo irripetibile e non prolungabile nel tempo, tende ad allontanarcene, per lasciarci poi in compagnia di una dolce malinconia.
Non vogliamo dire che la dinamica sia sempre questa: che sempre, per prevenire la delusione che forse seguirebbe alla gioia, noi ci allontaniamo da quegli incontri felici, con il segreto desiderio di continuare a vivere di ricordi e di rimpianti. Talvolta sono realmente delle circostanze oggettive a separarcene; ad esempio, dei legami contratti in precedenza, o dei trasferimenti in paesi lontani, o altro ancora.
Tuttavia, siamo sinceri: quante di queste difficoltà non sarebbero superabili, se davvero noi volessimo dare un futuro a tali incontri felici? Non sarebbe forse nelle nostre possibilità liberarci dei vecchi legami, trasferirci altrove, affrontare cambiamenti e sacrifici, pur di non spezzare il prezioso legame che si è venuto a creare fra noi e un altro essere umano, ben sapendo che difficilmente la vita sarà così generosa da ripeterci una simile offerta?
E tuttavia, ammettiamo che, almeno in un certo numero di casi, non sia così: che realmente le circostanze esterne siano più forti di noi e che siano esse a pronunziare l’ultima parola. Abbiamo già osservato che ciò, in definitiva, è vero per tutti gli incontri, destinati a concludersi - almeno sul piano del finito - con il silenzio della morte: la nostra o  quella dell’altra persona.
Ebbene: è proprio vero che siamo stati vittime di una beffa del destino, che siamo stati crudelmente ingannati dalla vita e defraudati di qualcosa che ci era stato promesso o, quanto meno, che ci era stato fatto intravedere come possibile e realizzabile?
Se vogliamo essere giudici spassionati di noi stessi, dobbiamo ammettere che le cose stanno diversamente.
In primo luogo, ogni esperienza della nostra vita, e dunque ogni incontro felice, è qualche cosa che rimane per sempre, se noi lo vogliamo: dipende solo da noi farlo diventare parte di noi stessi, non solo sotto forma di ricordo (che può essere un’arma a doppio taglio), ma proprio come elemento costitutivo del nostro essere, vale a dire come qualcosa che ci dà gioia, bellezza e fiducia nel mondo e in noi stessi, non oggi soltanto, ma sempre.
In effetti, questa è una regola universale e se ci sembra che sia altrimenti, ciò dipende dal fatto che noi lasciamo cadere, l’una dopo l’altra, le nostre esperienze di vita, senza mai assumerle in profondità e senza trarne occasione per arricchircene in maniera permanente. Come un terreno impermeabile lascia che l’acqua piovana scorra in superficie, ristagni e infine evapori, così noi, per ignoranza e superficialità, lasciamo che le esperienze ci scivolino via senza fermarsi, senza lasciare una eredità durevole: quelle liete, per illuminare il nostro cammino; quelle tristi, per insegnarci ad apprezzare ancor di più le altre e perché impariamo a lavorare su noi stessi, sviluppando forza d’animo, pazienza, perseveranza, lealtà e trasparenza.
La vita, dunque, non ci defrauda di nulla; siamo noi che non sappiamo usare nel modo giusto le preziose occasioni che essa ci mette a disposizione affinché ci adoperiamo continuamente per la nostra crescita spirituale.
In secondo luogo, quando ci accade di vivere un incontro felice con un altro essere umano, dovremmo essere consapevoli che ci è stato fatto un grande dono e che il suo valore non si può misurare con un criterio di tipo quantitativo, ma solo ed esclusivamente qualitativo. Non è importante calcolare quanto esso sia durato, strappando i fogli del calendario: l’unica cosa che conta è l’impronta che esso ha lasciato in noi.
Se si è realmente trattato di un incontro felice, la sua impronta sarà indelebile, qualunque cosa accada. Noi non saremo mai più quelli di prima: terremo sempre la fronte alta mentre camminiamo sulle strade del mondo, per quanto impervie e polverose possano presentarsi davanti ai nostri passi e per quanto grande possa farsi in noi la stanchezza.
Vi sono due tipi di stanchezza: quella che demoralizza, sbigottisce e toglie forza e volontà, e quella che, pur pesando fisicamente e spiritualmente, viene rielaborata e trasformata nel suo contrario, alimentando in noi la capacità di procedere sempre con passo sicuro.
Per riuscire a realizzare questa sorta di trasformazione alchemica, gli incontri felici che abbiamo fatto nel corso del nostro peregrinare costituiscono un elemento importantissimo ed anzi pressoché indispensabile, proprio come la luce solare è l’elemento indispensabile affinché le piante verdi possano realizzare nelle loro foglie quell’autentico miracolo della vita che va sotto il nome scientifico di fotosintesi clorofilliana.
Noi siamo le piante verdi, gli incontri felici sono la luce solare ed i momenti della nostra vita sono come le foglie di un albero che accolgono in se stesse la luce e, mediante l’apporto dell’acqua e dei sali minerali, trasformano la sostanza inorganica in organica.
Se sappiamo guardare alla vita nel modo giusto e se il nostro sguardo su noi stessi si fa trasparente, allora diventiamo anche in grado di realizzare il miracolo di trasformare in sostanza organica, vivente, tutte le nostre esperienze e di valorizzare al massimo quelle positive, innalzandoci, per così dire, al d sopra di noi stessi.
Quanto alle persone che la morte ha diviso da noi, nemmeno esse se ne sono andate veramente. Sono ancora con noi, sono ancora in noi.  Rimarranno con noi finché noi ci saremo. E anche oltre…