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La Campania virtuosa

di Valerio Ceva Grimaldi - 24/09/2010


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Terra visita un impianto di riciclaggio dei rifiuti a San Vitaliano, vicino Nola. Qui entrano 300 tonnellate al giorno. E ne escono delle balle ecologiche. Che vanno al Nord. «Qui è tutto troppo difficile».

La parola chiave è “ingegnerizzazione” del ciclo dei rifiuti. Altrove accade, in Campania no. Nonostante sedici anni di emergenza, miliardi di euro spesi e l’equazione Napoli=immondizia per strada difficile da scrollarsi di dosso. Angelo Bruscino, trentenne presidente regionale di Confapi Giovani, accompagna Terra in un viaggio attraverso la Campania (dei rifiuti) che, tra mille difficoltà, funziona. La sua famiglia da anni è impegnata nel settore: prima con una ditta di spurghi poi, dal 1999, con l’avvio, a San Vitaliano, vicino Nola, di un impianto (gestito dalla Ambiente Srl) che recupera le materie prime provenienti dalla raccolta differenziata: plastica, carta, cartone, banda stagnata, vetro, alluminio. Un investimento superiore ai dieci milioni di euro, con un piccolo contributo di fondi pubblici (legge 488), solo nella fase di avviamento. Poi solo capitali privati. 
 

«Qui arrivano i camion della raccolta differenziata di un centinaio di Comuni “ricicloni” delle province di Napoli, Salerno, Caserta, Benevento ed Avellino: un bacino di un milione e mezzo di abitanti», racconta Angelo, mentre visitiamo gli uffici dell’azienda. Se non fosse per l’inevitabile olezzo e i residui della lavorazione sparsi qua e là, l’ingresso dello stabilimento potrebbe essere scambiato per la reception di un albergo di lusso. La società che lo gestisce, la Ambiente srl, è stata oggetto, nel 2004, di una “interdittiva antimafia atipica”. Poi sconfessata da Tar e Consiglio di Stato che l’hanno definita “erronea”. Ora la prefettura è stata condannata a pagare un sostanzioso risarcimento danni.
 
«Tra i Comuni che fanno alte percentuali di differenziata, con cui lavoriamo in via esclusiva per evitare che la produzione poi scada in qualità, c’è Mercato San Severino, che fa più del 70% di riciclo. Ciò permette all’amministrazione comunale di spalmare sui cittadini i benefici di questa performance, abbassando la tassa sui rifiuti solidi urbani. Fare la raccolta differenziata, oltre che convenire economicamente, è un obbligo di legge. Tutti quelli che la fanno al di sotto delle previsioni normative sono “fuorilegge”. E dovrebbero  decadere». Già. Ma non accade sempre e per tutti.
 
«E Napoli non porta la sua differenziata qui?», l’interrompiamo. «Assolutamente no. Il  capoluogo produce il 40% di tutti i rifiuti della regione. Per legge i Comuni, entro il 2010, dovrebbero arrivare al 60% di differenziata, Napoli è sotto il 20. E quella che fa è di pessima qualità. Noi non la trattiamo. Scelte di politica aziendale». Sedici anni di crisi, diversi commissari, prefetti, capi della Protezione civile. Fondi, tanti fondi. E Napoli rimane inchiodata al 18%, secondo l’ultimo dato disponibile. Roma è al 30, Milano al 34. 
 
«Quando c’è l’emergenza non posso fare altro che guardarmi sconsolato l’impianto che deve rimanere fermo. Quando si accumulano i rifiuti nelle strade non possono essere riutilizzati. Viene buttato tutto direttamente nelle discariche. E i miei 120 dipendenti rimangono a casa finché non si torna alla normalità». Una parola che, da queste parti, è sinonimo di sogno. Se non, più pragmaticamente, di disillusione. «La raccolta differenziata è una formidabile opportunità di green economy», allarga le braccia l’imprenditore napoletano. «Si fa spesso riferimento all’economia dell’energia o a ipotetiche rivoluzioni nelle nostre catene di montaggio. In realtà, la green economy parte proprio dalle cose più semplici: dal sacchetto di immondizia».
 
Ecco come la Campania, a causa di un ciclo pubblico dei rifiuti gonfiato da clientele e piegato dagli sprechi, ogni giorno dà un calcio ad una potenzialità che potrebbe creare occupazione e diminuire l’impatto sull’ambiente, in uno dei territori più avvelenati d’Italia.  «Laddove, invece di utili, vengono generati debiti, anche questi vengono distribuiti sul territorio, e quindi il servizio si dequalifica. E aumenta la tassa per lo smaltimento». Che, a Napoli, è la più alta d’Italia.
 
Ma in Campania la vita non è facile nemmeno per chi «un po’ pazzamente», decide di promuovere un’attività sana nel settore dei rifiuti. Pubblicità negativa grazie al battage mediatico, burocrazia incancrenita («per avere un’autorizzazione qui ci vogliono mesi, al Nord pochi giorni»), e le banche che non concedono prestiti, se non a condizioni proibitive. E, poi, la fragilità di un sistema mai “normalizzato”, che non adotta soluzioni strutturali e definitive. Tanto poi c’è lo Stato che rifinanzia. 
 
«Qui entra una media di trecento tonnellate giornaliere», spiega Bruscino indicando un grosso hangar dove sono accatastate migliaia di buste di plastica piene d’immondizia riciclata (la sola città di Napoli produce complessivamente 1300 tonnellate di rifiuti). L’umido non c’è: «Avrebbe bisogno di impianti appositi che in Campania non esistono». E così l’umido campano viene portato in Sicilia, Puglia e Toscana. «Il materiale, poi, viene trasportato su un nastro e comincia il suo ciclo di lavorazione. Getti d’aria compressa, un magnete e riconoscimento dei materiali tramite una fibra ottica attraverso una luce laser dividono i materiali in entrata».
 
L’hangar è molto grande, l’aria è acre. I rifiuti, così, partono veloci sui nastri che sembrano delle piste di un parco di divertimenti, e vanno in direzioni diverse, inghiottiti da questo mostro di acciaio che li lavorerà per predisporli al riciclaggio. «La verità è che ciascuna tecnologia dovrebbe fare la propria parte. E la bilancia energetica deve essere in positivo. Il termovalorizzatore di Acerra, ad esempio, ad ora lavora a debito: cioè acquista più energia per funzionare di quanta ne produce perché lavora a scartamento ridotto. Se funzionasse a regime sarebbe più che sufficiente per i quantitativi di produzione della Campania». Intanto, il progetto dell’impianto di incenerimento Napoli est va avanti.
 
L’emergenza continua a fare danni anche in termini di immagine. «In uno stato di continua crisi il rischio d’impresa è così elevato che nessuno ti finanzia. C’è stata un’esposizione mediatica talmente negativa sul settore per cui parlare di ecologia in un istituto bancario significa, in Campania, essere messo alla porta». E qui vengono a galla le responsabilità della politica. «C’è una sovralimentazione di personale nel ciclo dei rifiuti assolutamente inusitata. Per ogni spazzino di Milano a Napoli ce ne sono 10. Dovremmo avere le strade lucide, ma spesso gli operatori non li vediamo nemmeno per strada. E questo dovrebbe essere il primo punto su cui incidere. Ma ormai qui scontiamo da cinquant’anni un fallimento del sistema Stato, debacle che è diventata normalità. In Campania non sono garantite condizioni di mercato paritarie: banche, burocrazia, ritardi nei pagamenti che superano i 600 giorni. Un dato assurdo. Come si fa? Qui è tutto tremendamente troppo difficile: non escludo affatto, un giorno non troppo lontano, di andar via da qui».
 
Eccolo qui il risultato del trattamento dei rifiuti dell’impianto di San Vitaliano: enormi blocchi di materiali riciclati da avviare ai consorzi. Delle vere balle ecologiche. Plastica, carta, cartone, alluminio. Alle nostre spalle scorgiamo migliaia di bottiglie di vetro accatastate. «Da dove vengono?», chiediamo. «Da Napoli». E dove vanno? «A Venezia, al Consorzio CoReVe. Noi lavoriamo con il Conai. In Campania non ci sono impianti adeguati». Il compost va in Sicilia, il vetro a Venezia, le poche cartiere della zona in grado di riciclare la carta stanno chiudendo. Eppure, sospira il giovane imprenditore, «la vera green economy è qui. Stiamo parlando di mercati che su larga scala sono di natura straordinaria». Qualcuno salvi la Campania. Se non per garantire i sogni, almeno per combattere la disillusione.