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Non globalizzata, è la buona tavola canara

di Massimo Serafini - 17/12/2010


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  Il menù locale è sfuggito alla furia dei supermercati. Ci sono i pesci freschissimi di Juan, la carne delle capre che vivono libere e frutta e verdura che cresce da queste terre rosse.

La principale domanda che mi frullava nella testa, sull’areo che mi portava a vivere a Fuerteventura, era che cosa avrei mangiato sull’isola. In fondo, non era stata la mia una scelta per ricercare una maggiore qualità della vita e occupare al meglio quella quindicina di anni di vita che i progressi della medicina ci hanno regalato? Qualcuno può contestare che ciò che si mangia e ciò che si beve sia uno degli ingredienti di questa qualità del vivere? Più ci pensavo e più venivo assalito dai dubbi: ma cosa mai potrà offrire una piccola isola Canaria, sperduta insieme alle sue sei sorelle in mezzo all’Atlantico? Che specialità possono essere state concepite su questi 7 grandi scogli alla deriva in mezzo all’oceano e in particolare su questa pietraia vulcanica, dove non piove quasi mai e solo fino a trent’anni fa, cioè prima del turismo, era poco abitata e poverissima?
 
Devo alla lucidità profetica del mio amico Carlin Petrini l’idea che fra i diritti di una persona vi debbano essere anche quelli del  “buono e del bello”. Me la inculcò negli anni 70, quando mi chiamava a Bra per una delle tante iniziativa con cui volevamo cambiare il mondo. Si finiva sempre davanti a un buon bicchiere di Nebbiolo e a squisiti tagliolini al tartufo, che gustavamo in uno dei ristoranti del paese. Le sue idee erano decisamente rivoluzionarie: «Non c’è socialismo che tenga, ripeteva sconsolato dal mio operaismo, se nel mondo nuovo che vogliamo costruire non si riesce a rompere con la cultura consumista e lavorista. Bisogna - concludeva - tornare a lavorare senza perdere il senso della vita, alternando otium e negotium». Da allora i concetti chiave di cultura contadina, filiera corta, rispetto delle stagioni, saperi e sapori, sono i punti cardinali delle mie scelte alimentari e di vita. Vuoi vedere - dicevo a Marina travolto dall’ansia - che dovrò rassegnarmi alla barbarie e alle tenebre della globalizzazione, quella che, almeno per ora, ha vinto e che sappiamo non ha globalizzato persone e diritti, ma solo resa libera la circolazione delle merci? Se penso che in castigliano andare al mercato si dice voy a hacer la plaza (vado in  piazza), espressione che ti fa pensare a relazioni generose, mi mette ansia pensarmi invece in uno dei tanti supermercati di Fuerte, dove perdi il senso del tempo e non sai se sei a Berlino, a Roma o a Nairobi. Che senso avrebbe avuto venire a cercare la qualità della vita a Fuerteventura?
 
Ma in poche settimane i miei dubbi sono svaniti e, insieme ad una maggiore conoscenza dello spagnolo, sono cresciute anche le scoperte delle tradizioni di Fuerte, della qualità eccellente dei suoi cibi. Non si può non cominciare dal pesce, che l’Oceano offre in abbondanza. Qui pescherecci e tecniche di pesca d’altri tempi lo prelevano con equilibrio. Non sono, in poche parole, arrivate le “corazzate” giapponesi, cinesi, coreane, che pescano di fronte, nella parte africana dell’Atlantico. Sul banco della Coperativa dei Pescatori o su quello di Juan, al mercato coperto di Morro, trovi a prezzi modestissimi quello che si pesca qui: tonnetti, barracuda, pesci martello, il dorado, il bocinegro, il sama, il fula, il merluzzo, le morene, giganteschi calamari. Scrivere di pesce come alimento base mi riporta alla mente gli splendidi pomeriggi con Laura Conti, quando, entrambi parlamentari, discutevamo, nei momenti di pausa, di ambientalismo scientifico sui divani della Camera. Se vuoi invecchiare bene e sano, mi ripeteva ogni volta, mangia selvatico, in particolare pesce, possibilmente crudo. Mi incantava quel suo modo di divulgare concetti scientifici, quasi come stesse raccontando fiabe a un bimbo.

L’altra proteina animale che l’isola offre abbondante è la carne di capra. E' la popolazione più numerosa di Fuerteventura  (qui vivono ben 35 diverse razze di capre). Le incontri ovunque, fin sulla spiaggia, disperatamente alla ricerca della poca vegetazione che il clima sub desertico dell’isola lascia crescere. Crescono e si riproducono allo stato libero e per riunirle si organizzano le apanadas: riunioni dei pastori che secondo un piano preparato se le spartiscono per poi, dopo averle marchiate, liberarle di nuovo. Nessuna filiera industriale ne fa strage, ma un misurato prelievo te le fa gustare in tutte le trattorie fritte o in umido.
 
E i vegetariani? La filiera corta canara è alimentata da una agricoltura sviluppatasi per secoli sulle terre rosse dell’interno dell’isola: oltre alla miracolosa Aloe Vera, che alimenta la fiorente linea naturale di cosmesi e prodotti farmaceutici, offre splendidi pomodori, zucche e  zucchine, cavoli, lenticchie e ceci, una lattuga croccante e come frutta banane, datteri, manghi e mandarini. Ho dimenticato il più tipico dei prodotti: l’aglio, che è alla base di ogni ricetta canara. Mi sono sempre chiesto perché gli spagnoli mangino tanto aglio, così come noi mediterranei mangiamo tanta cipolla. Ho scoperto il perché leggendo Cuochi si diventa il libro di ricette di Alan Bay che spiega che su 4.758 ricette di 36 paesi del mondo la cipolla compare nel 65%, seguita dal pepe 63% e col 35% dall’aglio. Questa presenza massiccia non si spiega solo per il sapore che conferiscono al cibo, ma anche per ragioni di sanificazione delle preparazioni. Infatti uno studio del 1998 sugli effetti antisettici e antibiotici dei trenta principali aromi, comparati ai trenta principali batteri che possono contaminare le preparazioni in tutto il mondo, ha scoperto che aglio e cipolla uccidono il 100% delle specie di batteri esaminati.

Il viaggio nel gusto lo faccio insieme a Marina e non può che cominciare nell’estremo sud dell’isola, alla Punta di Jandia. Veniamo accolti nel piccolissimo Pueblo dall’immancabile faro, da una grande pala eolica e da una ventina di casette fra cui vi sono due ristoranti nei quali si mangia il miglior “caldo de pescado” dell’isola. Vieni subito messo a tuo agio sulla qualità di ciò che mangerai dalla visione dei piccoli gozzi allineati sulla spiaggia, confermata dai piatti fumanti che  profumano di mare, che un improvvisato cameriere ci depone sul tavolo. Superato Morro Jable, che pullula di cemento e di ristoranti, quelli però della globalizzazione da lasciare ai turisti col bracciale del tutto compreso, si arriva al Marabù. Qui, un po’ di “globalizzazione respingente” la percepisci: dalla raffinatezza con cui sono apparecchiati i tavoli, dal modo cerimonioso e fin troppo servizievole con cui il personale ti accoglie e dal fatto che il cuoco è tedesco. Ben presto ne accetti la presenza, corrotto dalle delizie che vedi sui tavoli e dai profumi che sprigionano.
 
Si mangia solo pesce di giornata, che gli viene fornito da Juan, il pescadero del mercato coperto. Si apre con le le fantastiche salsine di mojo che vengono portate insieme al pane caldo, a cui, consiglio far seguire un antipasto a base di tentacoli di calamari fritti o rostbeaf di tonno e, come piatto forte, uno a scelta fra filetto di tonno, fetta di merluzzo con gamberi, barracuda, bocinegro o Sama in crosta di patate. I vini abbordabili non sono molti, ma con una decina di euro si può innaffiare il tutto con un malvasia robusto e fruttato dell’isola di Lanzarote, dove viveva Saramago. La versione popolare del Marabù è Ramon a Lajita. Dista solo una ventina di chilometri: tolto l’arredamento, le raffinatezze del servizio, il cuoco tedesco, gusti davanti al mare pesce freschissimo ad un terzo di quanto ti costa al Marabù.
 
Il viaggio prosegue e si ferma a Pozo Negro per gustare su una spiaggia di ciotoli lavorati dal mare la miglior paella dell’isola. Restano solo per completare il viaggio due fermate obbligatorie, entrambe italiane: Mamma Mia a Porto del Rosario e da Mario alla Scarpetta a Coralejo, che contende al Marabù la palma di miglior ristorante di Fuerteventura. Mi fermo a questa parziale fotografia. Ho trascurato tutta la parte interna, dove a farla da padrona è la capra, ma il racconto mi ha messo appetito e la testa è già al prossimo: uno sguardo sulla politica e le prossime elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Pajara, il mio primo voto spagnolo.