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Armonistica e “principio antropico”

di Roberto Fondi - 24/11/2010

Fonte: nemetonmagazine



armonistica

Sulla scia dell’opera di Cartesio e di Newton, la cosmologia del secolo XIX dava per scontato che il mondo consistesse di masse materiali separate (e a loro volta scomponibili in parti sempre più piccole, fino ad arrivare agli atomi – dal greco “indivisibili”) e di flussi d’onda energetici propagantisi ed interagenti fra loro nello spazio e nel tempo. Il divenire del mondo fisico, d’altra parte, era ritenuto consistere di processi caratterizzati dalla località (ciò che avviene in una determinata posizione dello spazio non può avere influenza su ciò che avviene in altre posizioni dello spazio, a meno che queste non siano immediatamente adiacenti alla prima), dalla diacronicità (gli eventi sono determinati univocamente da cause o eventi posti nel passato: post hoc, ergo propter hoc) e dalla continuità (il passaggio da uno stato ad un altro avviene attraversando tutti gli stadi intermedi ad entrambi). Nel corso del XX secolo, comunque, sebbene a tutt’oggi soltanto una parte molto limitata del pubblico colto ne abbia preso piena consapevolezza, gli apporti delle scienze biologiche e paleontologiche accompagnati a quelli delle teorie relativistiche, della “rivoluzione quantistica”, della psicologia del profondo, dell’armonistica, della “teoria del significato” (oggi evolutasi nella corrente “biosemiotica”), della teoria dell’informazione e della teoria del caos-complessità, sono andati via via delineando un quadro della realtà di gran lunga più complesso e sorprendente di quello lasciatoci in eredità da Maxwell, Darwin e Freud. Il mondo rivelatoci dalla fisica moderna, infatti, non consiste più di oggetti separati, bensì di una rete di cosiddetti “vertici di interazione”, cioè eventi interconnessi consistenti solo ed esclusivamente di comparse (o creazioni, o emissioni, o manifestazioni) e di estinzioni (o distruzioni, o assorbimenti, o demanifestazioni) di “pacchetti di qualità”. Mentre nel mondo degli enti macroscopici dell’esperienza quotidiana è del tutto scontato distinguere fra gli enti medesimi e le loro proprietà di forma, colore, dimensioni, ecc. (considerando perciò i primi come “sostanze” facenti da supporto alle seconde viste come “attributi”), nel mondo dei microeventi quantistici gli insiemi di qualità che li descrivono fanno tutt’uno con essi: sono cioè come altrettante etichette inseparabili dai contenitori ai quali sono state affisse e che ne specificano il contenuto. E in questo neppure le determinazioni spazio-temporali fanno eccezione. Ai corpuscoli ed ai campi energetici della fisica sette-ottocentesca – che nascono da emettitori localizzati in determinati punti dello spaziotempo, persistono e si muovono compiendo traiettorie o propagandosi come onde nello spaziotempo e, finalmente, scompaiono in assorbitori essi pure localizzati nello spaziotempo – fanno riscontro nella fisica quantistica eventi qualificati da precisi parametri dell’insieme dominio spaziotemporale, ma non svolgentisi in tale dominio.

Ma allora, se gli “oggetti” della Fisica classica altro non sono che fittissime reti interattive di microeventi di emissione-assorbimento, diviene ineludibile domandarsi quale sia la sorgente di tali eventi. Nel 2005, con la sua opera Le strutture archetipali del mondo fisico. Verso una cosmologia sincronica, il fisico teorico Leonardo Chiatti, dell’Università di Roma, ha mostrato come tale sorgente non possa che essere indicata in un livello di realtà inaccessibile all’osservazione in quanto al di là delle determinazioni spazio-temporali, e perciò denominabile come “Vuoto primevo”, “Vuoto principiale” o semplicemente “Vuoto” senza ulteriori attributi, in quanto precedente – in senso logico e non cronologico – ad ogni differenziazione o “rottura di simmetria” che porti al verificarsi di qualsiasi manifestazione fisica.

La concezione di un Vuoto principiale unico ed invariante, nucleo di connessione acausale, aspaziale (o non-locale) ed atemporale (o “sincronica”) per tutti gli eventi spazio-temporalmente qualificati e vero “motore immobile” per ogni sorta di fenomeno, riconduce in modo diretto sia all’Arché dei primi filosofi greci sia alla problematica posta congiuntamente, oltre mezzo secolo fa, dallo psicologo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961) e dal fisico austriaco e premio Nobel Wolfgang Pauli (1900-1958). Poiché la realtà fisica consiste, come si è visto, solo ed esclusivamente di una rete interattiva di eventi di comparsa-estinzione e non c’è assolutamente nulla che “separi” queste due categorie di eventi, l’unica ipotesi suscettibile di essere sviluppata in modo fecondo che abbiamo a disposizione per spiegare il carattere ordinato e coerente di tale rete continua a rimanere quella degli archetipi – concepiti come “impulsi ordinatori dinamici” – formulata dagli stessi autori. D’altra parte, Jung e Pauli avevano definito appunto con il termine di sincronicità il nesso acausale che caratterizza particolari e sorprendenti intrecci di coincidenze fra determinate situazioni esterne e vissuti interni di una persona; e poiché tali intrecci, oltre a presentare a priori probabilità infime di verificarsi, si presentano densi di significato e coinvolgono tanto stati psicologici soggettivi quanto fenomeni oggettivi svolgentisi nello spazio-tempo, si comprende come tutto questo non soltanto non sia affatto in contrasto con il quadro cosmologico precedentemente delineato, ma induca altresì ad ipotizzare che il mondo fisico e quello psichico, ben lungi dall’essere realtà separate ed indipendenti come riteneva Cartesio, siano piuttosto realtà complementari e inscindibili come sosteneva Goethe. In tal caso, però, diviene inevitabile porsi la domanda se sia possibile disporre di una dimostrazione scientifica di tale complementarità ed inscindibilità.

La risposta a questa domanda è, secondo noi, affermativa e ci viene dall’Armonistica: una disciplina che ha trovato piena espressione ed evoluzione prima nell’antico pensiero greco e successivamente – a distanza di tre secoli l’uno dall’altro – nei contributi di due studiosi tedeschi: l’astronomo e matematico Johannes Kepler con i suoi Harmonices mundi libri quinque (1619) e il libero docente Hans Kayser con una serie di testi fondamentali pubblicati durante la prima metà del secolo scorso. Testi che, in ogni caso, rimangono praticamente sconosciuti fuori dei Paesi di lingua germanica, dove peraltro sono stati finora considerati più come divagazioni da cultori di musica che non come veri e propri contributi di natura scientifica.

Poiché questo argomento è stato da noi sviluppato nel saggio Armonistica: un ponte di collegamento tra la natura e la psiche, sponde complementari della realtà, pubblicato ne “Il Divano Morfologico / Magazine of Morphology”, n° 3, 2000, pp. 59-89, Editore Il Capitello del Sole, Bologna (il testo del medesimo può essere trovato anche nel web al sito www.estovest.net/ecosofia/armonistica.html), rimandiamo i lettori che siano maggiormente interessati ad approfondirlo al suddetto saggio, limitandoci qui semplicemente a riassumere i tratti essenziali di quest’ultimo.

Usato fin dalla più remota antichità, il monocordo è un semplice strumento consistente in una corda tesa tra due perni fissati su una cassa armonica o di risonanza. Sul piano della cassa in cui viene tesa la corda è disposto un cuneo rigido, o ponticello, un po’ più alto della corda ed in grado di scorrere avanti e indietro al di sotto di questa, in maniera tale da variarne il tratto di lunghezza che si vuole mettere in vibrazione (l’altro tratto va smorzato con un panno o altro mezzo affinché non vibri). Poiché, a seconda della sua posizione, il ponticello stacca dalla corda lunghezze di volta in volta differenti, facendo vibrare queste ultime si ottengono suoni di differente altezza. Più in particolare, si nota che ad ogni dimezzamento della corda attiva corrisponde un raddoppio della frequenza vibratoria.

Tramite lo strumento ora descritto, fin dal VI secolo a.C. Pitagora e la sua scuola furono in grado di stabilire non soltanto un numero consistente di regole armoniche, ma anche, operando con un doppio monocordo, quella che è la ricetta-base dell’armonia classica, ossia il fatto – constatabile da ogni essere umano – che due note prodotte simultaneamente generano una sensazione di “naturale gradevolezza” soltanto quando le lunghezze delle corde ad esse relative sono in rapporto tra loro come piccoli numeri interi. Se il rapporto è di 1 – 1/2 si parla di “accordo di ottava” (diàpason); se è di 1/2 – 1/3, di “accordo di quinta” (diàpente); se è di 1/3 – 1/4, di “accordo di quarta” (diatèssaron); se è di 1/4 - 1/5, di “accordo di terza maggiore”; se è di 1/5 – 1/6, di “accordo di terza minore”. Si vedeva, così, come i rapporti di frequenza di tutti gli accordi puri, maggiori e minori, che si trovano all’interno di un’ottava, fossero esprimibili attraverso il senario, ovvero la serie di numeri da 1 a 6; e si prendeva atto che ogni volta che le frequenze delle oscillazioni sonore non erano rappresentate da questi rapporti semplici, si perdeva la sensazione di armonia e si avvertiva “disaccordo” o dissonanza. I pitagorici, pertanto, ne concludevano che la creatività della natura si manifestava interamente nell’ambito del senario, mentre il numero 7 significava il riposo o pausa necessari prima di riprendere, con il numero 8, il nuovo ritmo. Doveva dunque sussistere una coincidenza o complementarità fra le leggi degli accordi musicali e le leggi della mente umana.

Fino agli albori dell’Era Moderna, l’idea di un ordine universale basato su leggi di natura musicale si mantenne generalmente diffusa tra gli studiosi, i quali vi si riferivano più volte e con una certa naturalezza, senza però mai avvertire la necessità di approfondirla. L’astronomo tedesco Johannes Kepler (1571-1630) cambiò radicalmente la situazione. Allo stesso modo degli antichi pitagorici, Kepler era profondamente convinto che il mondo fosse un tutto coerente ed ordinato secondo criteri di armonia; e poiché di questa “armonia universale” si erano sempre avute soltanto idee molto vaghe e confuse, egli impegnò lunghi e faticosi anni di lavoro a cercarne almeno una prova che fosse oggettivamente verificabile. E alla fine, ormai quasi cinquantenne, riuscì a dimostrare che le orbite dei pianeti erano ellittiche anziché circolari, e che le velocità angolari orbitarie dei singoli pianeti al perielio e all’afelio stavano tra loro in rapporti semplici ed interi, corrispondenti con mirabile precisione agli intervalli musicali fondamentali.