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Riflessioni sulla Patria, fra le querce, nell’ultimo sole di ottobre

di Francesco Lamendola - 10/10/2010



Superata la stretta di Quero, il Piave scende dalle montagne e si apre la via tra le colline, ormai quasi in vista della pianura; tutt’intorno, sulle due sponde, è un tripudio di luce e di colori, i colori incantevoli del principio d’autunno.
Sulla destra si apre il grandioso Sacrario dei caduti francesi nella prima guerra mondiale; furono loro ed i loro commilitoni a prendere il Monte Tomba, che ora si abbevera verdeggiante nell’ultimo sole di ottobre, con un attacco fulmineo e magistrale, il 30 dicembre 1917, nei momenti cupi che fecero seguito allo sfondamento di Caporetto.
Oltrepassata Onigo, lascio l’automobile sul ciglio della strada e mi avvio di buon passo su per la salita della Rocca di Cornuda, nell’ombra fresca delle farnie: sono piante vecchie di circa cinquanta anni, che svettano per diciotto o ventri metri verso il cielo azzurro ed avvolgono tutte le colline di un denso mantello verdeggiante, che già tende impercettibilmente al giallo.
Sono luoghi bellissimi, questi, ancora relativamente intatti e coperti fin dai tempi più antichi da dense foreste di svariate essenze: non per niente il bosco qui vicino, uno dei boschi più suggestivi di queste colline, si chiama del Fagaré; i toponimi tradiscono la presenza del faggio, tipico albero di mezza montagna; così come il bosco di Olmé, presso Cessalto, ricorda la presenza dell’olmo, tipico albero di pianura.
In cima al colle sorge un santuario mariano: lungo la salita si può ancora ammirare il tronco di una antichissima, immensa quercia dove, secondo la tradizione, apparve la Madonna ad una fanciulla sordomuta, figlia di un crociato del luogo. La piccola chiesa onusta di storia, immersa nella luce del meriggio ottobrino, pare un vascello sballottato dai marosi ed infine deposto dolcemente sulla riva del mare, ancora in vista dei frangenti dai quali ha ricevuto in sorte di sfuggire, ed offre un’oasi di silenzio e di pace come ve ne sono ancora poche.
Più in basso, a circa due terzi dal principio della salita, all’altezza di un poggio affacciato sulla pianura e sulla valle del Piave, visibile fino al Montello ed oltre, è stato eretto un cippo di proporzioni notevoli, quasi un obelisco, con una grandiosa aquila di bronzo, in memoria di un eroico e sfortunato fatto d’armi del Risorgimento.
Qui, l’8 e il 9 maggio 1848, si dice che 2.000 volontari italiani del generale Ferrari si scontrarono con 22.000 imperiali del generale Nugent, ai piedi del colle e attorno allo stesso santuario. Quest’ultimo venne barbaramente saccheggiato e devastato dagli Austriaci, che non seppero mostrare la generosità dei forti. Lo sventurato rettore, Mansueto Zannini, venne crudelmente seviziato, a battaglia finita, dagli spietati vincitori: caricato di catene roventi, impazzì per il dolore e la paura e morì poco dopo nella sua città natale, Feltre.
È bello salire quassù a piedi, per chi possiede un buon paio di gambe ed un buon paio di polmoni: il panorama è superbo, il silenzio è suggestivo e inclina l’animo a pensieri raccolti e a riflessioni di varia natura. Non si può non pensare alla Patria, su queste ridenti colline immerse nella pace della natura; ovunque incombe la storia: fin sotto il santuario si apre una galleria, scavata nella roccia, che fu utilizzata dai nostri soldati nel 1917-18, quando il fronte giunse sin qui.
Ci sono molta esagerazione, molta falsa retorica intorno alle memorie risorgimentali; il che non rende un buon servizio alla causa del presente.
La battaglia del maggio 18148 fu davvero eroica; ed eroica, in particolare, fu la carica suicida dei quaranta dragoni pontifici che, quando ormai tutto era già perduto, si gettarono con le lance e le sciabole sguainate contro la fanteria nemica, per rallentarne l’impeto: morirono quasi tutti. Il fatto è realmente accaduto, ed è altrettanto verro che per una intera giornata i volontari italiani erano riusciti a tener testa alle agguerrite ed esperte truppe avversarie, benché, per molti di loro, giovanissimi e male equipaggiati, quello fosse il battesimo del fuoco.
Ma la sproporzione numerica non era così schiacciante come si vuol far credere: la verità è che vi furono, da parte italiana, degli imperdonabili errori nell’azione di comando, specialmente da parte del generale Durando, che, di fatto, rimase inattivo con il grosso delle truppe a molti chilometri di distanza dal campo di battaglia. Insomma  anche in quella occasione i nostri generali commisero l’errore di sempre, l’errore di Novara, di Custoza e di Caporetto: non seppero concentrare le forze, non seppero capire dove si giocava la partita decisiva e non seppero essere forti nel momento e nel luogo in cui si decidevano le sorti della giornata.
Errori forse inevitabili, data la natura eterogenea, raccogliticcia dei volontari e, al contrario, la forte unità di comando e di truppe degli Austriaci; ma errori, in buona misura, che erano il riflesso di una forzatura storica, di una consapevolezza politica inadeguata, di un Risorgimento che fu e rimase mutilo delle sue forze migliori; di un Risorgimento cui mancò la direzione strategica di una classe dirigente all’altezza del momento storico.
La classe dirigente! La classe dirigente che, allora come oggi, non sa marciare in testa alla nazione, non sa affrontare rischi e sacrifici, non è capace di conquistarsi una legittimazione morale, pagando di persona, se necessario, quel che c’è da pagare, invece di scaricare i costi dei propri fallimenti sulla collettività.
Mentre lo sguardo spazia giù, verso la pianura, e seguendo la linea dei campanili valica il Piave e si perde nella foschia della lontananza, ripenso a quello che tutti coloro i quali hanno un minimo di familiarità con gli altri Paesi europei sanno benissimo, ma che non compare mai sulla nostra stampa e nei nostri telegiornali.
Ripenso al fatto che la borghesia francese, tedesca, britannica, hanno dovuto farsi da sé, senza contare su un centesimo di denaro pubblico; che le banche di quelle nazioni, crisi o non crisi, hanno dovuto arrangiarsi con le proprie forze a risalire la china; e che, tuttavia, in quei Paesi il costo della manodopera è molto più alto; e né la cassa integrazione, né le opere sociali delle aziende, ad esempio gli asili per i figli degli operai, sono sovvenzionati col pubblico denaro.
Invece la nostra borghesia, che pure ha goduto da sempre, e tuttora gode, di tutte queste agevolazioni, non appena battono alle porte i tempi grami, si cala le brache e batte in ritirata: trasferisce gli impianti all’estero, dove la manodopera è ancora più bassa che in Italia (dove pure è la più bassa fra le grandi nazioni occidentali). Con la scusa di “delocalizzare”, un furbo neologismo che maschera abilmente la realtà delle cose, si licenziano i nostri operai e si creano posti di lavoro in Serbia, in Romania, perfino negli Stati Uniti d’America. Insomma per la nostra borghesia il motto è: socializzazione dei costi e privatizzazione degli utili.
Questa è gente che vuol sempre cadere in piedi, come si è visto nella ignominiosa data dell’8 settembre 1943. Si vogliono tutti i vantaggi dello Stato “socialista”, ma nessuno dei rischi del libero mercato. Solo in Italia, fra tutti i paesi dell’Europa occidentale, la paga di un operaio è quattrocento volte inferiore a quella di un dirigente. Negli altri Paesi, in tempi di magra, anche i manager stringono la cintura dei calzoni; solo da noi ciò non accade.
All’Italia manca una classe dirigente degna di questo nome; possiede solo una classe dominante, questo è il problema. Non c’è da stupirsi che la nostra Patria dia segni non solo di affanno, ma anche di scollamento. Ci si illude che le piccole patrie regionali potranno svolgere più degnamente la loro missione nei confronti della collettività. Ma è un errore: anche perché la classe dirigente è il riflesso della maturità di una nazione. Una classe dirigente cialtrona e opportunista è il riflesso di una collettività nazionale disgregata e di una coscienza nazionale inadeguata.
E questo è più evidente nel Nordest, la “locomotiva d’Italia”, perché quivi non si è perso del tutto il ricordo della ottima amministrazione austriaca; già: proprio quella amministrazione per cacciare la quale furono combattute le lotte del Risorgimento.
Almeno ora che si avvicinano le celebrazioni dei centocinquant’anni dell’Unità, bisognerebbe avere il coraggio di guardare in faccia le cose come stanno, nel nostro passato e nel nostro presente; altrimenti, sarà solo un vuoto esercizio di retorica e il nodo dei problemi irrisolti finirà per esplodere, con conseguenze imprevedibili sulla stessa tenuta della compagine nazionale.
Bisogna avere il coraggio, per esempio, di riconoscere che il governo austriaco fu, nel Lombardo-Veneto, più efficiente, più giusto, più “moderno” di quello italiano, che lo sostituì nel 1866: basti pensare al sistema scolastico avanzatissimo, in confronto a quello degli altri Stati italiani dell’epoca. Tutti hanno imparato da esso, a cominciare dalla legge Casati che, dal Piemonte, fu estesa dopo il 1861 al resto d’Italia.
Bisogna anche avere il coraggio di riconoscere che l’annessione dei Ducati dell’Italia centro-settentrionale (Modena, Parma, Toscana e le Legazioni pontificie) fu gestita da una minoranza di attivisti filosabaudi con estrema disinvoltura, scavalcando in molti casi la reale volontà popolare e cancellando, con un colpo di spugna, una tradizione giuridica e amministrativa tutt’altro che spregevole, risalente almeno all’assolutismo illuminato del Settecento.
Bisogna poi riconoscere che, al Sud, sia i plebisciti per l’annessione, sia l’organizzazione dell’epoca post-borbonica, scaturirono da un patto scellerato fra l’aristocrazia locale, desiderosa che tutto cambiasse per rimanere come prima, e la spregiudicata politica cavouriana: il tutto sopra le teste di alcuni milioni do contadini poverissimi e analfabeti, le cui condizioni peggiorarono ulteriormente e che non per nulla si ribellarono, dando vita ad una guerra per bande che costrinse il governo a mobilitare 300.000 soldati contro di loro.
Detto questo, vogliamo ricordare che nella sola battaglia di Adua caddero più soldati italiani che in tutte le guerre del Risorgimento messe insieme? E che l’esercito, così poco efficiente sui campi di battaglia contro il nemico esterno, si mostrò invece bravissimo nella repressione dei moti popolari più o meno disarmati, come accadde quando i carabinieri trucidarono l’innocuo riformatore religioso Davide Lazzaretti nel 1878, o quando le truppe spararono con i cannoni sul popolo milanese nei tumulti del 1898?
Se non si fa chiarezza su queste cose, è difficile fare chiarezza anche sul presente. Nell’Italia della P2 e della P3, di Gelli, di Sindona e di Calvi, delle Brigate Rosse e dei servizi segreti deviati, pesa l’ombra di troppi misteri mai chiariti, di troppe verità negate e sepolte in fretta e furia, di troppe ambiguità e di troppi compromessi; un peso enorme, ancora più ingombrate di quello del debito estero, che schiaccia la nostra economia come un fardello insopportabile, pari al 160% del nostro prodotto interno lordo.
Non ci sarà alcuna ripresa, se non si farà avanti una classe dirigente degna di questo nome; assisteremo al lento, penoso declino della Patria, anche se dovremo ascoltare ancora molti discorsi roboanti e molte parole vuote e insincere da parte di coloro che più di tutti contribuiscono allo sfascio nazionale.
Il pericolo non è il secessionismo: quella è la febbre; e la febbre, si sa, è la spia della malattia, non è la malattia. Meno male che c’è la febbre, così risulta possibile diagnosticare la malattia; se la febbre non ci fosse, forse la malattia avanzerebbe silenziosa e si manifesterebbe quando ormai è troppo tardi per salvare l’organismo.
È finito il tempo delle furbizie. La furbizia di Cavour, prima e dopo il 1861: voler fare l’Italia, ma senza gli Italiani, per paura di una rivoluzione sociale. La furbizia di Depretis: voler tenere in piedi un governo non per governare, ma per occupare il potere, a prezzo di qualunque trasformismo da parte dei parlamentari. La furbizia di Salandra, di voler fare la guerra all’Austria, nostra alleata, quando essa era assalita dai nemici da ogni parte, e vincere così la guerra senza fatica. La furbizia di Vittorio Emanuele III (e di casa Agnelli), di volersi servire di Mussolini e del fascismo per un ventennio, salvo poi scaricarlo in maniera invereconda quando le cose si misero male, piantando il Paese nel bel mezzo del guado.
Ora non si può più fare la politica dei furbi: tutti i nodi stanno venendo al pettine. Chi ama veramente l’Italia, ora deve interrogarsi onestamente e venire allo scoperto. Non c’è più spazio per le manovre di palazzo, per i camaleontismi di ieri e di sempre. Ne va del domani di noi tutti…