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Le bugie della storia

di redazionale - 20/05/2006

 
Il nuovo saggio di Piero Melograni confuta alcune «false verità» diventate luoghi comuni Rosa Luxemburg, sul delitto l’ombra di Lenin

Le bugie della storia: in realtà Marx non lavorò mai e la guerra sorprese Hitler

Rosa Luxemburg è una famosa martire rivoluzionaria. Venne uccisa a Berlino nel gennaio 1919, insieme a un altro leader dell’estrema sinistra tedesca, Karl Liebknecht, da militari reazionari legati ai servizi segreti. Ma forse gli assassini vennero aiutati da complici di opposta tendenza politica e per questo apparentemente insospettabili. Complici che prendevano ordini da Mosca. L’ipotesi è avanzata dallo storico Piero Melograni in uno dei capitoli più avvincenti del suo nuovo libro Le bugie della storia , d’imminente uscita presso Mondadori, nel quale passa in rassegna e demolisce una serie di luoghi comuni sulle vicende del passato.

Molte le sorprese. Per esempio l’autore spiega che la tanto rimpianta Belle Époque, dal 1871 al 1914, non fu poi così felice: in quegli anni l’Europa non conobbe guerre su vasta scala, ma la mortalità infantile era altissima, gli adulti invecchiavano in fretta e morivano presto, le condizioni di vita dei lavoratori manuali erano spaventose, i diritti delle donne quasi nulli.

Poi Melograni sgretola l’immagine convenzionale di alcuni famosi personaggi. Rivela che Karl Marx, passato alla storia non solo come un ardente paladino del proletariato, ma anche come uno dei massimi studiosi della società industriale, in realtà «visse distaccato dalla realtà del mondo del lavoro e non seppe neppure badare alla sua famiglia». Dimostra che Lenin, al di là dei proclami incendiari, non credeva affatto di poter scatenare la rivoluzione mondiale e si preoccupò in primo luogo di salvaguardare la sopravvivenza del regime sovietico in Russia, anticipando così la politica del «socialismo in un solo Paese» adottata apertamente da Stalin diversi anni dopo.

Anche di Adolf Hitler Melograni fornisce un ritratto diverso da quello usuale. Il tiranno del Terzo Reich, scrive, «fu un fanatico criminale responsabile di efferati delitti», ma non aveva affatto programmato lo scoppio di una grande guerra europea nel settembre del 1939. Era anzi convinto di poter entrare trionfalmente a Danzica senza colpo ferire (come era avvenuto in precedenza a Vienna e a Praga) e fu colto alla sprovvista dall’intransigenza dei polacchi e dall’ostilità dell’opinione pubblica britannica, che resero inevitabile un conflitto tra grandi potenze.

Quanto a Rosa Luxemburg, Melograni smentisce che sia mai stata comunista. E non solo perché votò contro la decisione di ribattezzare Partito comunista tedesco (Kpd) la Lega Spartaco, movimento da lei fondato con Liebknecht. Ma anche perché il suo socialismo rivoluzionario e libertario era agli antipodi dell’ideologia totalitaria professata dai bolscevichi.

Già nel 1904 la Luxemburg aveva duramente attaccato Lenin e la sua concezione giacobina del partito. E anche in seguito c’erano state tra i due leader tensioni e polemiche. Avevano certo condiviso l’opposizione di principio alla prima guerra mondiale, scontrandosi con i socialisti «patriottici» (o «sciovinisti») dei rispettivi Paesi. Ma quando poi i bolscevichi avevano preso il potere in Russia e avevano siglato la pace con la Germania del kaiser, Rosa aveva reagito con estremo disappunto.

Per giunta nel 1918 la Luxemburg aveva scritto un saggio sulla rivoluzione russa (pubblicato postumo nel 1922 da un transfuga della Kpd, Paul Levi), in cui prendeva la distanze dai metodi dispotici di Lenin e Trotzkij, esaltando il diritto al dissenso: «La libertà - aveva affermato a chiare lettere - è sempre e soltanto la libertà di chi la pensa diversamente».

Insomma, quella coraggiosa ebrea polacca, nata nel 1871 e da tempo trasferitasi in Germania, era di certo la più pericolosa rivale dei bolscevichi nell’ambito della sinistra rivoluzionaria europea. Lei e Lenin, sottolinea Melograni, «esprimevano due concezioni del mondo e del socialismo profondamente diverse».

Caduto l’impero tedesco, nel novembre 1918, sotto il peso della guerra perduta, il leader sovietico mandò come emissario a Berlino Karl Radek, un comunista detestato dalla Luxemburg, che a suo tempo l’aveva fatto espellere per indegnità morale dal Partito socialista polacco. L’incontro fra i due fu gelido, mentre attorno il clima politico si faceva rovente. Poco dopo a Berlino esplosero moti insurrezionali che fecero precipitare la situazione.

Il 15 gennaio 1919 alcuni militari di destra, pedinando il rivoluzionario Wilhelm Pieck, giunsero nell’appartamento dove erano nascosti la Luxemburg e Liebknecht. I tre vennero arrestati e condotti in un albergo. Ma non subirono la stessa sorte. Trucidati nella notte, poche ore dopo la cattura, la Luxemburg e Liebknecht furono oltraggiati anche da morti: il cadavere di lei venne gettato in un canale (i suoi resti sarebbero stati recuperati solo alla fine di maggio), quello di lui fu abbandonato in un posto di polizia presso il giardino zoologico. Pieck invece fu rilasciato subito, senza che gli venisse torto un capello. Era destinato a una brillante carriera: dirigente del Comintern fedele a Mosca, parecchi anni dopo sarebbe diventato presidente della Germania orientale.

Pieck disse che era riuscito a fuggire dalle grinfie dei militari, ma non riuscì a dissipare i sospetti. Leo Jogiches, un altro esponente del movimento operaio che in passato era stato amante della Luxemburg, decise di investigare sulla vicenda. Mal gliene incolse. Venne ben presto arrestato e il 10 marzo fu ucciso nel carcere berlinese di Moabit. Secondo la versione ufficiale aveva tentato di evadere, come si usa dire di solito in casi del genere.

Per una curiosa coincidenza, aggiunge Melograni, in quei giorni anche Radek si trovava nella stessa prigione di Jogiches. Ma lui era trattato con i guanti, tanto che la sua cella era diventata una sorta di salotto. Riceveva politici, militari, intellettuali e perfino imprenditori, come il futuro ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, Walther Rathenau. Presumibilmente Radek godeva di ampie coperture negli stessi ambienti che avevano deciso l’eliminazione della Luxemburg.

Tirando le fila del discorso, Melograni riconosce che non ci sono prove decisive di un coinvolgimento sovietico nel delitto. Ma gli indizi non mancano. Del resto proprio lo stato maggiore del kaiser aveva permesso a Lenin di tornare in patria, dalla Svizzera, dopo la caduta dello zar. E non si può escludere che la convergenza tra militaristi tedeschi e bolscevichi si sia ripetuta in seguito. Nel 1917 il nemico comune da colpire era il governo russo sorto dalla rivoluzione di Febbraio, che voleva continuare la guerra contro la Germania imperiale. Nel 1919 forse la vittima dell’intesa fu Rosa Luxemburg, che minacciava l’ordine costituito a Berlino e difendeva dalle manovre di Lenin l’autonomia del movimento rivoluzionario tedesco.