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Il calcio e la società italiana

di Piero Visani - 17/05/2006


Non ci sarebbe alcun
motivo plausibile per
occuparsi dello scandalo
che ha travolto il mondo
calcistico nazionale se non
fosse che, in un Paese che
nutre uno spasmodico interesse
per questo gioco (si noti la
più che comprensibile renitenza
ad utilizzare, in materia,
il termine “sport”…), ciò che
avviene in ambito calcistico è
in realtà una metafora della
società italiana.
Tutti i personaggi sono facilmente
incasellabili: ci sono
gli ottimati (alla Franco Carraro),
in merito ai quali
sospetti si sprecano – senza
tuttavia che mai un sospetto
sia riuscito a diventare prova
– non si sa se per abilità (o
effettiva onestà) dell’ottimate
stesso o per incapacità (e
carente volontà complessiva)
del sistema di “custodire
custodi”. Ci sono i “padrini”
(alla Luciano Moggi), veri o
presunti che siano, da sempre
chiacchieratissimi, magari
anche con qualche non proprio
irrilevante “incidente di
percorso” come precedente,
sulla cui effettiva lealtà sportiva
tutti dubitano, ma che
quasi tutti – fatta eccezione
per i donchisciotte alla
Zeman – si guardano bene dal
toccare e preferiscono in
genere rispettare (nell’accezione
che al termine “rispetto”
viene data da alcune note
organizzazioni malavitose italiche).
Ci sono gli “utili idioti”
(l’elenco sarebbe lunghissimo,
ma bisogna stare attenti
alle querele) che legano l’asino
dove vuole il padrone e,
nel farlo, ne traggono qualche
non trascurabile vantaggio
personale.
Un mondo dove “il più pulito
ha la rogna” e dove, nel
momento in cui qualche episodio
sgradevole viene alla
luce, tutti quelli che fino al
giorno prima avevano fatto
lacchè dei potenti si trasformano
in moralizzatori,
(…) nella speranza – spesso
destinata a divenire certezza –
che, comportandosi in tal
modo, terranno lontano da sé
qualsiasi tipo di conseguenza
spiacevole, in modo da poter
ricominciare tutto come prima
non appena le acque si saranno
calmate.
Su ogni cosa, poi, domina un
senso di arroganza e di impunità
che induce anche personaggi
alquanto scafati, da cui
ci si attenderebbe una certa
propensione alla sobrietà di
eloquio, quanto meno al telefono
(tanto più cellulare), a
parlare in chiaro, senza nemmeno
la pur fragile protezione
di qualche parolina in codice,
a profferire giudizi, a richiedere
favori, a decidere arbitraggi,
e così via. Quasi che nessuno
potesse ascoltarli e registrarli
o – nel caso lo facesse –
che la cosa non potesse minimamente
sfiorarli.
Che il calcio italiano fosse
malato, non è novità di questi
giorni. Che si sospettassero
trucchi e combines di vario
tipo, nemmeno. Che ci fossero
palesi situazioni di conflitto di
interessi, neppure. Tutto però
risultava almeno in parte
annacquato dal fatto che l’eterna
propensione italica alla
dietrologia tende a creare un
clima di sospetto per fare in
modo che poi si dissolva e, di
conseguenza, che tutti escano
puliti anche quando sono
alquanto sporchi. Stavolta, i
contenuti delle registrazioni
che sono “trapelati” (e non
deve essere certo un caso)
confermano i sospetti peggiori:
il livello di corruzione è
altissimo, i “padrini” sono
veramente tali, le partite si
decidono più fuori che sul
campo. Ne consegue che quello
che si vede negli stadi è –
spesso, non necessariamente
sempre – un match dove gli
aspetti convenzionali possono
avere la meglio su quelli reali,
dove la conflittualità è apparente,
dove talvolta si celebra
un rito i cui esiti sono già stati
decisi (o pesantemente
influenzati) altrove.
Ma davvero – questo l’interrogativo
cruciale – la società italiana
è diversa dal mondo del
calcio? Davvero è un contesto
in cui predomina la libera concorrenza,
in cui il merito è la
chiave di accesso primaria alle
posizioni di grande responsabilità,
in cui la qualità personale
ha la meglio sulle relazioni
familiari e sociali, sui favoritismi,
sulle cooptazioni?
Davvero il calcio è la mela
marcia di un mondo dove
invece tutto va per il meglio?
Sarebbe bello poter rispondere
affermativamente, ma sappiamo
fin troppo bene che non è
così. Per una volta, inoltre, è
perfino possibile lasciare da
parte l’universo della politica,
perché non è solamente quello
l’ambito dei privilegi, delle
distorsioni, delle false conflittualità.
Certo il mondo politico
è il più privilegiato degli
universi di privilegio, ma non
è l’unico. Che dire, ad esempio,
dei circoli industriali o
dei ceti professionali, per non
parlare degli ambienti accademici?
In tutti questi contesti,
gli incarichi e le competenze
funzionano per trasmissione
ereditaria, e poco importa che
sia normale trasmettere una
proprietà e molto meno, ad
esempio, una capacità professionale.
Per non parlare della
pratica della trasmissione di
padre in figlio di posizioni di
lavoro dipendente in enti pubblici
e in imprese private.
La corruzione del calcio è
dunque lo specchio della corruzione
che pervade un’intera
società, della sua malattia
morale, delle sue regole scritte
violate quotidianamente e di
quelle non scritte rispettate
con quel senso di sacralità e di
ossequio ai potenti che è tipico
solo delle “famiglie”
mafiose. Il tutto pervaso da
una mancanza di verità, e dunque
di giustizia, che inquina
ogni cosa, che rende ogni etica
fragile e addirittura nociva,
che invita al menefreghismo
tipico di chi sa bene di non
poter cambiare nulla e dunque
perde ogni speranza.
C’è una grande indulgenza,
nell’intera società italiana, nei
confronti di questi fenomeni
negativi, anche perché molti
dei moralizzatori di professione
paiono animati, nelle loro
contestazioni, più dal desiderio
di sostituirsi ai potenti di
turno e di applicarne a proprio
vantaggio le deplorevoli condotte,
che da un’autentica esigenza
di pulizia. Nei confronti
di quest’ultima, anzi, i più evidenziano
un fortissimo scetticismo,
dato che la ritengono
del tutto irraggiungibile.
L’opinione diffusa è che si
tratti di una situazione impossibile
da cambiare e, se anche
si intendesse realmente farlo,
tale volontà riformatrice urterebbe
urterebbe
contro potenti e radicati
interessi, che opporrebbero
una resistenza formidabile.
Prevalgono dunque il conservatorismo,
l’immobilismo, la
gerontocrazia. La società
invecchia e nessuna forza giovane
si affaccia per un pur
comprensibile cambio della
guardia perché non vi è alcuna
circolazione delle élites.
Progrediscono solo pochi
cooptati e in genere si distinguono
o per essere dei raccomandati
o dei formidabili
“yesmen”. Nessuno si preoccupa
se ciò abbia un costo;
ognuno pensa al proprio “particulare”.
Il costo, per contro,
è altissimo, tanto in termini
umani quanto sociali. Perché
non chiedersi, ad esempio,
quanto una situazione del
genere pesi sulle «magnifiche
sorti, e regressive» di una
Nazione che ha perduto ogni
spinta propulsiva, che è completamente
ripiegata su se
stessa, che è incapace di
immaginarsi un futuro o perché
è troppo vecchia per farlo
o perché è giovane e glielo
hanno rubato. Così facendo,
però – e rientriamo nella
metafora calcistica –, si possono
vincere molti scudetti,
visto che, se adeguatamente
sollecitato, nel cortile di casa
“un piccolo aiuto agli amici”
non lo nega nessuno. Ma
quante Champions League si
portano in bacheca (e ogni
riferimento è puramente
casuale) quando si affronta il
mare procelloso della dimensione
internazionale, là dove
la competizione è spietata e
non sempre si è aiutati dagli
amici e/o dagli arbitri?
Quello che succede oggi nel
calcio italiano è una preziosa
forma di pedagogia di massa,
se solo la si vuol capire.