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L’impronta ecologica? All’Italia non interessa

di Claudio Messora - 07/12/2010

 
 
Ci salviamo grazie all’Africa, all’America Latina e all’Australia. Per il resto, divoriamo il mondo come le cavallette in una piantagione di mais. Il mondo è in riserva: per viaggiare, consuma più benzina di quanta non sia possibile infilarne nel serbatoio. Il vecchio adagio “Quando l’ultimo pesce sarà stato pescato, l’ultimo albero tagliato, l’ultimo fiume avvelenato [...] allora l’uomo si accorgerà di non potersi mangiare il conto in banca” è sinistramente attuale, insomma.

Funziona così: i mari sono capaci di produrre un certo numero di pesci all’anno, le foreste ci mettono tot tempo a ricrescere, gli animali possono essere allevati non oltre un certo tasso di riproduzione e così via. Il Global Footprint Network mette insieme tutti i parametri e calcola la biocapacità della Terra, ovvero le potenzialità di cui il nostro pianeta dispone per produrre risorse nella finestra convenzionale di 12 mesi. A questa capacità viene associato il valore simbolico di “1 pianeta“. A livello mondiale, nel 1961 di pianeti ne consumavamo appena mezzo. La nostra impronta ecologica era leggera, lo sviluppo era sostenibile. Nella seconda metà degli anni ’80 abbiamo raggiunto il pareggio e oggi facciamo fuori un pianeta e mezzo all’anno. Secondo le previsioni più ottimistiche, entro il 2050 i nostri consumi supereranno abbondantemente la biocapacità terrestre di oltre due volte. Oltre alla Terra, ci faremo fuori anche Marte o Venere, insomma. Tra il 2300 e il 2400, se ci impegniamo, dovremmo già avere digerito l’intero sistema solare e potremo iniziare lentamente a sgranocchiare la Via Lattea. Il vero buco nero siamo noi, altro che balle!

Prima ancora che un problema di ordine etico o morale, qui si tratta di farsi furbi. Ogni paese ha diritto a svilupparsi almeno tanto quanto ogni uomo ha diritto a vivere e crescere. Se non è sostenibile, però, lo sviluppo indiscriminato paradossalmente conduce al risultato opposto: il collasso. Se mettete troppo lievito nel pane, anziché crescere di più, la pagnotta crollerà miseramente su se stessa. Quindi è nell’interesse di ogni singolo paese comprendere qual’è la sua biocapacità e come adattare i propri consumi e il proprio stile di vita per raggiungere la bio-indipendenza.

Mathis Wakernagel è il signor Overshoot-Day, la triste ricorrenza che ogni anno celebra il giorno nel quale ci siamo mangiati tutto e, fino al 31 dicembre, non un solo filo d’erba prodotto dalla Terra andrà a rimpinguare le nostre dispense. Mathis ha capito che se non ci faceva un disegnino, ideando un complesso sistema di valutazione e di calcolo, non sarebbe stato facile convincerci. Così ha fondato il Global Footprint Network e gira per il mondo mostrando ad ognuno quanto produce e quanto consuma, spiegandogli che, se è in deficit, tornare in pari è soprattutto una questione di convenienza economica.

Nel 2007, a fronte di una biocapacità di 1,1, l’Italia aveva già un’impronta ecologica di 5,0, con un deficit secco di 3,9, in larga parte dovuto all’emissione di gas serra. A pari merito, in Europa, si classificano Spagna, Svizzera e Grecia, mentre peggio di noi solo l’Olanda e il Belgio. Tanto per dare qualche termine di paragone, il Canada, con le sue sconfinate distese di natura selvaggia, presenta un saldo positivo di ben 7,9, così come l’Australia, mentre agli antipodi non potevano esserci che gli Emirati Arabi Uniti, con un deficit di 9,8 punti, il Qatar (8,0) e tutti quei posti come Dubai, costruiti su terre aride e improduttive, che per mantenere i loro sontuosi stili di vita devono poggiarsi esclusivamente sulla biocapacità del resto del mondo.

Il Global Footprint Network dalle nostre parti sta lavorando a un progetto che coinvolge i paesi dell’area mediterranea. Se ne interessano la Turchia, la Giordania, la Spagna, perfino il Marocco. L’Italia no. Al nostro Ministero dell’Ambiente non interessa sapere quale sia l’impronta ecologica italiana nè quanta dispensa possiamo ancora saccheggiare prima di essere completamente dipendenti dagli altri. Ammesso che agli altri avanzi ancora qualcosa e che noi si abbiano i soldi per pagare.

Ho incontrato Mathis Wackernagel a Milano, nel corso di un convegno organizzato a spese proprie da cittadini preoccupati. L’ho intervistato per voi. Guardate il video (abilitate i sottotitoli in italiano) o continuate a leggere.