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La strada che portò alla resa di Stalingrado era segnata da un errore strategico di fondo

di Francesco Lamendola - 07/12/2010

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Secondo la grandissima maggioranza degli storici della seconda guerra mondiale, la battaglia di Stalingrado e la resa della Sesta armata tedesca di von Paulus ai sovietici (31 gennaio 1943) rappresentano la svolta decisiva della seconda guerra mondiale, non solo sul fronte orientale, ma nel suo complesso.
Accanto ad essa, ma in misura subordinata, essi ricordano la quasi contemporanea sconfitta dell’armata italo-tedesca di Rommel ad El Alamein, nel deserto egiziano, culminata il 4 novembre 1942, mentre sulle sponde del Volga si profilava l’accerchiamento e la disfatta dei Tedeschi; sconfitta che segnò l’inizio della fine per l’Italia e che pose l’intero Mediterraneo in balia delle forze inglesi e americane (con le seconde che erano sbarcate nei porti dell’Africa settentrionale francese).
Sulla battaglia di Stalingrado esiste una letteratura vastissima che non è qui il caso di ricapitolare, nemmeno per sommi capi; resta il fatto che gli storici militari, come tutti gli specialisti, tendono a privilegiare il punto di vista della propria disciplina e a dimenticarsi che i fattori puramente materiali della guerra, ivi comprese le vittorie o le sconfitte degli eserciti sul campo, non rappresentano che una parte del problema e che, per farsi un’idea chiara di una certa campagna militare, specialmente quando si tratta di guerre moderne, basate sul potenziale industriale delle nazioni in lotta, è indispensabile inquadrarla nel più vasto contesto politico, economico e finanziario, nonché nella sua dimensione globale geografica e strategica.
In questo senso, vi sono pochi dubbi che Hitler aveva già perso la seconda guerra mondiale quando i suoi eserciti fallirono l’obiettivo di conquistare Mosca nel dicembre del 1941, anche e forse soprattutto a causa di una serie di ritardi e di decisioni contraddittorie che videro i Tedeschi attardarsi in alcune spettacolari operazioni di accerchiamento sul fronte sud, ma che ebbero l’esiziale effetto di consentire ai sovietici di far affluire divisioni di riserva dall’Estremo Oriente - grazie alla ormai certa neutralità del Giappone - e di predisporre i piani per una controffensiva invernale davanti alla loro capitale.
Anche qui, giova tener conto del fattore psicologico che dovette determinare la fatale decisione giapponese di non attaccare l’Unione Sovietica, ma di rivolgersi contro gli Stati Uniti: fattore che ebbe le sue non lontane origini, a nostro avviso, nello shock provato dai militari giapponesi allorché, impegnati in un breve ma durissimo conflitto con i sovietici alla frontiera mongola e mancese, videro poi Hitler stringere con Stalin il famoso patto di non aggressione dell’agosto 1939 (cfr. i nostri articoli «La campagna russo-giapponese del lago Chasan (31 luglio-13 agosto 1938)», sul sito di Arsmilitaris; e «La campagna russo giapponese di Nomonhan: prima fase (11 maggio-25 luglio 1939)» e «La campagna russo-giapponese di Nomonhan: seconda fase (20 agosto-16 settembre 1939), apparsi entrambi sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente il 31/07/2008 e il 01/08/2008).
Da un punto di vista strategico ancora più ampio, peraltro, la sconfitta dell’Asse si era profilata all’orizzonte ancora prima del dicembre 1941 e della battaglia di Mosca: e cioè fin da quando i Tedeschi avevano aperto il fronte orientale, attaccando l’Unione Sovietica (Operazione Barbarossa), senza aver prima chiuso quello occidentale, invadendo la Gran Bretagna (Operazione Leone Marino); e ripetendo, così, il decisivo errore della prima guerra mondiale, quello di impegnarsi in una guerra di lunga durata su due fronti.
A ciò si aggiunga il suo inevitabile corollario: il probabile intervento degli Stati Uniti a fianco della Gran Bretagna, che di fatto avvenne sin dall’agosto 1941 con la ratifica della Carta Atlantica fra Churchill e Roosevelt; e l’inevitabilità della sconfitta, a lungo termine, nella battaglia dell’Atlantico fra gli U-Boote tedeschi e il naviglio alleato.
Tuttavia, venendo alle cause più immediate della sconfitta di Stalingrado, che effettivamente segna un punto di non ritorno perché, da quel momento - a parte la fallimentare Operazione Cittadella, ossia l’offensiva di Kursk del luglio-agosto 1943 - i sovietici conserveranno sempre l’iniziativa strategica fino a che giungeranno, nell’aprile del 1945, nel cuore di Berlino, mentre i Tedeschi non potranno fare altro che ritirarsi, cercando di rallentare, per quanto possibile, i progressi nemici, vi sono altri due elementi da tener presente: un errore di fondo dell’Alto Comando germanico e la difficoltà di amalgamare le truppe alleate - italiane, ungheresi e romene - con quelle tedesche, nel settore meridionale del fronte.
L’errore di fondo nasce dall’aver voluto puntare contemporaneamente su due obiettivi divergenti: i campi petroliferi del Caucaso e il nodo ferroviario e fluviale di Stalingrado, sul basso corso del Volga; l’uno di natura prevalentemente economica, trattandosi di integrare le scorte di combustibile di cui disponeva il Terzo Reich, pur dopo aver messo le mani sui pozzi romeni di Ploesti; l’altro di natura prevalentemente strategica, ma anche di notevole valore ideologico e propagandistico, trattandosi della città-simbolo del regime staliniano.
La storia militare offre innumerevoli esempi di offensive fallite non già per l’insufficienza delle forze messe in campo, dell’audacia dei comandanti e del valore delle truppe, ma per una incapacità concettuale di concentrare lo sforzo in una sola direzione, ponendo obiettivi divergenti ad una azione che, diversamente, avrebbe potuto aver successo.
Uno di quelli meglio noti agli storici italiani ed austriaci è quello della Battaglia del Solstizio del giugno 1918, allorché le truppe austro-ungariche vennero mandate all’assalto su due direttrici contemporaneamente, la zona degli Altipiani da un lato e il medio corso del Piave dall’altro: inevitabile risultato, da parte del generale Arz von Straussenburg, di aver voluto raggiungere un compromesso ad ogni costo, per ragioni di carattere non strettamente militare, fra il piano originario di Conrad von Hötzendorf, mirante a realizzare uno sfondamento sugli Altipiani, e le richieste del comandante della Isonzo Armee, Svetozar Boroevic, che, dal Piave, desiderava svolgere anch’egli un ruolo strategico primario.
Hitler volle fortemente la campagna verso i pozzi petroliferi del Caucaso, puntando in direzione di Baku, sul Marc Caspio, perché consapevole della scarsezza di carburante di cui soffrivano la Germania e l’esercito tedesco e, forse, inseguendo la chimera di poter sbloccare la situazione sul fronte nordafricano, prendendo alle spalle gli Inglesi attraverso il Medio Oriente e aprendosi la via per il Canale di Suez non da ovest, ma da est.
Poi, mano a mano che la resistenza sovietica a Stalingrado si irrigidiva e che questa grande città industriale assumeva, sempre di più, il valore di un simbolo ideologico, non solo della lotta fra nazismo e comunismo, ma anche della volontà di resistenza e di riscossa del popolo russo, egli si intestardì nella decisione di completarne l’occupazione a tutti i costi, raddoppiando l’onere strategico richiesto al gruppo di armate meridionale e ponendolo di fronte a due obiettivi divergenti, destinati a causare una fatale dispersione delle forze.
Così, quando infine - il 21 agosto 1942 - le truppe da montagna tedesche riuscirono a scalare la vetta del Monte Elbrus, (a 5.648 metri, molto più del Monte Bianco), e a piantarvi la bandiera con la svastica, l’intera operazione del Caucaso finì per risolversi in un senso puramente dimostrativo, perché i pozzi petroliferi dell’Azerbaigian erano ancora ben lontani, allorché il precipitare della situazione a Stalingrado impose il ritiro immediato delle armate più meridionali.
La campagna estiva del 1942 era stata denominata in codice Operazione Azzurra («Fall Blau») e doveva svolgersi, secondo la disposizione presa dall’Alto Comando tedesco riunito da Hitler il 5 aprile 1942, in quattro fasi. Nella prima fase, il Gruppo d’Armate Weichs avrebbe dovuto sfondare il fronte all’altezza di Kursk e avanzare frontalmente sino a Voronez, sul Don; nella seconda, le Armate del Gruppo Sud avrebbero mosso a loro volta da Kharkov fino al Don, completando il movimento; nella terza, avrebbero dovuto raggiungere Stalingrado e prenderla in una morsa, avanzando dall’ansa del Don e da Rostov; nella quarta, avrebbero dovuto rivolgersi a sud e puntare direttamente sul Caucaso.
Come sempre, Hitler impose la propria volontà ed ai suoi generali - Keitel, Halder e Jodl - non rimase che prendere atto delle sue decisioni.  Halder, in particolare, il Capo di Stato Maggiore generale, non condivideva l’ottimismo di Hitler, secondo il quale i sovietici avevano consumato tutte le loro riserve strategiche nella battaglia invernale davanti a Mosca ed erano ormai alla vigilia del crollo; né si faceva illusioni sui grandiosi piani di irruzione nel Medio Oriente attraverso la “porta” del Caucaso, in direzione dell’Afrika Korps di Rommel.
Iniziata l’offensiva il 28 giugno, essa si svolse con mirabile velocità e il 17 luglio i Tedeschi avevano già raggiunto Stalingrado ed ingaggiato la titanica battaglia per il controllo della città e dei passaggi sul Volga. Ma prima di essere riusciti ad assicurarsi il possesso completo di Stalingrado, una gran parte delle forze tedesche proseguì verso il Kuban ed il Caucaso, lasciando alla Sesta armata di von Paulus il compito di ultimare la conquista di essa.
A metà luglio, il gruppo di armate meridionali venne suddiviso in due gruppi, denominati A e B: il Gruppo A, formato dalla Diciassettesima armata e dalla Prima armata corazzata, doveva occupare i campi petroliferi di Grosny e Maikop e puntare poi verso il Caucaso; il Gruppo B doveva semplicemente proteggere il fianco delle truppe avanzanti e assicurare il controllo del Volga sui due lati di Stalingrado, bloccando le comunicazioni del nemico che passavano per quella via e impedendo ai sovietici di servirsi delle fabbriche di armamenti (Stalingrado era un importante centro dell’industria bellica), occupandole oppure distruggendole.
Si noti che, nei piani originari dell’Operazione Azzurra, l’importanza propagandistica della conquista di Stalingrado non aveva alcun posto, anzi non si faceva nemmeno esplicita menzione della sua conquista totale; si parlava invece della necessità di “neutralizzarla”, anche mediante massicci bombardamenti, in modo da proteggere opportunamente il fianco sinistro delle armate tedesche dirette a sud.
Per quanto riguarda, invece, la difficoltà di utilizzare le armate degli Stati alleati dell’Asse, si tratta di un problema di natura essenzialmente politica.
Su una forza complessiva di 1.600.000 uomini (con 2.300 carri armati e circa 1.800 velivoli), solo un milione erano i soldati tedeschi; gli altri seicentomila erano romeni (24 divisioni), italiani (10 divisioni) e ungheresi (altre 10 divisioni).
Secondo una considerazione di natura strettamente militare, sarebbe stato opportuno “spalmare” le truppe alleate all’interno delle armate tedesche, un po’ come si era fatto, in parte, con le truppe austro-ungariche sul fronte orientale durante la prima guerra mondiale; e ciò a causa della minore efficienza combattiva di quelle, alle carenze del loro equipaggiamento e soprattutto in fatto di carri armati, aerei, armi anticarro e automezzi per il trasporto della fanteria, nonché per la minore intraprendenza e preparazione dei comandi.
Già nel teatro di guerra dell’Africa Settentrionale si era visto come le divisioni italiane avessero potuto fare miglior prova di sé dopo che il loro comando effettivo (non quello nominale) era passato nelle mani di Erwin Rommel, che non quando avevano operato da sole, prima dell’arrivo dell’Afrika Korps in Libia: i comandanti tedeschi erano indubbiamente più abili, più determinati e molto più modernamente preparati.
D’altra parte, considerazioni di natura politica si opponevano a una aggregazione delle divisioni alleate nelle armate tedesche, sotto comando tedesco; ragioni nazionalistiche e di prestigio volevano che gli alleati operassero in maniera relativamente autonoma, come pure ragioni psicologiche legate al morale delle truppe. L’Italia era pur sempre un alleato, almeno teoricamente, di pari dignità all’interno dell’Asse, per non parlare dell’ascendente che Mussolini continuava ad esercitare, nonostante le deludenti prove offerte dalle nostre Forze Armate, su Hitler, che davanti a lui continuava a sentirsi un po’ come l’allievo rispetto al maestro.
Quanto alla Romania del generale Antonescu, suo principale partner sul fronte orientale, e all’Ungheria dell’ammiraglio Horthy, Hitler non era disposto a mortificarne apertamente l’orgoglio nazionale; e ciò getta una luce significativa sui reali rapporti politici esistenti all’interno dello schieramento dell’Asse, a dispetto del fatto che il grande pubblico continui a pensare agli alleati minori della Germania - dalla Finlandia alla Slovacchia, dalla Croazia alla Bulgaria - come dei miseri Stati fantoccio, dei quali Hitler sarebbe stato libero di disporre a suo piacimento.
Ma cediamo la parola allo storico Walter Görlitz, curatore delle memorie del maresciallo Friedrich von Paulus, pubblicate in italiano con il titolo un po’ arbitrario di «Stalingrado» (titolo originale: «Paulus. Ich stehe  hier auf Befehl!», Frankfurt am Main, 1960; traduzione di Roberto Margotta, Milano, Garzanti, 1967, pp. 164-65):

«Purtroppo lo stato maggiore tedesco non riuscì mai a indurre Hitler ad accettare le sue considerazioni relative alla formazione del baricentro e all’obiettivo principale delle operazioni del 1941 in Russia. Ciò sconvolse tutto il piano cronologico.  E in seguito alla sconfitta tedesca davanti a Mosca del dicembre 1941 sorse un nuovo problema, quello cioè del modo in cui s’intendeva condurre la campagna del 1942: difesa elastica sfruttando l’ampiezza dei territori orientali, o attacco. In quest’ultimo caso si trattava di decidere se rinnovare l’attacco contro Mosca o scegliere altri obiettivi.
Paulus entrò nel vivo di questa situazione quando, il 5 gennaio 1942, abbandonò la carica di intendente generale, sostituito dal generale Blumentritt, e dovette assumere il comando della Sesta armata. Come comandante di armata egli divenne in fin dei conti un semplice congegno del grande apparato di comando, centralizzato e guidato da Hitler, e non poteva avere alcuna influenza né sui piani, sul comando delle operazioni globali.
Giova ricordare che Hitler, comandante supremo della Wehrmacht e comandante in capo dell’esercito, considerava la conquista dei campi petroliferi del Caucaso il principale obiettivo della campagna del 1942.  Perciò, in base delle disposizioni del Führer dell’11 novembre 1941, il capo dello stato maggiore dell’esercito, colonnello generale Halder, dichiarò due giorni dopo, durante un colloquio con il capo di stato maggiore dei gruppi di eserciti e delle armate a Orscia, che appariva giustificato, “in caso di favorevoli condizioni meteorologiche, attaccare con tutte le forze verso Stalingrado e conquistare Maikop e Grosny “per migliorare le nostre limitate risorse di petrolio”.
Il traguardo supremo dell’Operazione “Azzurra” progettata per il fronte meridionale nel 1942 era il Caucaso con i suoi giacimenti petroliferi, in cui le zone di Maikop e Grosny avevano importanza soltanto secondaria, mentre la parte più preziosa era quella presso Baku, lontano, nell’Azerbaigian, sul Marc Caspio. Soltanto nel corso della campagna estiva doveva avvenire la designazione di Stalingrado con il ponte terrestre fra il grande gomito del Don e quello del Volga come secondo obiettivo delle operazioni. In questo modo a tutta la campagna tedesca fu conferita una struttura ssurda con due raggi divergenti; d’altra parte, i due obiettivi principali, Stalingrado e il Caucaso, in origine non erano affatto collegati l’uno con l’altro.»

Ed ecco il resoconto di von Paulus, del quale ci soffermiamo specialmente sulla parte che riguarda l’impiego delle truppe alleate (Op. cit., pp. 172172-74):

«Per quanto riguarda l’offensiva principale del 1942nel settore meridionale del fronte, è significativa la conferenza tenuta da Hitler il 1° giugno 1942 nel quartier generale del gruppo di esercito sud a Poltava. Arrivò col suo seguito in aereo dal suo quartier generale nella Prussia orientale per ripartire lo stesso giorno. Erano con lui il capo del comando supremo della Wehrmacht, feldmaresciallo Keitel, il capo del compartimento delle operazioni dell’OKH, maggior generale Heusinger, l’intendente generale dell’esercito, tenente generale Wagner, nonché alcuni aiutanti di Hitler.
Alla conferenza parteciparono il comandante in capo del gruppo di esercito sud,l feldmaresciallo Von Bock, e il suo capo di stato maggiore, generale Von Sodestern. […]
In quell’occasione Hitler mise ancora in evidenza l‘energia, con la quale passava sopra a tutti i timori che venivano espressi… […]
L’equipaggiamento e l’addestramento delle truppe alleate erano insufficienti per le esigenze di una grande guerra moderna, specie poi nelle durissime condizioni  atmosferiche dell’inverno russo. Nei paesi alleati, inoltre, l’invio di truppe sul Volga e sul Don aveva suscitato un profondo malcontento. D’altra parte on deve essere stato facile far capire, per esempio a un soldato italiano, la necessità di combattere nella steppa in condizioni meteorologiche per lui particolarmente pesanti.
Ma la stessa considerazione vale, più o meno, anche per gli altri alleati. La Seconda armata ungherese era stata costituita racimolando truppe qua e là in tutto l’esercito magiaro e una parte dei suoi effettivi proveniva da territori annessi all’Ungheria soltanto da poco tempo.
A chiunque sia esperto di cose militari appaiono subito evidenti i difetti di queste formazioni,. Tuttavia, in considerazione di queste circostanze, meritano di essere messi in risalto il valore dei soldati e l’abilità dei comandanti dei reparti romeni inquadrati nella mia armata. Dopo che ebbero ottenuto le armi pesanti, di cui in genere disponevano i soldati tedeschi, si batterono coraggiosamente, guidati con energia dai loro ufficiali  e sopportando stoicamente ogni privazione. La maggior debolezza delle truppe alleate era data però dalla scarsità degli armamenti, specie per quanto riguardava l’artiglieria, i carri armati e la difesa anticarro. Le promesse di forniture di armi non furono mantenute o lo furono solo in parte.
Le esigenze militari avrebbero consigliato di impiegare i reparti alleati in settori del fronte tranquilli o poco minacciati, oppure nelle retrovie. Se ciò non era possibile, allora avrebbero dovuto affrontare le più agguerrite divisioni nemiche  in prima linea mischiati con reparti tedeschi. Nemmeno questo era possibile per motivi politici. Inoltre, per quanto riguardava rapporti di subordinazione e l’emanazione di ordini, bisognava di continuo tener conto del desiderio di prestigio delle nazioni più piccole e della suscettibilità dei comandanti di truppa alleati facili ad adombrarsi. Tutto ciò, oltre ai difetti delle operazioni, dimostra la debolezza della politica di alleanze di Hitler.»

Riassumendo.
Nella decisiva sconfitta tedesca di Stalingrado, consumatasi il 2 febbraio 1943 con la resa degli ultimi reparti combattenti all’interno della “sacca”, giocarono, oltre alle indubbie capacità dei generali sovietici e alla forte determinazione delle loro truppe e delle popolazioni civili, una serie di fattori, sia militari che politici, i quali partivano da lontano.
Il più grave degli errori militari fu l’assegnazione, al Gruppo di eserciti Sud, di due compiti e di due linee operative divergenti, ma contemporanei: il Caucaso e Stalingrado; cosa non prevista dal piano originario dell’Operazione Azzurra e palesemente in contrasto con il basilare concetto strategico della concentrazione delle forze in vista di una offensiva.
Il più ingombrante dei fattori politici che contribuirono alla sconfitta fu l’impiego poco razionale delle truppe degli eserciti alleati, che costituivano più di un terzo del numero totale degli uomini impiegati in quel settore; cosa dovuta principalmente alla mancanza di una piena subordinazione di questi esercito al concetto strategico fondamentale del comando unificato.
Se, poi, vogliamo risalire ancora più indietro, possiamo dire che la sconfitta di Stalingrado parte da molto più lontano; forse già da quando Hitler si illuse, lanciando l’Operazione Barbarossa il 22 giugno 1941, di poter ripetere sull’immenso scacchiere russo i folgoranti successi della Blitzkrieg già ottenuti in Polonia, in Danimarca, in Norvegia, nei Paesi Bassi, in Belgio, in Francia, in Jugoslavia e in Grecia.
Per ciascuna di quelle campagne, comprese quelle di Polonia e di Francia, si era trattato di operazioni a medio o breve raggio, condotte su scacchieri geograficamente limitati, contro un avversario che ignorava il moderno impiego dei carri armati e dell’aviazione o che possedeva modesti quantitativi di armi moderne; che fondava ancora le proprie concezioni strategiche sulla guerra di trincea o, tutt’al più,  sull’impiego a massa della cavalleria.
Il caso dell’Unione Sovietica era completamente diverso. Basta una semplice occhiata alla carta geografica per intuire che è impossibile, a qualunque esercito, occupare interamente un Paese di quelle sterminate dimensioni, che andava dai confini della Prussia orientale sino all’Oceano Pacifico. Veniva così a mancare, in una guerra contro l’Unione Sovietica, il presupposto fondamentale del successo per una guerra breve e risolutiva: la chiara individuazione degli obiettivi strategici e la possibilità di privare il nemico dei mezzi, umani e materiali, per proseguire ulteriormente la lotta.
Von Clausewitz sarebbe inorridito; ma non si opposero i generali di Hitler, benché molti di essi, specialmente Halder e Jodl (non certamente Keitel, semplice esecutore di ordini), fossero dei cervelli di prim’ordine; e già questo la dice lunga sulle contraddizioni di un regime, come quello hitleriano, tutto proteso verso l’affermazione di sé attraverso la guerra, ma nel quale le intelligenze militari erano rigidamente subordinate al volere del capo supremo.
Sulle qualità di Hitler come stratega è stato detto tutto e il contrario di tutto: che fosse un genio e che fosse un perfetto analfabeta; ma, forse, bisognerebbe decidersi a giudicarle non in se stesse, ma in rapporto con le sue concezioni politiche di più ampio raggio e con l’importanza da lui attribuita ai fattori immateriali della guerra, primo fra tutti la ferma volontà di lottare sino alla vittoria finale, di non scoraggiarsi e lasciar cadere le armi, come egli soleva dire - e come, a suo avviso, era accaduto nel 1918 - «un quarto d’ora prima dell’avversario».
Ad ogni modo, è certo che Hitler giudicava erroneamente la situazione interna dell’Unione Sovietica e che, quando giocò l’azzardo dell’Operazione Barbarossa, era fermamente convinto che il regime staliniano fosse sull’orlo del tracollo, e che una semplice spinta sarebbe bastata a farlo implodere. È altrettanto certo che egli non seppe trarre le dovute conclusioni dall’esito della battaglia di Mosca del dicembre 1941 e che sia nel 1942, con l’Operazione Azzurra, sia ancora nel 1943 (dopo il disastro di Stalingrado!), con l’Operazione Cittadella, non seppe riconoscere le qualità del nemico che aveva di fronte e continuò a sottovalutarne sia le risorse materiali, sia le condizioni morali.
Così, quella di Stalingrado fu una doppia sorpresa per i Tedeschi: sul piano strettamente militare, perché  i sovietici seppero realizzare una di quelle operazioni a doppio avvolgimento nelle quali, fino a quel momento, erano stati loro i maestri, mentre i sovietici le avevano disastrosamente subite; e sul piano morale, perché, invece di un nemico esausto e sfiduciato, quale se l’era immaginato Hitler, si erano trovati alle prese con un esercito estremamente deciso a lottare con tutte le proprie forze, senza chiedere né concedere quartiere.
In questo senso, la sconfitta di Stalingrado non è soltanto la conseguenza di errori strategici o dell’impiego imprudente delle divisioni alleate, ma anche di un difetto di presunzione, di un pregiudizio in base al quale i Tedeschi si ritenevano moralmente superiori all’avversario e ne disprezzavano le qualità e le risorse, fino a quando non fu troppo tardi.
Se si aggiunge a tutto questo il peso notevolissimo che i continui, massicci rifornimenti di materiale bellico angloamericano ebbero nel rafforzamento dell’Armata Rossa e nella ricostituzione delle scorte distrutte o consumate - dovuto, a sua volta, al decisivo fattore del dominio marittimo da parte degli Alleati -, si avrà un quadro sufficientemente chiaro delle ragioni che determinarono la sconfitta dei Tedeschi a Stalingrado e, in prospettiva, lo stesso esito finale della seconda guerra mondiale.
Un ultimo elemento non deve essere, però, taciuto: l’occasione sprecata dai Tedeschi di farsi alleate le popolazioni dell’Unione Sovietica, allorché la invasero nel giugno del 1941: quando, come riferiscono molte testimonianze di prima mano, queste ultime li stavano accogliendo a braccia aperte, come dei liberatori. Di fatto, solo modeste minoranze nazionali, come i Cosacchi del Kuban o come i Tatari di Crimea, e solo una modestissima percentuale dei prigionieri di guerra sovietici, organizzati dal generale Vlasov, scelsero di unire le proprie sorti a quelle della Germania e combatterono effettivamente al loro fianco.
Le cose avrebbero potuto andare ben diversamente se i Tedeschi, applicando fin troppo scrupolosamente i malvagi ordini di sterminio ai danni delle popolazioni civili, non avessero ottenuto l’effetto diametralmente opposto, di cementare lo spirito di resistenza del popolo russo e di spingere persino la perseguitata Chiesa ortodossa a benedire le divisioni di Stalin, in nome della “grande guerra patriottica”, com’era avvenuto ai tempi di Napoleone e Kutuzov.
Ma avrebbe potuto essere diverso il contegno della Wehrmacht nelle terre invase dell’Unione Sovietica, anche se gli zelanti reparti di SS non avessero scatenato un sistematico terrore nelle retrovie, bruciando i villaggi e fucilando inermi cittadini?
È difficile crederlo, considerando il pregiudizio razzista dal quale nasceva la stessa Operazione Barbarossa: la quale non aveva soltanto lo scopo di spezzare l’ultima spada continentale rimasta alla Gran Bretagna, per costringere quest’ultima a rassegnarsi all’armistizio, ma anche quello di procurare al Terzo Reich il tanto sospirato “spazio vitale” promesso da Hitler fin dagli anni in cui, molto tempo prima della seconda guerra mondiale, questi metteva nero su bianco il proprio credo politico, nelle pagine del «Mein Kampf».