Gli Usa accelerano la politica delle pipeline in Asia Entrando in competizione con Russia, India e Cina
I più noti si chiamano Nabucco e Blue Stream, nomi ben più evocativi dell’oleoso liquido nero che trasportano. Il primo, fortemente voluto da Washington, è al momento soltanto un’ipotesi che prende la forma di una sottile linea tratteggiata che dovrebbe unire, secondo gli strateghi della Casa Bianca, l’Asia Centrale all’Europa tagliando fuori la Russia. Mosca invece ha investito soldi e relazioni per costruire il “flusso blu”, la conduttura sottomarina di gas attraverso il Mar Nero che Clinton aveva sarcasticamente ribattezzato “Blue dream” prima che un consorzio di compagnie, fra cui l’Eni, riuscisse a realizzarla.
Già, Clinton. La politica degli oleodotti non è certo nata ieri e l’ex-presidente democratico ha utilizzato ogni sorta di pressione per invertire il flusso di idrocarburi che, dalla Repubbliche ex-sovietiche, risaliva verso Nord passando per le vecchie tubature dell’Urss. La costruzione del contestato oleodotto Btc (Baku-Tbilisi-Ceyhan), che dovrebbe diventare pienamente operativo la prossima estate, aveva il preciso scopo di dirottare il petrolio del Caspio verso il porto mediterraneo di Cheyan, in Turchia, da dove potrà venire caricato sulle petroliere delle grandi corporation statunitensi senza pagare gabelle alla Santa madre Russia. Nelle sue recenti invettive contro il ricatto dei gasdotti Dick Cheney si inserisce in questa strategia - esattamente come il Btc s’inserisce nella logica del Nabucco - che mira a mettere le mani sui flussi di oro nero in un clima reso ancora più frenetico dalla scarsità prossima ventura.
La spirale è ben nota: l’approssimarsi del picco di produzione, cioè del momento in cui la produzione di combustibili fossili comincerà a declinare, ha innescato una corsa all’accaparramento che ha fatto schizzare i prezzi alle stelle, rendendo vantaggiosi progetti fino a ieri economicamente privi di senso. L’aumento dei prezzi rafforza anche i paesi produttori minori, come la Bolivia, che si trovano di fronte, forse per la prima volta, la possibilità di utilizzare l’arma degli idrocarburi per acquisire visibilità sulla scena internazionale. In questo movimentato quadro la “politica degli oleodotti”, come la chiamava ieri l’International Herald Tribune, smette di essere un gioco per addetti ai lavori e approda sulle prime pagine dei giornali.
Il braccio di ferro fra Nabucco e Blue Stream è solo una piccola parte della storia che riguarda il conflitto fra Mosca e Washington anche perché in gioco non ci sono soltanto i giacimenti azeri o kazaki ma anche la destinazione del petrolio ricavato dai giacimenti siberiani ancora poco sfruttati. Putin si lamenta, con qualche ragione, del protezionismo europeo e minaccia di rivolgersi a Est. In palio c’è la costruzione di una pipeline che porti il petrolio da Ikutsk, in Siberia, fino al Pacifico dove è in corso un braccio di ferro fra giapponesi e cinesi. Sollecitato da Tokyo - e ricattato dagli americani - in un primo momento lo zar aveva deciso di far terminare l’oleodotto siberiano nel porto di Nakhodka sul Mar del Giappone. I cinesi avevano fatto buon viso a cattivo gioco, continuando a offrirsi di dividere le spese per dirottare la pipeline nella città industriale di Daqing, nel nord della Cina. Fino a questo momento Pechino aveva ottenuto scarsi risultati ma voci non confermate sostengono che il minaccioso discorso di Cheney abbia fatto tornare Putin sui suoi passi. Pechino comunque non si limita ad aspettare e sperare: una montagna di denaro è stata destinata alla costruzione delle tubature che collegano Shanghai con la provincia occidentale dello Xinjiang, ai confini con il Kazakistan. L’Impero di Mezzo conta sull’alleanza con Putin e sui rifornimenti siberiani ma, se dovessero vincere gli americani, sarebbe pronto a collegarsi con l’estremità orientale del Nabucco in men che non si dica.
Nel frattempo, all’estremo opposto del mondo, ai confini di un’Europa che sembra incapace di formulare una sua propria strategia energetica, Mosca ha ottenuto l’appoggio di Berlino per la costruzione dell’oleodotto transbaltico, quella North European Pipeline il cui tracciato salta a piè pari Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, paese quest’ultimo che l’ha presa talmente male da evocare addirittura il patto del ’39 fra Stalin e Hitler. Mosca si assicura così uno sbocco a Ovest, verso la Germania, e uno verso l’Asia iper-produttiva mentre continua a lavorarsi le repubbliche rimaste fedeli particolarmente ricche di gas naturale e quelle che, pur vicine agli americani, si tengono aperte tutte le opportunità in attesa di capire come andrà a finire.
Parecchie centinaia di chilometri più a sud dell’antica Via della seta si consuma un altro braccio di ferro intorno al tracciato di un metanodotto prossimo venturo. L’idea è quella di incanalare il gas proveniente dai giacimenti del sud dell’Iran in una conduttura lunga 2.500 chilometri che dovrebbe sfociare nel sud della Cina passando per il Pakistan, l’India e la Birmania. Il progetto, dal costo di sette miliardi di dollari, è fortemente osteggiato dalla Casa Bianca che sta facendo ogni sorta di pressioni, dai ricatti puri e semplici all’offerta di importanti contropartite, per sfilare Nuova Delhi dall’accordo. Pressioni che però non hanno ottenuto i risultati sperati anche se è stato messo sul piatto anche un bel pacchetto di sofisticate tecnologie nucleari che ha creato un certo sconcerto visto che l’India, a differenza dell’Iran, non ha mai sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare proprio per dotarsi di testate atomiche. Ma la fame energetica del subcontinente, se è riuscita perfino a far dimenticare la storica ostilità con il vicino Pakistan, è troppo acuta per indurre il governo indiano a respingere definitivamente le abili avances di Teheran. A meno che gli americani non decidano di usare la mano pesante il gasdotto Iran-Pakistan-India-Cina molto probabilmente si farà, anche se deve passare per il Baluchistan, turbolenta regione nel sud del Pakistan scarsamente controllata dalle autorità di Karachi.
La mania per gli oleodotti regna ovunque sovrana anche se basterebbe un po’ di buon senso per capire che forse non è il caso di investire montagne di soldi per costruire le infrastrutture necessarie a trasportare una risorsa che di qui a dieci anni (tempo di costruzione delle pipeline) potrebbe essersi esaurita. Ma le considerazioni di carattere economico hanno poco peso perché la vicenda ha assunto significati politici e simbolici che vanno ben oltre l’approvvigionamento energetico. Lo dimostra, ad esempio, la proposta di oleodotto lanciata da Chavez al vertice di Vienna: il Gran Gasoducto del Sur - ben 9.700 chilometri - che dovrebbe unire i giacimenti del Venezuela all’Argentina passando per il Brasile. Con un costo che si aggira sui 23 miliardi di dollari, dal punto di vista economico l’opera è semplicemente una follia soprattutto per paesi che avrebbero ben altre priorità, ma politicamente è un colpo da maestro soprattutto se viene presentata come la spina dorsale del progetto d’integrazione sudamericana, progetto fortemente voluto dai leader dei tre paesi. In mezzo a tutta questa frenesia la prima vittima - ma forse era già da tempo passata a miglior vita - è quel minimo di prudenza che in passato aveva suggerito di risparmiare le zone ecologicamente più delicate.
Per completare il quadro bisogna anche ricordare che, fra i simboli incarnati dagli oleodotti, non ci sono soltanto le pulsioni nazionaliste. Lo sanno bene le comunità di contadini, pescatori e allevatori che, dalle foreste dell’amazzonia ai deserti del Ciad, dalle steppe siberiane al delta del Niger, si vedono transitare la ricchezza sotto al naso mentre il miracolo petrolifero non ha nemmeno compensato la perdita delle attività tradizionali o delle terre rese sterili dall’inquinamento. E’ proprio il valore simbolico degli oleodotti a renderli, in Iraq come in Nigeria, in Colombia come in Ciad, il principale obiettivo di terroristi, insorti, guerriglieri, ribelli o semplici ladri, comunque vogliate chiamare questo ingombrante prodotto di scarto dell’economia petrolifera: gli esseri umani.
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