Ci ritroviamo con questo tipo di storie ogni due per tre. A volte proviamo a immaginare le persone al di là dei numeri, le realtà umane al di sotto delle astrazioni della superficie. Ma sono soprattutto le risposte a testimoniare i fallimenti del giornalismo e i nostri.
“La denutrizione provoca la morte di circa 5,6 milioni di bambini ogni anno,” ha detto un comunicato della Associated Press (AP) all’inizio del mese, riportando nuovi dati dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia. E ancora: “In questo rapporto l’UNICEF dichiara che un bambino su quattro al di sotto dei 5 anni, compresi 146 milioni di bambini dei paesi in via di sviluppo, è sottopeso.
Per i molti bambini che nasceranno nel prossimo decennio il futuro si presenta fosco. Come ha annotato AP, “il mondo non ha fatto uno sforzo minimamente sufficiente per ridurre della metà la fame prima del 2015”.
Leggendo queste notizie davanti a una lauta colazione, ho pensato ai limiti del lavoro giornalistico, che pure viene spesso condotto con le migliori intenzioni. Per quanto ci provino, i reporter e i redattori spesso non vanno oltre il tran tran da ufficio. La routine del giornalista è un ruota nell’ingranaggio dei media, che tratta le tragedie come altra merce da notizie.
Molte persone sono preoccupate dal delinearsi degli eventi negativi nel mondo. E la fame è fonte di particolari ansie: in un’era di eccezionale abbondanza per alcuni, l’assenza di nutrizione minima per un numero enorme di esseri umani è un’oscenità morale di base. Attraverso gli spettri della cultura, della fede e delle ideologie – sempre che i rimedi debbano trovarsi nella carità religiosa o nelle azioni governative – è molto comune il desidero dal profondo del cuore di ridurre la sofferenza.
I news outlet sono esperti nella produzione di storie forti sulle disgrazie. Queste storie potrebbero essere toccanti dal punto di vista emotivo o addirittura provocare una mobilitazione politica in termini aiuti umanitari. Ma la questione più importante delle priorità non sembra interessare ai media. In generale i giornalisti impiegati in un’azienda non sono molto più inclini a criticare il carattere distorto delle priorità nazionali e globali di quanto non lo siano i capoclan delle aziende o degli ufficiali governativi.
In un mondo in cui coesistono così tanta ricchezza e povertà, il mantenimento di uno status quo iniquo dipende da un senso di proprietà che confina – e addirittura si interseca – con una criminalità morale, se non addirittura pratica. Le realtà istituzionali del potere possono intorpidirci nel nostro senso personale di distinzione tra ciò che è semplicemente accettabile e ciò che non lo è.
Nel 2006 sulla terra non esiste un contrasto maggiore del divario tra la fame umana e le spese militari. Mentre le agenzie internazionale di aiuti riducono i già scarni budget sul cibo a causa dell’insufficienza dei fondi, la prodigalità verso gli armamenti e la guerra continua ad essere grottescamente generosa. Il maggior responsabile mondiale è il governo degli Stati Uniti che, all’attuale tasso di spese portato alle stelle – se si aggiungono tutti i budget standard e le assegnazioni ‘integrative’ per la guerra – si trova vicino al momento in cui le sue spese militari raggiungeranno i 2 miliardi di dollari al giorno.
Questo è ciò di cui parlava Martin Luther King Jr. nel 1967, quando ammoniva: “Una nazione che continua anno dopo anno a spendere più soldi per la difesa militare che per programmi di miglioramento sociale si sta avvicinando alla morte spirituale”. Un tale evento non è improvviso, si impadronisce di noi e diventa parte di uno scenario di normalità.
Il giornalismo, nelle sue incarnazioni più comuni, ha un forte tendenza a mescolarsi a questo scenario. E sia che si lavori in una redazione o si guardi in salotto o si legga durante la colazione, ci vuole un atto cosciente di volontà per guardare alla foto grande – e sfidare le priorità regnanti che sono simultaneamente vere e orrende.
Siamo incoraggiati a vedere il giornalismo di alta qualità come spassionato, in cui i professionisti fanno il loro lavoro senza perorare. Ma l’accettazione passiva di priorità omicide dentro di noi è di fatto una forma di perorazione. È perorazione del tipo più convincente – con l’esempio.
Il vecchio cliché dice che il denaro fa girare il mondo. Si può discutere fino a che punto è vero. Ma ci sono questioni più profonde che si imperniano sulle priorità che dovrebbero determinare profondamente le scelte importanti fatte dagli individui e dalle istituzioni. Il giornalismo non può rispondere a queste domande: dovrebbe farle.
Di Norman Solomon Nuovi Mondi Media ha pubblicato‘MediaWar. Dal Vietnam all'Iraq, le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra'.
Fonte: http://www.commondreams.org/views06/0516-35.htm
Tradotto da Elena Mereghetti per Nuovi Mondi Media