Iraq, nessuna "missione compiuta"
di Ian Williams - 16/05/2006
Dopo 2.300 morti americani, un centinaio di deceduti britannici e circa 18.000 feriti, nessuno ha ancora fornito una spiegazione coerente e convincente per l'invasione dell'Iraq |
Il primo maggio, tradizionale occasione di celebrazione della primavera e del socialismo, abbiamo riflettuto sull’anniversario del noto discorso trionfalistico tenuto da George Bush sulla portaerei USS Abram Lincoln – quello pronunciato sotto lo striscione 'Missione compiuta'. Tre anni dopo quel discorso autocelebrativo e dopo 2.300 morti americani, un centinaio di deceduti britannici e circa 18.000 feriti, nessuno ha ancora fornito una spiegazione coerente e convincente per l’invasione dell’Iraq. Il leader di un vecchio impero globale, Lord Palmerston, disse che solo tre persone avevano capito la questione dello Schleswig-Holstein. Una di queste era deceduta, l’altra era impazzita, e la terza, ovvero lui stesso, l’aveva dimenticata. Quando gli storici studieranno la misteriosa ragione per la quale la guerra in Iraq abbia avuto luogo, è probabile che George W. Bush se ne uscirà con una risposta simile – sebbene, si può immaginare, senza lo spirito pungente caratteristico di Lord Palmerston. Infrangere la legge per farla rispettare non suona senz’altro bene come slogan. Kofi Annan ha fatto giustamente notare che l’invasione contravveniva alla legge internazionale. Anche se lo stesso Iraq stava violando la legge internazionale impedendo l’intervento degli ispettori ONU addetti al controllo degli armamenti, è doveroso ricordare che, nonostante le risoluzioni delle Nazioni Unite con mandato di cooperazione siano ancora sulla carta, gli occupanti non hanno ancora riammesso i suddetti ispettori. Sono diversi ormai gli elementi che suggeriscono come le armi di distruzione di massa irachene fossero state solo un pretesto, e non la vera causa dell’invasione. Poi c’era la scusa della violazione dei diritti umani messa in atto dall’ex regime iracheno. Nel momento più sanguinario della sua tirannia, Saddam Hussein era uno degli alleati più preziosi di Londra e Washington. A tal proposito, ricordiamo che qualsiasi richiesta di giustizia storica dovrebbe essere inquadrata anche nel contesto della totale mancanza di un intervento a Timor Est in passato, o sull’attuale disinteresse per il Darfur. È indubbiamente vero che Israele stesso, e la sua lobby statunitense, l’AIPAC (Comitato israelo-americano per gli affari pubblici), hanno spinto per l’invasione dell’Iraq, nella stessa misura in cui oggi si scagliano contro l’Iran. Ironicamente, mentre gli esperti pro-Israele hanno contestato gli autori di un recente rapporto su questa lobby per il loro supposto carattere “antisemita”, lo stesso sito dell’AIPAC sventola la cattura di Saddam Hussein come uno dei suoi maggiori successi. Tuttavia, nonostante l’AIPAC abbia di certo contribuito a instaurare un clima favorevole all’invasione dell’Iraq, è improbabile che si sia forzata un’azione militare così costosa solamente perché ciò rientrava negli interessi di Israele. Una delle ragioni del successo dell’AIPAC e di altre lobby politiche che trovano un forte appoggio negli Stati Uniti – come quella degli esiliati cubani – risiede nel fatto che sono pochi i membri del Congresso Usa o i votanti ad avere un interesse diretto nella politica estera, e ancora meno sono quelli che si preoccupano delle opinioni del resto del mondo – a meno che esse non generino ripercussioni politico-elettorali. Nel caso dell’Iraq, la lobby in questione stava remando nella stessa direzione dell’amministrazione Bush. I militari professionisti erano stati espulsi dal Pentagono e la Casa Bianca si muoveva in via preventiva. Tuttavia, questo lascia irrisolta la questione del perché così in tanti nel governo Usa volessero una guerra. Anche ammesso che Cheney e vari membri dell’AIPAC abbiano veementemente ricordato a Bush della nazionalità araba di Saddam Hussein (la stessa di bin Laden) – leggi dietro all’11 settembre ci poteva esserci anche Baghdad – è possibile che il presidente Usa possa essere davvero così ingenuo? Può essere stato abbindolato a tal punto da Karl Rove – il quale ad ogni costo ha voluto sovrapporre la guerra al terrore con quella all’Iraq? Beh, sì. Ma forse non proprio in questo caso. Ancora una volta, questa è stata una scusa, non una causa. L’attacco all’Iraq era una vecchia ossessione che aspettava solo il pretesto dell’attentato al World Trade Center per essere attuata. Se dovessimo fare a Bush la domanda che a suo tempo fu rivolta a Palmerston – ma questa volta sulla ‘questione irachena’ – sappiamo per certo che in questo caso non si tratta di morte. Resta però il dubbio se il presidente Usa non sia uscito di senno, o non abbia dimenticato il vero perché alla base della guerra in Iraq. Diversamente da Ronald Reagan, Bush non soffre di Alzheimer; così, ci rimane il dubbio che, se non proprio mentalmente disturbato, il presidente Usa non abbia tutte le rotelle a posto. Purtroppo, sembra più verosimile che più di 2.300 americani e decine di migliaia di iracheni siano morti per esorcizzare i sentimenti di inadeguatezza di Bush (tutti giustificati). Suo padre abbandonò gli studi a 18 anni per combattere nella Seconda Guerra Mondiale. Bush junior sfruttò tutte le conoscenze possibili pur di entrare a far parte della Guardia Nazionale Aerea del Texas e andare a combattere in Vietnam – e disertò prima di terminare il servizio.
Fonte: http://www.alternet.org/waroniraq/35497/ |