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Camus

di Anna Maria Brogi - 22/05/2006

 

Accusò il colonialismo. Fu sempre in prima fila nel denunciare i totalitarismi: le sue opere
circolavano come samizdat in Urss. E la sua morale contro l’assurdo spinse i teologi a definirlo «santo senza Dio»

(Traduzione Di Anna Maria Brogi)

Dopo la morte avvenuta in un incidente stradale nel 1960, all'età di quarantasette anni, Albert Camus non ha conosciuto quello che di solito capita a molti scrittori presso il pubblico: una sorta di purgatorio. Al contrario, la sua opera si è diffusa rapidamente in Francia e anche all'estero, attraverso numerose traduzioni. Del resto gli intellettuali francesi, che l'avevano già contestato da vivo, in particolare quando aveva ricevuto il Nobel per la letteratura nel 1957, hanno continuato a tenere le distanze.
Camus aveva un bel dire che non era un filosofo perché non credeva «che la verità possa rinchiudersi»: tutta una categoria di pensatori, e non di poco conto, formati alla scuola di Husserl e Heidegger, introdotta in Francia da Merleau-Ponty e Sartre, continuò a considerarlo una nullità. Il fatto è che Camus apparteneva all'altra scuola filosofica francese, quella che va da Montaigne a Diderot passando per Pascal, fatta di umanesimo e di dubbio, al contrario di quell'architettura logica, erede di Hegel, che vuol essere una spiegazione concettuale, razionale e totale del mondo. A ciò si aggiunga che la vulgata marxista s'imprimeva ancora con forza in alcuni di quegli intellettuali, ragione in più per prendere le distanze da un Camus che non aveva mai smesso di denunciare i totalitarismi. Bisognerà aspettare che tali certezze comincino a essere scosse perché Camus diventi ai loro occhi frequentabile. Bisognerà anche che grandissimi scrittori, come il messicano Octavio Paz o il colombiano Gabriel Garcia Marquez, dichiarino tutta la loro ammirazione per la sua opera. Bisognerà infine che i dissidenti dell'Est spieghino, all'epoca del disfacimento del blocco sovietico, che l'Homme révolté era diventato un vero e proprio "samizdat" al di là della cortina di ferro. È così che, gradualmente, Albert Camus ha ottenuto il riconoscimento degli intellettuali. Ma il pubblico, ricordiamolo, non gli è mai mancato.
Giornalista a "Alger républicain", a "Combat" e poi a l'"Exp ress", Albert Camus non ha mai separato il giornalismo dall'impegno politico e letterario. Quando debutta nel mestiere, in Algeria nel 1938, è per denunciare la miseria dei contadini di Kabylie e annunciare la fine di una certa Algeria francese. Nei suoi editoriali di "Combat" si interroga sulle condizioni della Resistenza, poi della rivoluzione: «Dalla Resistenza alla Rivoluzione» era il sottotitolo del giornale. Ma ciò che colpisce in lui, e che lo rende sempre attuale, è il rifiuto di quello che oggi chiameremmo "pensiero unico" e che all'epoca era piuttosto una specie di pensiero unanimista. Mentre nel 1945 la Francia si prepara a festeggiare la vittoria, a recuperare in qualche modo la dignità, arriva la notizia delle bombe atomiche sul Giappone. Camus è uno dei pochi a insorgere e a denunciare Hiroshima. C'è, in Camus, un'esemplare solitudine nella testimonianza.
A Parigi oggi si rimette in scena Caligola, un'opera scritta da Camus nel 1938 e il cui ruolo da protagonista fu di Gérard Philipe nel 1945. Caligola, folle di disperazione dopo la morte della sorella, scopre che «gli uomini muoiono e non sono felici». Detentore del potere assoluto, il giovane imperatore si accanirà a dimostrare, spingendo fino in fondo la logica e le contraddizioni degli uomini, e in nome della libertà, di poter avere l'ultima parola sul destino.
Non ricordavo raggiungesse tali vette. E fosse così premonitore: Camus, venticinquenne, descrive per filo e per segno i meccanismi del totalitarismo fin dal 1938. Un tema, beninteso, sempre d'attualità se si consideri l'ingranaggio freddo, logico e cinico della ragione che egli seziona in questo dramma: grado per grado, la ragione spinta all'eccesso sfocia nel potere autoritario e nell'arbitrio della follia.
La gravità che generalmente si attribuisce a Camus - in realtà l'uomo amava la bellezza e la felicità - deriva dal fatto che, giovanissimo, ha percepito e vissuto una contraddizione intensa fra il sole e le tenebre, fra la gioia e la sofferenza, fra la felicità e la morte. Attribuisce il termine di assurdo non a quanto non ha senso, ma a questa tensione di ogni attimo. Davanti all'esistenza del male, Camus ha immediatamente la sensazione che gli sia impossibile credere a una trascendenza. Per lui, essa è incompatibile con la constatazione che l'uomo quotidianamente ha della propria sofferenza. La fierezza dell'essere umano consiste nel credere che la felicità sia di questo mondo, qui e ora. Per Camus, il fatto che non si possa cercare rifugio in Dio non dispensa dalla morale. Al contrario. La rende ancora più esigente. La peste sarà il suo romanzo della santità senza Dio. E il dottor Rieux, che prefigura in qualche modo i medici senza frontiere di oggi, vi cercherà la salvezza non attraverso la propria ricerca, il proprio cammino, ma nella lotta contro la sofferenza, per la salvezza degli altri.
(traduzione di Anna Maria Brogi)