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La vera Grande Opera e l’unica necessaria è la trasformazione del male in bene

di Francesco Lamendola - 24/09/2010

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Già per il solo fatto di esistere e di condividere con tanti altri esseri la grande avventura denominata “vita”, siamo tutti un po’ alchimisti; o, quanto meno, dovremmo sforzarci di diventarlo.

Ma di tutte le svariate operazioni alchemiche, tramandate dalla tradizione - alcune delle quali estremamente serie, altre al limite della futilità - una sola è veramente necessaria: quella Grande Opera che chiunque, teoricamente, è in grado di compiere, anche se non ha letto un solo libro di filosofia, ma possiede una mente acuta ed un cuore generoso: la trasformazione di ciò che, nella presente vita, è male, o si presenta sotto le vesti del male, in bene.

Il pensiero che, forse, si formerà immediatamente nel lettore un po’ impulsivo e frettoloso, sarà che il male supremo della vita è costituito dalla morte, e quindi bisognerebbe trasformare il male della morte nel bene della vita, cosa manifestamente impossibile; ma si tratterebbe, appunto, di un impulso istintivo e non sottoposto al vaglio del pensiero critico.

Per decidere che la morte FISICA sia un male, anzi il Male assoluto, e che la vita fisica sia, in se stessa, il Bene, sarebbe necessaria una lunga e approfondita indagine filosofica, che qui ci guardiamo bene dal fare, perché non rientra negli scopi della presente riflessione. Ci limitiamo ad osservare che tale credenza è la tipica espressione di una mentalità materialista, quale è quella oggi largamente dominante, sia nella cultura accademica, sia, di riflesso, nel sentire comune; ma non costituisce affatto una verità auto-evidente, a meno di assolutizzare la conoscenza sensibile e di dedurne che esiste realmente solo ciò che si può esperire con i sensi fisici.

Lasciando impregiudicata la questione e riservandoci di tornare altra volta sul tema della morte, precisiamo dunque che la Grande Opera di cui parlavamo non si riferisce all’evento conclusivo e, per così dire, risolutivo della nostra esistenza terrena, ma proprio al cammino quotidiano, talvolta monotono, spesso faticoso, della nostra vita; quel cammino che ci vede così spesso esausti o scoraggiati, specialmente quando la salita si fa più impervia.

La sofferenza, l’angoscia, la paura con le quali deve fare i conti ogni nato di donna pongono, sul cammino della vita, altrettanti interrogativi e sollecitano altrettante risposte: è come se una forza misteriosa si servisse di questo strano linguaggio per instaurare con noi un fitto dialogo, la cui posta in gioco è, appunto, sviluppare in noi stessi la capacità di trasformare il male in bene, il dolore in gioia, lo smarrimento in speranza.

Molto spesso gli scrittori, i filosofi e i teologi i quali si pongono in quest’ottica, specie da un’angolatura cristiana, adoperano espressioni come «dare un senso alla sofferenza»; naturalmente, si tratta anche di questo: ma non solo di questo. Dare un senso alla sofferenza, certamente; ma non basta: non si tratta solo di darle un significato, di sottrarla al non senso che la rende tragicamente simile ad una amara ironia, ma di compiere il passo ulteriore: recuperarla, trasformarla radicalmente, rivestirla di panni interamente nuovi e farne uno strumento non solo per la nostra ascesa spirituale, ma perfino per la nostra letizia.

A rigore, in una prospettiva spirituale della realtà, il male non esiste, se non in funzione del bene; non è, quindi, un Male assoluto. Perfino il Male più grande che possiamo immaginare, il Demonio, come principio contrapposto all’infinita bontà divina, non può svolgere che una funzione temporanea (su scala cosmica) e di stimolo, per così dire, nei confronti delle forze luminose esistenti nell’anima umana: come uno strumento per saggiare la purezza.

Resta il fatto che, nella nostra esperienza di vita, noi percepiamo talune situazioni come male: la separazione, l’abbandono, la malattia, la solitudine, il distacco provocato dall’evento della morte fisica che ci appare, appunto, come un evento definitivo e irrimediabile.

Perciò, i casi sono due: o è sbagliata la premessa, che tutto sia bene, o è sbagliata la conclusione, che taluni accadimenti della nostra vita siano male.

Noi non diciamo che la premessa sia palesemente sbagliata: esistono opinioni discordi, ed è giusto che sia così; diciamo soltanto che essa è incompatibile con una visione spirituale del reale, cioè con una visione implicitamente o esplicitamente religiosa. Una visione spirituale del reale si basa sul convincimento che le cose esistano per un disegno di bene: non per un caso, e meno ancora per un fine malvagio. Infatti, se esistessero per un semplice accidente, allora non vi sarebbe alcun disegno: ma da dove verrebbero, le cose stesse? Dal caso anch’esse? Non è possibile, per l’evidente circolo chiuso che si viene così a creare.

Resta l’altra ipotesi: che le cose siano state tratte all’esistenza da una volontà malefica, per il loro male. Ma è molto difficile, per non dire impossibile, che l’odio porti alla creazione di qualcosa: noi tutti lo sappiamo intuitivamente, con quel grado di certezza psicologica che viene dal profondo, prima di qualunque ragionamento. La creazione nasce sempre da un atto di amore, perché si origina dalla sovrabbondanza dell’anima. Quando l’anima odia, si assiste ad una sua chiusura, ad un suo restringimento, non certo ad una sua espansione. E, se ciò vale nella limitata esperienza delle cose umane, a maggior ragione deve valore per una Forza creatrice che sia di natura sovrannaturale, eterna e perfetta. Un Dio malvagio è una contraddizione in termini.

Resta l’altra ipotesi, la quale - a questo punto - è diventata qualcosa di più di una mera ipotesi: che tutto esista per il bene, che tutto nasca da una volontà benevola e da un atto di amore. Ora, se le cose stanno così, è evidente che il cosiddetto male altro non è che il frutto di una nostra incapacità di interpretare correttamente gli enti e le situazioni che la vita ci presenta. Una malattia, ad esempio, non è male in se stessa, ma diventa male se noi la viviamo solo come paura, angoscia, disperazione. La morte stessa non è male, se teniamo presente la sua natura essenziale: quella di dischiuderci la porta di una ulteriore dimensione dell’esistenza.

Allo stesso modo, dovremmo essere cauti nel giudicare disgraziate quelle persone che sono colpite da situazioni di povertà, sofferenza, solitudine: chi siamo noi per esprimere giudizi sul mistero di ciò che avviene nell’intimo di un’altra anima? A mala pena riusciamo a comprendere qualche cosa di ciò che avviene nella nostra; e nemmeno sempre, come è dimostrato dal grandissimo numero di persone profondamente inconsapevoli rispetto a se stesse.

Prima di compatire gli altri per i mali che li colpiscono, dovremmo sapere se essi li vivono realmente come mali e se porteranno davvero ad un peggioramento della loro intima natura: ciò che può avvenire solo con il consenso umano. Nessuno può essere reso peggiore dal male che lo colpisce, se non vi consente. Diversamente, il cosiddetto male non è altro che il farmaco che ci fa guarire dai mali inconsapevoli, ma reali, che ci affliggono: pigrizia, egoismo, superficialità, disinteresse; e che ci rimette sulla perduta via maestra.

Si potrebbe obiettare che, se tutto è bene, non si capisce da dove sorgano in noi i mali dell’anima, come la pigrizia e gli altri dei quali abbiamo detto. Rispondiamo che essi nascono da una nostra volontà diretta verso obiettivi che non corrispondono al disegno complessivo dell’esistente e, quindi, neppure alle effettive esigenze della natura umana: ossia da una volontà inconsapevole. L’unico vero male, in definitiva, è proprio la nostra tenace inconsapevolezza; è a causa sua che noi ci allontaniamo dal nostro vero centro e anche dal baricentro cosmico, che ruota sempre intorno al Bene.

Non vogliamo con ciò intendere che si tratti solo e unicamente di un allontanamento individuale e volontario; non vogliamo intendere, razionalisticamente - con Socrate, e in parte con gli Stoici - che basterebbe conoscere il Bene, per essere portati a farlo sempre. Riconosciamo che nella natura umana vi è una ferita originaria, un “vulnus”, che ci porta non solo a non saper riconoscere sempre il Bene, ma anche a non saperlo fare, pur vedendolo. Deve essere accaduto qualcosa, in noi e prima di noi, che ha infranto la nostra armonia originaria: una lacerazione, una caduta.

La Grande Opera, dunque, consiste nel trasformare il male che ci colpisce, e che a noi sembra tale, in bene, ossia di riconoscere il disegno benevolo in cui è intessuta ogni nostra esperienza, ricollegandoci a quell’armonia cosmica di cui siamo parte, ma della quale così spesso ci dimentichiamo, ed integrandoci in essa.

Nel fare ciò, l’ostacolo principale che dobbiamo superare non è di natura esterna, ma interna; non sono le cose, le situazioni o le persone, ma quella zona oscura, fatta di ignoranza, egoismo, avidità e paura, che si trova in noi stessi e che tenderebbe a farci ricadere nell’inconsapevolezza, nella separazione dal Tutto cui siamo armoniosamente uniti.

Questo è un concetto di estrema importanza.

La più forte resistenza e la più insidiosa minaccia alla realizzazione della Grande Opera non si trova fuori di noi, ma in noi. Non sono le cose a costituire il male per noi: siamo noi stessi che non sappiamo utilizzarle nel modo giusto, che non sappiamo farci guidare da esse ed accoglierne gli stimoli ed i suggerimenti in maniera adeguata. Viceversa, perfino delle cose molto buone possono divenire dannose per noi, se non sappiamo gestirle nel modo appropriato.

L’acqua è un bene, per il viandante che sta soffrendo la sete nel deserto; tuttavia, se egli si mettesse a bere smodatamente dopo un lungo periodo trascorso senza aver potuto assaggiare nemmeno qualche goccia, rischierebbe di uccidersi da se stesso. La mancanza di misura, l’incapacità di gestire i tempi e i modi delle opportunità che la vita ci offre, la brama e il timore che deformano la nostra percezione di esse: questo è il male, o meglio: questo è il meccanismo mediante il quale noi riusciamo a trasformare il bene in male.

Pertanto, per vivere in modo felice, vale a dire saggiamente e secondo virtù, noi dobbiamo imparare a fare esattamente il contrario: dobbiamo imparare a riconoscere la natura benevola delle cose, ma anche la necessità di accostarci ad esse con misura e discernimento. La Grande Opera che ciascuno di noi è chiamato a realizzare in se stesso è, dunque, la trasformazione del male in bene, ossia il riconoscimento che quel che avevamo vissuto come male, in realtà è parte di un disegno benevolo, mirante al nostro perfezionamento.

Si tratta di una operazione che è alla portata di tutti e che non eccede per niente le nostre forze, la nostra intelligenza e la nostra volontà.

Come si spiega, allora, il fatto - piuttosto evidente - che siano così poche le persone le quali riescono effettivamente a realizzarla?

La risposta, molto probabilmente, risiede in quella pigrizia morale, in quell’egoismo, in quella superficialità e in quel disinteresse, dei quali abbiamo prima parlato. Noi viviamo molto, ma molto al di sotto del nostro potenziale etico: gli atti della nostra vita, così spesso improntati alla piccolezza e alla meschinità, ci hanno gradualmente tarpato le ali, ci hanno tolto la forza e il coraggio, ci hanno spogliati dell’entusiasmo e della freschezza i quali ci erano stati trasmessi in dote, come lo sono ad ogni bambino che deve affrontare il mistero dell’esistenza.

Si tratta, pertanto, di risalire alle nostre stesse fonti, di ritornare verso il centro dimenticato di noi medesimi: perché al centro di noi medesimi vi è anche il riflesso dello splendore divino, dal quale possiamo attingere inesauribilmente forza, coraggio e volontà. Sta solo in noi farvi ricorso, sta solo in noi saperne approfittare: quei beni sono a disposizione di tutti, nessuno escluso. Bisogna solo dischiudere il portone, che è solamente accostato, non mai chiuso a chiave.

Avanti, dunque.

La strada è meno impervia e faticosa di quel che si creda; ci piace immaginare che sia un sentiero difficilissimo, quasi impraticabile, per giustificare la nostra inerzia e la nostra attitudine rinunciataria. Ma è un’astuzia che ci si ritorce miseramente contro: perché, a causa di essa, noi non facciamo altro che il nostro danno.

Ecco, già la spessa coltre di nubi incomincia a sollevarsi, e i fianchi delle montagne appaiono al di sotto di esse, lucidi di pioggia, nella gloria del meriggio.

Tra poco un raggio di sole trafiggerà le nuvole e ci brillerà in viso.

È ora di rimettersi in cammino.

Abbiamo ancora delle preziose ore di luce, prima che scendano le ombre della sera.