Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / “Noi credevamo”: il film evento dell’anno?

“Noi credevamo”: il film evento dell’anno?

di Daniele Lembo - 06/12/2010


Se un nipote eccitato, spalleggiato da vostra moglie che non vede l’ora di uscire di casa, imputandovi di essere una figura mitologica metà uomo e metà divano, tenteranno di portarvi al cinema a vedere il film di Martone, dal titolo “Noi credevamo”, il consiglio può essere uno solo: avvinghiatevi al vostro divano e resistete.
Restate a casa, eviterete tre ore passate in una sala cinematografia a chiedervi: “Ma io cosa ci sto facendo qua? Cosa sta succedendo?
Tre interminabili ore, il titolo italiano più atteso della 67 Mostra del Cinema di Venezia, dura proprio tre ore. Circa centottanta lunghissimi, sterminati minuti in cui lo spettatore cerca disperatamente di seguire il filo di quei racconti che lo schermo gli sta narrando.
Sono le storie, non parallele, di tre giovani adolescenti del sud Italia, Domenico, Salvatore e Angelo che, di fronte a una rivolta popolare repressa nel sangue dai Borboni, decidono di votarsi all’unità d’Italia. Entreranno a far parte della Giovane Italia, abbandonando il Cilento e trasferendosi a Parigi, dove conoscono l’affascinante principessa Cristina di Belgiojoso, fervente patriota e tutrice dei diritti delle donne. Il racconto abbraccia un periodo che va dal 1830 all’unità d’Italia e vede i tre partecipare ai moti savoiardi del 1834, al tentativo di assassinare Napoleone III, fino all’ultima spedizione di Garibaldi.
Benché la pellicola si avvalga di un cast eccezionale che vede l’interpretazione di Luca Zingaretti, Renato Carpentieri, Luca Barbareschi, Toni servillo, Edoardo Natole, Luigi Lo Cascio e una bellissima Francesca Inaudi nel ruolo della Principessa di Belgioioso, i diecimilaottocento secondi che dura il film risultano interminabili.
Alla fine, lo spettatore, entrato nel locale di proiezione che sapeva poco di storia risorgimentale, ne esce più confuso che persuaso. Lo svolgersi degli avvenimenti è cosi mescolato che poco giova alla conoscenza della storia risorgimentale di chi quel film è andato a vedere.
Anzi, sarebbe opportuno, se proprio se ne vuole affrontarne la visione di dare una ripassata a qualche manuale di storia patria.
Molti argomenti, di rilevante importanza, sono trattati così velocemente che lo spettatore non si rende neanche conto di cosa si tratti. Uno per tutti, è l’episodio del sarto di San Leucio che uno dei protagonisti incontra in una locanda.
Mentre per le strade i bersaglieri sabaudi procedono a rappresaglie sulla popolazione inerme, il sarto che rientra a casa si rimpiange la comunità di san Leucio dove ha lavorato fino a poco tempo prima. Il problema è proprio questo: cosa era San Leucio?
Il film non dà nessuna risposta, lasciando lo spettatore inerme a vagare con il pensiero e a cercare una qualsiasi soddisfazione alle domande e che gli consenta di mettere assieme i pezzi dell’interminabile puzzle a cui sta assistendo.
Solo a parziale rimedio, ricorderemo che San Leucio era una comunità, voluta da re Carlo di Borbone e destinata a istruire i giovani alla produzione e alla tessitura della seta. La comunità, istituita nel 1778 e nota come Real Colonia di San Leucio, aveva un particolare statuto e regole valide solo all’interno della stessa comunità. All’interno della colonia non c’era nessuna differenza tra gli uomini e donne che godevano di una totale parità. Era abolita la proprietà privata, garantita l’assistenza agli anziani e agli infermi, ed era esaltato il valore della fratellanza e della meritocrazia.
Le ore di lavoro erano 11, mentre nel resto d’Europa erano 14, e a tutti i lavoratori delle seterie era assegnata una casa, tutte dotate di acqua corrente e servizi igienici. Inoltre, il re istituì la prima scuola dell’obbligo d’Italia femminile e maschile che includeva discipline professionali. Altro che Savoia e Unità d’Italia portata sulla punta delle baionette dei bersaglieri.
Lo spettatore, terminata la proiezione, uscendo dal cinema avrà una sola certezza: l’ultimo dei tre giovani patrioti, alla fine non sarà tanto convinto di aver realizzato quello in cui aveva creduto.
Mentre i giovani hanno buttato il sangue inseguendo il mito risorgimentale, altri, i soliti furbi e approfittatori, sono rimasti nelle retrovie a Torino, acquisendo cariche pubbliche e prebende.
Realizzata l’unità della Nazione, anche se sembra che sia cambiato tutto, tutto è rimasto come era prima. E’ il Tancredi del Gattopardo che afferma: “Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”.