La nascita delle municipalità
di Raffaele Panico - 22/05/2006
In Italia, il dibattito sulla necessità di un intervento delle “municipalità” nella gestione dei pubblici servizi incomincia all’inizio del secolo e si sviluppa con la partecipazione e il concorso di varie correnti politiche.
I socialisti erano schierati per la municipalizzazione dei pubblici servizi e avevano, in Arturo Labriola, la persona che voleva ottenere i risultati delle esperienze inglesi in Italia.
I cattolici erano ancora relegati dal “non expedit” papale che impediva loro la partecipazione alla vita parlamentare nazionale, ma non a quella delle amministrazioni locali, per cui si pronunciavano per il decentramento amministrativo, per l’abolizione dei dazi, per l’imposta progressiva e per la gestione dei servizi pubblici da parte dei comuni.
Per i liberali l’origine della municipalizzazione derivava invece da premesse che muovevano da opposte circostanze politiche. Infatti, il regime della concessione di pubblico servizio si configurava, per loro, come la condizione di monopolio che proprio la dottrina liberale rifiutava, considerato come aspetto perverso in un quadro di economia competitiva. Il ruolo del municipio nella gestione del pubblico servizio era, quindi, di contrastare i monopoli, salvaguardando la libertà di concorrenza e l’equilibrio del mercato.
Il convergere di queste tre principali posizioni nazionali sull’azione delle “municipalità” e le profonde trasformazioni in atto nella vita economica e sociale influirono sulla formulazione e sulla successiva attuazione del disegno di legge sulla municipalizzazione, presentato da Giovanni Giolitti, l’11 aprile del 1902.
La legge in questione fu approvata l’anno successivo (L.103 del 29/3/1903), alla quale seguiva poi, nel 1904, un regolamento di attuazione (R.D. n.108 del 10/3/1904). Quest’ultimo definiva le attribuzioni e i compiti della Commissione Amministratrice, del suo Presidente e del Direttore, insieme alle norme volte ad assicurare l’efficienza propria di una gestione industriale. Il dibattito teorico pregresso e la struttura normativa ed istituzionale che ne seguiva erano di fatto l’assimilazione nazionale di condizioni e realtà locali che, determinate dai contesti politici avevano già, di fatto, operato ed affermato. Certo, alcune attese e speranze risultavano vanificate.
Le origini dell’intervento delle “municipalità” nella gestione dei servizi si hanno nella città di La Spezia dove, fra il 1877 e il 1886 vengono municipalizzati il gas e l’acqua. Entro la fine del secolo, altre piccole municipalità procedono alla pubblica gestione di differenti servizi, fra queste quelle di Narni (per la nettezza urbana nel 1891), di Rimini (i bagni nel 1891), di Cesena (per il gas nel 1892), ecc. I primi significativi esperimenti di grandi città nella gestione dei pubblici servizi si hanno a Milano nel 1899, per quanto attiene gli acquedotti, a Bologna, nel 1900, con la revoca della distribuzione del gas al privato (gestita da Società Ginevrina del Gas) e con la successiva creazione di una Azienda municipalizzata bolognese(l’ “Officina Comunale del Gas”).
All’inizio del XX secolo, le diverse “municipalità” fruiscono sia delle nuove normative, sia di una aumentata affermazione politica nelle amministrazioni comunali dei socialisti.
Si assiste così, finalmente, ad uno sviluppo dei servizi comunali tesi a soddisfare le esigenze di vita necessarie alle classi meno abbienti con tariffe legate ai prezzi dei generi alimentari e alle condizioni sanitarie.
I servizi quali i bagni e lavatoi pubblici, le farmacie, i macelli, i mulini e i forni da pane, i mercati generali, rientrano in questa visione e si vanno ad affiancare ai servizi – allora - prettamente definiti “borghesi”, come il gas e l’energia elettrica.
La nascita spesso contemporanea di questi nuovi servizi a conduzione e gestione comunale, fra i quali la neonata produzione e distribuzione di energia elettrica, determina l’opportunità e l’esigenza di accentrare in una struttura pubblica compartimentata più servizi insieme. Tale situazione motivava una maggiore presenza di attività a carattere di multiservizi in aziende a gestione comunale.
Nel 1901 infatti, in Italia, i servizi municipalizzati erano: acquedotti 151; gasometri 15; officine elettriche 24; tranvie elettriche 1; nettezza pubblica 3; bagni e pubblici lavatoi 32; macelli 171; trasporti 12; forni 2; farmacie 2; altri servizi 11, per un totale di 424 servizi pubblici.
Il carattere sociale di gran parte dei servizi gestiti dalla “municipalità” era anche un criterio con il quale si determinavano i mezzi di copertura del servizio stesso.
La possibilità di effettuare, in regime di pubblico monopolio, prezzi multipli per uno stesso bene, dava la possibilità di intervenire in modo da soddisfare le diverse fasce di reddito, compensando i mancati introiti dei consumatori a basso reddito con quelli derivanti dalla vendita del bene o del servizio ad altre categorie di consumatori più agiate. Si veniva a determinare un principio di “utilità sociale” che, nascendo sotto l’insegna del paternalismo umanitario ottocentesco e del socialismo riformista, troverà più tardi migliore collocazione teorica nell’ambito dell’economia del benessere.
Ad esempio, diversi Comuni, fra cui quello di Mestre, introdussero tariffe differenziate per l’acqua, secondo il tipo di alloggio servito. A Torino venivano praticate corse a basso prezzo nelle prime ore del giorno, le ore di punta massima del trasferimento degli operai alle fabbriche, sempre compensate dai proventi derivanti da corse in altre ore, quando a fruire erano i ceti agiati.
A oltre 100 anni di distanza dalla prima legge Giolitti del 1903 occorre precisare che rappresentò una tipica azione del moderato riformismo che caratterizzava l’accorta politica sociale giolittiana. Il parlamento le tolse l’audace innovazione da cui inizialmente era circondata, assumendo l’aspetto di un provvedimento che si inseriva nel filone della legislazione tradizionale.
Anche il gruppo parlamentare socialista, che inizialmente vedeva nella legge un primo passo verso la “socializzazione dei mezzi di produzione”, votò contro la legge in quanto nella stesura finale intravide in essa lo strumento destinato non a favorire ma a frenare l’espansione delle attività municipali.
I loro tentativi negli anni successivi, per emendare la legge e in particolare l’articolo 25, che obbligava i Comuni a versare ai Concessionari il cumulo dei profitti non percepiti, non riuscirono mai a tradursi in provvedimenti legislativi anche senza lo slancio da molti auspicato, le municipalizzazioni dei pubblici servizi proseguirono, registrando un sensibile incremento nell’immediato dopoguerra, sull’onda delle affermazioni socialiste e popolari in diversi Municipi.