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Freddi

di Francesco Lamendola - 13/11/2010

Uno degli aspetti della rivoluzione antropologica della tarda modernità, preannunciata con lucida analisi da Pier Paolo Pasolini, è la comparsa di un nuovo tipo umano, caratterizzato da un notevole grado di freddezza emotiva.

Si tratta di persone generalmente efficienti nella loro professione o nel loro lavoro, formalmente cortesi, ma che sorridono solo con le labbra, non con gli occhi, perché il loro cuore è freddo e duro come il ghiaccio e non importa loro nulla del prossimo, ma sono unicamente preoccupate di apparire impeccabili e imperturbabili.

Non si tratta, peraltro, di una freddezza artefatta; non recitano, non fingono: sono realmente così come appaiono, più simili a delle macchine ben programmate che a degli esseri umani. Si sarebbe quasi tentati di pensare che vogliano imitare la flemma e il contegno tipicamente britannici e, in genere, anglosassoni; ma  non è questo: è che loro, proprio, sono incapaci di provare dei sentimenti umani.

C’è una profonda differenza tra la freddezza di chi decide di adottare un simile stile di vita e chi lo vive naturalmente: nel primo caso si tratta di una scelta; nel secondo, di un modo di essere. E i modi di essere non si discutono, si può solo tentare di spiegarli.

La prima spiegazione che viene alla mente è che, in una società basata sull’efficientismo e sul produttivismo esasperati, ma anche sulle “buone maniere”, almeno nella misura in cui esse contribuiscono alla realizzazione del profitto, si finisce per indossare una maschera che, a un certo punto, non viene più via: la maschera e l’anima diventano una cosa sola.

Il sorriso stereotipato del titolare di un’impresa, dell’impiegata di un’agenzia commerciale o della segretaria di uno studio professionistico, rimangono stampati addosso a coloro che li indossano e non se ne vanno più via; così come rimangono loro impressi la freddezza calcolatrice e lo spietato utilitarismo necessari a concludere dei buoni affari.

Certo, vi è sempre un sottinteso aggressivo, dietro quella cortesia professionale e dietro quei freddi sorrisi: basta che il cliente faccia tanto di tirarsi indietro prima d’aver firmato l’ordinativo, o che ponga qualche domanda scomoda al funzionario della banca, e subito quel sorriso si trasformerà in una espressione dura e risoluta, la voce assumerà un tono imperioso e lo sguardo si fisserà con insolente penetrazione in quello dell’altro, per farlo sentire in uno stato di disagio e, chissà mai perché, quasi in colpa.

«Ma come, dopo avermi fatto perdere tanto tempo, pensi ora di tirarti indietro?», sembrano domandare quegli occhi freddi come il ghiaccio. E il poveretto, sbigottito da un siffatto cambiamento, quasi incredulo di una tale trasformazione, balbetta prontamente qualche scusa e ritorna precipitosamente sui suoi passi, pur di ritrovare il sorriso accomodante e l’aria disponibile di pochi attimi prima.

In una economia basata ormai largamente sul terziario, l’importante non è vendere merci, ma vendere servizi: e, per saperlo fare in maniera davvero efficiente, bisogna essere capaci di alternare, a seconda delle circostanze, ora il sorriso gentile ma freddo, ora il tono di velato rimprovero e di intransigente risolutezza, magari passando dall’uno all’altro e poi di nuovo da quello a questo, con stupefacente velocità: al punto che l’interlocutore, poveraccio, deve pensare quasi di essersi sbagliato, di aver avuto una sorta di allucinazione.

Infatti: come si possono maneggiare così i propri stato d’animo, quasi fossero degli abiti da indossare e da levarsi a piacere, nel volgere di un battito di ciglia, per poi ritornare all’atteggiamento originario, come se nulla fosse accaduto?

No, decisamente deve essersi trattato di una falsa impressione, di una specie di illusione ottica. Nessuna creatura umana lo potrebbe fare con una tale disinvoltura.

Ma, appunto: si tratta di un nuovo tipo di creatura umana; si tratta di una vera e propria mutazione antropologica.

L’uomo o la donna affettivamente freddi, nel senso da noi descritto, sono potenzialmente pericolosi: non provando emozioni, non misurano nemmeno tutta l’eventuale gravità dei loro atti, per poco che lascino cadere il distacco e si lascino travolgere da un impulso subitaneo.

Ad esempio, possono sferrare un pugno, all’improvviso, a un’altra persona, mandarla a sbattere la testa per terra e, poi, andarsene tranquillamente per i fatti propri, senza nemmeno girarsi a guardare se quella è ancora viva o no. E magari, fermati subito dopo il fatto e costretti ad esibire i documenti, possono chiedere, con perfetta innocenza, convinti - in buona fede - di aver espletato solo una noiosa formalità burocratica: «Bene; posso andarmene, ora?».

All’uomo o alla donna freddi manca un requisito essenziale della vera umanità: la capacità di provare empatia verso gli altri, di commuoversi o di turbarsi per la loro sorte, di sentirsi parte di una vicenda esistenziale che ci vede tutti legati gli uni agli altri, indissolubilmente, così nel bene come nel male.

La figura dello scienziato moderno è un tipico esempio di questa freddezza: non ce ne vogliano quegli scienziati che esercitano la loro nobile professione conservando pienamente il calore della propria umanità.

Lo scienziato moderno è figlio di Galilei: colui che viviseziona una cicala (come narrato ne «Il Saggiatore») senza provare il minimo imbarazzo, solo per capire da dove si produca il suo caratteristico frinire; è figlio di Francesco Bacone, che teorizza la creazione di animali chimerici, realizzati in laboratorio per l’utilità dell’uomo; è figlio di Cartesio, il quale sostiene, senza batter ciglio, che un cane percosso con un bastione guaisce, sì, ma non di dolore, perché la “res extensa” non è in grado di provare sentimenti e nemmeno sensazioni.

Quando Darwin osserva e descrive gli indigeni della Terra del Fuoco, non esita a definirli come le più miserabili creature che egli abbia mai veduto e sostiene che la loro condizione sembra più vicina a quella dei bruti, che a quella degli esseri umani. In lui non c’è la minima curiosità intellettuale ed umana per la loro vita, per la loro società, per la loro cultura: li giudica dal di fuori, li vede tremare di freddo e vagare nei fiordi nebbiosi sulle loro maleodoranti piroghe; e ne deduce che non v’è nulla da capire, ma semplicemente un popolo da disprezzare.

L’occhio dello scienziato moderno è freddo, senza dolcezza, senza amore, senza meraviglia per la bellezza, per la varietà, per lo splendore della natura: è un occhio utilitaristico, impersonale, matematico, che calcola quanti e quali esperimenti si possono fare per individuare delle leggi, ma non si sofferma mai sul mistero della vita, sul mistero delle cose. Non v’è mistero, per esso: esistono soltanto delle pagine bianche che devono ancora essere riempite, e che - prima o poi - lo saranno. Tutto qui,

L’occhio del tecnico è ancora più freddo, ancora più distaccato, ancora più disumano. A lui basta conoscere un minuscolo segmento della linea dell’esistente; e, su quel segmento, esercitare il massimo del potere, del controllo, dello sfruttamento. Riduzionista per vocazione, per necessità e per prospettiva filosofica, non scorge i nessi che legano fra loro tutte le cose; o, se pure li intuisce, non se ne cura. La cosa non lo riguarda, a lui interessa solo il suo minuscolo segmento; e, in quella minuscola fettina del reale, egli si sente onnipotente, perché, in quanto tecnico, ne sa più di chiunque, e dalle sue decisioni dipende la sorte degli altri, dei non specialisti.

Così, probabilmente, si ponevano i geologi e gli ingegneri che autorizzarono e realizzarono la costruzione della diga del Vajont, convinti di sapere tutto quel che c’era da sapere; né si curarono del fatto che i valligiani, e specialmente gli abitanti di Erto e Casso, ai piedi del Monte Toc, avessero subito manifestato sbalordimento e paura per quella diga che veniva costruita ai piedi di una montagna notoriamente franosa, con il pericolo che uno smottamento del terreno facesse tracimare l’acqua dell’invaso artificiale.

Eppure, lo scienziato e il tecnico hanno nelle loro mani il destino materiale dell’intera umanità; non certo i poeti o gli uomini di Dio.

La loro freddezza, la loro incapacità di provare emozioni, ad esempio quando realizzano mostruosi esperimenti in laboratorio, manipolando a piacere i geni delle piante, degli animali e dell’uomo stesso, ci danno un’idea della loro assoluta inadeguatezza a svolgere quella funzione decisiva che la società odierna ha finito per attribuire ad essi.

L’uomo freddo è capace di compiere cose terribili.

Una ventina d’anni fa i giornali riportarono questo fatto, accaduto nella metropolitano di Parigi, una sera d’autunno.

Diversi testimoni raccontarono che un ubriaco si aggirava lungo la banchina, rivolgendosi alle persone in attesa del treno e, in qualche misura, infastidendole. A un certo punto si fermò davanti a un giovane uomo, molto elegante, che teneva in mano una valigetta ventiquattrore. Non si sa cosa si dissero i due, perché gli altri videro la sena da una certa distanza. Improvvisamente il giovane elegante aprì la valigetta, ne estrasse una roncola affilatissima e, con un solo gesto, netto e deciso, tagliò la gola al barbone, abbandonandolo poi sui binari in un lago di sangue, senza vita. Quindi pulì la lama con il fazzoletto, rimise l’arma nella valigetta, la richiuse e si allontanò tranquillamente, scomparendo tra la folla.

Durante e dopo la sequenza da film horror non aveva mai mostrato la minima emozione; né, prima di uccidere, aveva detto o fatto qualcosa che lasciasse in alcun modo presagire una reazione così mostruosa.

Del resto, che cosa ci faceva nella metropolitana, a tarda sera, un giovane elegante con una roncola affilatissima nella valigetta ventiquattrore? Era forse una sorta di autoproclamato giustiziere - come da noi i famigerati Abel e Furlan, autori di quindici omicidi di barboni e prostitute -, deciso a “ripulire” la società dagli scarti, dalla feccia? Un bravo ragazzo che di giorno si comporta in maniera inappuntabile, un solido borghese che non esce mai di casa senza indossare una camicia bianca immacolata?

Ecco, è questo che sgomenta: il fatto che Mister Jekill e il Dottor Hyde se ne vadano in giro contemporaneamente, perfettamente consapevoli l’uno dell’altro e, si direbbe, perfettamente soddisfatti di integrarsi a vicenda. Nessun tormento di coscienza da parte del Signor Jekyll: perché il malvagio Hyde non è altro da lui, non è una parte di lui, ma è proprio lui, lui nella sua più intima essenza, dietro la maschera della fredda e professionale cortesia.

Non vogliamo con ciò dire che tutte le persone fredde siano dei criminali in potenza, ci mancherebbe; vogliamo dire, però, che la loro anaffettività disumana li rende capaci di qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, senza alcun preavviso.

Guardiamoci da loro.

Lo sguardo esercitato li saprà distinguere dai freddi apparenti: persone che, scottate dalla vita, hanno indossato la maschera della freddezza per proteggersi da ulteriori ferite e delusioni. No, niente a che fare con i freddi costituzionali, privi di risonanza affettiva, frutto della recente mutazione antropologica.

Albert Camus li aveva descritti nel romanzo «Lo straniero», molti decenni or sono. Fanno l’amore, senza un perché; uccidono, senza un perché; e non versano una lacrima al funerale della propria madre, per il semplice fatto che non provano assolutamente nulla.

Anche Hitler li aveva visti arrivare, questi uomini nuovi: freddi, spietati: e ne aveva quasi avuto paura, proprio lui che li aveva evocati. Così ci racconta, nelle sue memorie, Hermann Rauschning, l’ex presidente del senato di Danzica, che nel 1933-34 ebbe con lui dei colloqui privati estremamente interessanti.

Siamo in pericolo.

Abbiamo lasciato che tutto ciò avvenisse sotto il nostro naso; e, quel che è peggio, abbiamo conferito un potere decisionale immenso a questo nuovo tipo umano, a questa penosa caricatura del Superuomo di Nietzsche.

Se la Terra è destinata a salvarsi, ciò sarà opera di uomini e donne caldi, non di questi animali a sangue freddo, di questi rettiliani in giacca e cravatta, con la loro brava camicia bianca inamidata, che racchiudono qualunque cosa nei recessi tenebrosi della loro anima.