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La virtù che dona è relazione, intimità

di Claudio Risé - 10/12/2010


Quando il “mercato” delude (come oggi), si fa ancora più intensa la nostalgia, e il bisogno, di dono.

Il mercato (nella sua accezione economica, non quello fisico, che ha ancora un contenuto relazionale forte), è il luogo dell’incontro e scambio con le merci e gli oggetti. Il dono è il modo dell’incontro con la vita, e con l’altro. Mentre il modello culturale dominante indebolisce le relazioni col vivente e l’incontro tra persone per sostituirlo con la brama del consumo, il dono ristabilisce un’intimità umana. Avvicina le persone, consente all’uno, donatore e ricevente, di vedere il volto dell’altro, anche nel senso di penetrarlo intimamente, e lasciarsene penetrare.
Il dono, esperienza d’incontro, restituisce vita e consistenza al corpo, oggi virtualizzato nel gioco di specchi della società “self reflecting” nella quale l’altro non è più volto e corpo, ma immagine. Per questo, la nostalgia del dono comincia già nel trionfo della società industriale, quando la psicoanalisi studia le patologie del “corpo rimosso”, e Nietzsche nota, prima di ogni altro, il ribrezzo moderno per l’organico e il corpo, e presenta “la virtù che dona” come antidoto alla virtualizzazione dell’umano: “Riportate, come me, la virtù che dona sulla terra — sì riportatela al corpo e alla vita: perché dia un senso alla terra, un senso umano!” esortava Zarathustra.
La “virtù che dona”, rimossa, è sprofondata nell’inconscio, sincronicamente all’allontanamento fisico e simbolico del corpo, che rende appunto “intellettuale” ogni relazione. Privandola quindi di ogni aspetto di intimità proprio al vivente, che è quello fisico e emozionale. Anche due computer possono comunicare secondo dei processi astratti, ma solo due esseri viventi possono amarsi. Si vuole tutto calcolare, nella fantasia onnipotente di evitare, grazie al calcolo e alla tecnologia, il dramma cui il vivente è fatalmente consegnato, e da cui trae, oltretutto, la propria forza e il proprio senso.
Lo sguardo alla nuova vita, dono per eccellenza, fisico, affettivo e simbolico, rivela la deriva verso la trasformazione dell’altro in oggetto, programmato secondo regole di mercato, piuttosto che espressione di un dono di sé, che è anche dono di vita. Già dall’immagine del bambino proposta ai genitori dai media, dall`apparato sanitario, dal sistema di comunicazione e di consumo, la vita nascente non è vista come dono di chi nasce ai genitori e al mondo, e viceversa, ma come produzione, nella quale il corpo-psiche del nascituro viene inghiottito da un progetto produttivo e tecnico elaborato secondo i modelli di mercato e le sue tecnologie. Dai metodi di monitoraggio della gravidanza, a quelli proposti nel parto, tutto segue il metodo del calcolo e del controllo, piuttosto che quello del dono e dello sguardo al volto dell’altro, nel rispetto per lo svolgersi di un processo naturale. Questa sostituzione di una volontà di possesso e di potere al dono della nascita, già proposta in una normale gravidanza fino ad alterarne l’intero svolgimento, svela poi la sua natura di sopraffazione della vita nelle gravidanze tecnologicamente guidate col supporto, appunto, del mercato dei diversi elementi riproduttivi, semi, embrioni, ed ovuli.
Il calcolo produttivistico e impersonale, appunto, esclude il dono, che nasce da quel profondo slancio verso l’altro e verso la vita da cui nasce la virtù che dona. Ed esclude dunque l’intimità, e la relazione, la conoscenza dell’altro, la possibilità di vederne il volto, accoglierlo in sé.
Per donare, infatti, occorre accettare di ricevere. E dunque di aver ricevuto: per esempio la vita. Certamente dal padre e dalla madre. Ma, prima ancora, da quel Padre da cui, come ha ricordato Giovanni Paolo II, l’uomo e la donna ricevono “la virtù del reciproco donarsi” che è in Lui, e che è all’origine di tutte le abbondanze e generazioni. Un’ origine da cui la nostra vita non può separarsi, se non in un delirio di onnipotente follia.