Marcel Jousse dallo stile orale alla musica delle cose
di Antonello Colimberti - 25/05/2006
Fonte: Antonello Colimberti
Marcel Jousse dallo stile orale alla musica delle cose:
un precursore della musica ambientale e della musica concreta:
L'Histoire de mon œuvre est celle de ma Vie
L'Histoire de ma Vie est celle de mon œuvre.
Marcel Jousse
1. Le premesse
L'epigrafe, tratta dalla ampia biografia di Gabrielle Baron[1], allieva e collaboratrice del padre gesuita francese Marcel Jousse (1886-1961), offre la chiave di lettura per la presentazione di un autore fondamentale, ma difficile quant'altri mai nella storia del Novecento.
Un elemento immediato di difficoltà è nell'avvicinarsi ad un autore che ha fatto dello Stile orale e dello Stile globale non soltanto il proprio oggetto di studio, ma anche il proprio metodo di lavoro.
Consapevole dell'inevitabile mutilazione che comporta, allo studioso attuale non resta che avvicinarsi a Jousse attraverso quello Stile scritto da lui tanto relativizzato.
Fortunatamente è possibile risalire molto lontano nel percorso attraverso il pensiero del nostro autore, in quanto si possiede la traccia autobiografica, estratta da un corso tenuto da Jousse alla Sorbonne su L'invention scientifique il primo febbraio del 1934, pubblicata nell'Introduzione di Baron alla nuova edizione dell'Opus.[2]
In questo corso Jousse mostra le diverse fasi di avvicinamento (<<prima infanzia>>, <<primi studi>> e <<studi classici>>) a quella sintesi costituita dall'Antropologia del Gesto e del Ritmo, fondata su una pedagogia <<teatrale>>.
La posta in gioco della sua <<recherche>> è esplicitamente indicata: <<Ciò che si cercava in me, senza che fosse realmente elaborato, era il grande principio che avrei trovato più tardi: il Linguaggio è anzitutto Mimaggio. È mimodramma quando si trova allo stato di gesto vivente, è mimogramma quando è proiettato e inciso su una parete, ed è fonogramma quando lo scriviamo pronunciandolo.
<< In me sorgeva, per così dire, una specie di collegamento tra due idee, ma senza di me, a mia insaputa, e mi avrebbe presto dato i primi due stadi dell’espressione che sto studiando attualmente alla Scuola di Antropologia: lo stadio dello Stile corporale-manuale, gesto espressivo vivente o mimodramma che, proiettato in ombre cinesi mimiche, una volta stabilizzato su una parete forma dei mimogrammi. E, successivamente, il passaggio di questi gesti sotto forma di radici orali, laringo-boccali, che si svilupperanno fino a diventare un mezzo di comunicazione, che darà lo stadio dello Stile orale.
<<Poi vedremo tutto questo concretismo terminare con una sorta di algebrizzazione e avremo lo Stile scritto>>[3]
Alla fase della prima infanzia appartengono innanzitutto quelle cantilene che Jousse apprende dalla madre, dotata di una memoria straordinaria.. Quelle prime sensazioni di ritmo bilanciato lo formeranno prima della nascita della coscienza e lo segneranno di poi per tutta la vita. Intanto la costante inclinazione <<scenico-rappresentativa>> (o di Stile globale, corporeo-manuale, come la chiamerà in seguito il Nostro) emerge già nel descrivere questo primordiale momento: <<una frase che non si dondola non solo disturba la respirazione come sosteneva Flaubert, ma disturba l’intero organismo. La grande forza di convinzione di un uomo risiede nella sua capacità di abbracciare il proprio uditorio e cullarlo come una madre culla il suo bambino. Siamo sostanzialmente esseri cullati e dondolanti>>.[4]
La seconda esperienza fondamentale della prima infanzia è costituita dalle veglie contadine, cui lo conduce la madre intorno ai cinque o sei anni, nei pressi di Beaumont-sur-Sarthe, suo villaggio natale. Già formato dalle cantilene materne, viene subito catturato da quelle specie di melopee salmodiate da quei contadini illetterati che si radunavano. Quello che lo colpiva era soprattutto l'esigenza di esattezza della tradizione, ma anche la spaventosa quantità dei contenuti appresi e conservati mediante la mnemotecnica. Il contatto con un ambiente di illetterati dischiude a Jousse un tipo di sapere che non dimenticherà più: <<Gli analfabeti possono essere straordinariamente intelligenti. È presso di loro che è nato il mio gusto per l’osservazione della realtà. Quando ero molto piccolo andavo a passeggio con quei contadini che ho tanto amato, e che vado a trovare per conservare il mio metodo sperimentale. Mi meravigliavo allora del loro sapere pratico. Non sapevano sicuramente declinare: rosa[5], la rosa, ma conoscevano le diverse specie di grano, d’orzo, d’avena, conoscevano le diverse specie di erba buona e cattiva. Avevano per indicarle bei nomi, quei nomi che trasformiamo in poemi nelle nostre civiltà libresche. Tutto questo vive in seno alla terra, nella sua linfa, nel vento e sotto il cielo. Questo costituisce la vera pedagogia dell’uomo vivo e concreto, a contatto con le cose>>.[6]
L'ultima esperienza fondamentale della prima infanzia è quella dei giochi infantili alla scuola materna, nei quali scopre lo stupefacente successo dei bambini nel giocare a tutte le cose, sfuggendo a tutte le costrizioni.
In seguito, comincia per Jousse l'epoca dei primi studi, che lo introducono brutalmente ad un nuovo tipo di sapere, quello dell'alfabetismo.
Alla scuola elementare, ciò che lo colpisce è innanzitutto la discrepanza fra la deprivazione sensoriale (silenzio, immobilità), che caratterizza l'apprendimento all'interno dell'istituzione scolastica, e la sovrastimolazione sensoriale (rumore, movimento) che istintivamente elaborano i fanciulli come propria strategia d'apprendimento.
Ma è un dettaglio ad intrigarlo ancor di più: il <<soufflage>>, procedimento mediante il quale un compagno di scuola suggerisce la parola iniziale a chi non ricorda bene una proposizione o un verso. Ma è lo stesso procedimento che Jousse scoprirà in alcuni ambienti etnici , a cominciare da quello semitico, come legge di concatenamento delle frasi: <<Questo piccolo ‘soffio’ è carico di un’intera dottrina. Il fatto è che la proposizione forma una totalità. In quel soffio risiede l’origine della sensazione del ‘gesto proposizionale’ che nasceva in me. Non è la parola, ma la proposizione a costituire l’unità di misura. Pertanto, una volta suggerito l’inizio si procede automaticamente fino alla fine>>.[7]
Oltre al soufflage, l'altra scoperta, o meglio riscoperta, importante che Jousse compie nella scuola elementare è quella del balancement, procedimento mediante il quale il bambino per aiutarsi nella ripetizione di una proposizione o di un verso, si dondola. Anche questo procedimento sarà ritrovato in vari ambienti etnici: <<È curioso. Osservatelo recitare. Si dondola. Solo il bambino? Ma osservate dunque gli Ebrei presso le vecchie mura di Gerusalemme che dondolano ancora i loro famosi Lamenti! Andate a veder recitare il Corano, lo troverete dondolato e salmodiato dappertutto. Osservate quelli che parlano in pubblico. Di solito diciamo che ‘fanno l’orso’. Di fatto scolpiscono le proprie frasi tentando di dondolare i muscoli>>.[8]
Ma il nuovo e decisivo evento, che decide una volta per tutte la vocazione di Jousse, si compie fuori delle aule scolastiche: il colpo di fulmine per una mummia egiziana! Un giorno la madre lo conduce con sé al museo della Prefettura di Mans a visitare la mummia di cui aveva parlato il maestro di scuola. Dinanzi al corpo immobile e ben conservato della sacerdotessa egiziana il Nostro ha un'illuminazione, così descritta da lui stesso: <<Sono rimasto lì pietrificato, forse per due ore, davanti a quel piccolo viso morto, quel piccolo corpo rinsecchito con le mani incrociate sul petto. M’ha fatto un’impressione straordinaria perché c’erano tutt’intorno piccoli disegni immobili che formavano una specie di piccola processione. Allora mi è venuta l’idea che mi ha ossessionato e che continuo a perseguire: tutti quei piccoli disegni dipinti intorno al sarcofago erano stati forse vivi, come era stata viva la sacerdotessa che giaceva lì imbalsamata? Chissà se quei ‘caratteri’ che stavano lì immobili erano stati vivi, come i nostri giochi infantili? Intorno a quella donna rigida e imbalsamata non c’era forse un gioco di uomini che facevano gesti come quelli dei bambini?
<<Sono stato ossessionato da questo paragone: avevamo a che fare con dei segni morti che erano stati vivi, come avevamo a che fare con una sacerdotessa morta che era stata viva. Ne sono stato del tutto ossessionato>>.[9]
Conclusi i primi studi, si apre per Jousse la fase degli 'studi classici', durante i quali la prima esperienza importante gli è offerta dai professori di greco che lo iniziano allo studio della lingua mediante l'apprendimento delle radici linguistiche. L'intuizione del Nostro è immediata. <<A un certo punto mi sono detto: ‘È strano, quelle radici greche sono sempre una specie di gesti vocali. Avete un suono? Ebbene esso ha sempre un senso. Vuole dire: prendere, grattare, spingere, ecc., esattamente come i piccoli gesti o disegni che vedevo intorno alla mia mummia… Non sarà possibile fare per le parole, il paragone che ho fatto per quei piccoli disegni?>>.[10]
La scoperta del <<gesto vocale>> sotteso alle radici greche trova poi una conferma e un'applicazione nei testi omerici, nel cui apprendimento a memoria rinviene uno schema ritmico fatto di due dondolamenti (balancements), gli stessi che troverà nello Stile orale biblico. Oltre ad Omero, Jousse trova una conferma del <<gesto vocale>> persino nei retori greci, maestri del periodo oratorio, che non avrebbero fatto che elaborare, sebbene in un modo un po' troppo libresco, il grande dondolamento congenito.
Nella stessa epoca il Nostro ha l'occasione di conoscere, spinto dall'amore per la mummia egiziana, la grammatica di Champollion, dove trova una parola per lui estremamente rivelatrice: carattere mimico, termine che stava là come in attesa di quel sistema esplicativo che più tardi sarebbe stato la 'legge del Mimismo'
Ma insieme con le radici greche, ancora pregne di gesti vocali, ecco la scoperta dell'algebra, con la sue lettere che possono voler dire qualunque cosa. Il problema del passaggio dal gesto mimico all'algebra lo spingerà, all'età di vent'anni, a progettare una pubblicazione intitolata Du concrétisme à l'algébrisme.
Nel corso degli studi classici, Jousse, oltre ad Omero, viene a conoscere, spinto dal desiderio di pronunciare le parole stesse di Gesù, i Targum, ossia le traduzioni della Tôrâh ebraica insegnata e appresa oralmente nella lingua popolare, l'aramaico. L'apprendimento a memoria, tanto di Omero che dei Targum, gli rivela ancora una volta, oltre al dondolamento, la preminenza della proposizione sulla parola, anzi del <<gesto proposizionale>>, termine che più tardi sarebbe stato al centro di quel sistema esplicativo che più tardi sarebbe stato la <<legge del Formulismo>>: <<quella sensazione di frase stereotipata che più tardi avrei chiamato ‘cliché’ o ‘formula’, l’avevo notata anche sulle labbra di mia madre. Nelle cantilene della Sarthe o nelle parabole evangeliche che mi cantava, ritrovavo spesso le stesse formule.
<<Formata da sua nonna analfabeta, mia madre conosceva il vangelo a memoria. È ancora una volta lei che ritrovate nelle mie ricerche. Da bambino ho provato una grande curiosità per Gesù di Nazareth. Quello che mi attirava in lui era l’insegnamento che aveva portato e che mia madre mi cantava. Ho ancora la sua cara voce, non nelle orecchie, ma nella bocca, nella gola recitante...
<<Tutte quelle declamazioni mi hanno fatto sentire nella mia stessa bocca recitante, che ci trovavamo di fronte a qualcosa di analogo alle composizioni olofrastiche di Omero, e che tutti coloro che recitavano l’Antico e il Nuovo Testamento si esprimevano in ‘formule’ etniche molto somiglianti alle declamazioni delle nonne di Sarthe. E così si è elaborato in me quello che poi è diventato lo stile orale>>[11].
A questo punto, i materiali di elaborazione ci sono tutti, al completo. Non resta più che di stabilire il piano, dividendo in serie organiche il lavoro di tutta una vita, che non ha al suo centro che una sola idea: il Mimismo e la sua algebrizzazione (algébrisation). Il grande principio tanto cercato è finalmente giunto all'elaborazione, come riassume l'autore stesso: <<Allora, tra i 15 e i 20 anni, lentamente si sono elaborate le tre fasi dell’espressione umana: cioè lo Stile corporale-manuale, lo Stile orale, lo Stile scritto, con in seguito l’Algebra.
<<È a partire da questi tre punti che ho catalogato nello Stile corporale-manuale i giochi infantili, i ‘caratteri mimici’ della mia piccola mummia, i mimodrammi e i mimogrammi che allora non indicavo in quei termini poiché ho forgiato il mio proprio vocabolario lentamente. Nello Stile orale trovavano posto tutte le declamazioni di mia madre, le parabole che melodiava dondolandosi, le cantilene delle nonne e dei contadini di Sarthe, i recitativi di Omero, ecc. Nello Stile scritto erano classificate le produzioni letterarie dei nostri grandi scrittori secondo le diverse epoche. Quindi l’Algebra e tutto ciò che, successivamente, avrei fatto dal punto di vista meccanico in quanto ufficiale d’artiglieria all’epoca in cui ero attratto dagli studi di astronomia, poiché anche la matematica esercitava su di me il suo fascino>>.[12]
A partire dal momento in cui il piano di ricerca è stato stabilito, incomincia il periodo della verifica attraverso letture e studi specializzati: <<Ho scelto degli studi di fisiologia che mi avrebbero spiegato le leggi di quel Mimismo che avevo osservato nel bambino e nell’adulto, e di psicologia, che mi avrebbero fornito una sorta di elaborazione intellettuale di quel Mimismo. È così che ho scoperto la Psychologie de la Conduite de Pierre Janet e il Schéme moteur di Bergson. Evidentemente è a questi due uomini che devo di più, per quanto riguarda la verifica. L'etnografia con Marcel Mauss mi avrebbe dato tutto ciò che attiene al montaggio delle diverse tappe dell'espressione gestuale e orale. In me tutto si ammucchiava alla rinfusa, ma secondo il mio piano tripartito e ogni cosa faceva luce sull’altra>>.[13]
2. Lo stile orale.
Le letture e i corsi seguiti gli permettono di comprendere meglio i resoconti degli ufficiali coloniali e dei missionari di tutte le parti del mondo, che avevano riportato fatti di Stile corporale-manuale e di Stile orale senza conoscerne le leggi. Nonché di comprendere meglio quanto a lui stesso osservato quando nel 1917, inviato in missione militare negli Stati Uniti, era potuto penetrare in alcune riserve di quegli Indiani di quali si perseguiva sistematicamente la scomparsa e che guardavano ai loro dominatori bianchi con fredda ironia. L'osservazione partecipante di questo ambiente etnico gli suggerirà riflessioni di ampia portata: <<È così che ho potuto constatare la corrispondenza viva che esiste tra i gesti mimici significativi dei Sumeri, degli antichi Egizi e degli Indiani, e persino dei Cinesi di oggi i quali, per fortuna, nei loro ‘caratteri’ e malgrado le trasformazioni subite attraverso le varie epoche, hanno conservato al massimo il disegno della cosa mimata>>.[14]
Qui termina il racconto dell'Autore. Una recente biografia non ha esitato ad accostare la sua <<recherche>> con quella più nota di Marcel Proust, rilevandone profonde assonanze: <<Le esperienze di Marcel Proust, consegnate alla sua Recherche du Temps perdu, sono abbastanza vicine alle prese di coscienza di Marcel Jousse. Per l’uno come per l’altro, noi assorbiamo il mondo circostante con tutti i nostri sensi: le forme, i volumi, la luce e la sua azione trasformatrice, ma anche gli odori e il sapore del cibo. Siamo un po’ alla volta come pervasi da tutti gli appigli della realtà che ci circonda; appigli che sono sepolti nel profondo del nostro essere e che la nostra volontà non può sempre liberare a suo piacimento. Il racconto della piccola madeleine che, nel suo contatto col palato, fece trasalire l’autore e risveglio un ricordo lontano, ci prova che il corpo assorbe tutto ciò che lo circonda senza che ne abbiamo coscienza>>.[15]
Compimento della verifica del piano, l'opera Le Style orale rythmique et mnémotecnique chez les verbo-moteurs appare nel 1925 negli Archives de Philosophie, pubblicati da Beauchesne. Rapidamente esaurito, resta nell'opera complessiva di Jousse il suo primo e unico testo nonché il fondamento stesso della sua carriera scientifica. Tuttavia questo libro, frutto di vent'anni di ricerche, non è che una piccolissima parte di quella sintesi generale denominata Antropologia del Gesto.
Il perché di questo punto di partenza è spiegato dallo stesso Jousse durante un corso orale: <<Ho iniziato le mie pubblicazioni con lo Style oral nel 1925 poiché a quell’epoca le ricerche scientifiche erano orientate alla problematica del linguaggio. Sebbene sia considerato oggi colui che ha scoperto lo Stile orale, più esattamente ho scoperto l’Antropologia del gesto, che in altri termini sarebbe l’Antropologia del Mimismo che deve servire da fattore comune all’intera mia opera. Lo Stile orale, con i suoi procedimenti mnemotecnici entra in gioco solo dopo l’appropriazione totale d’informazione da parte dell’uomo che la rigioca attraverso il suo intero essere mimico>>.[16]
Con Le Style oral Jousse realizza il progetto benjaminiano di realizzare un'opera composta di quasi sole citazioni, pur consapevole dei limiti di una erudizione che si contenta di una cultura puramente libresca. <<Un uomo che fa un libro con dei libri non porta nulla di nuovo e lo dichiaro tanto più volentieri in quanto il mio primo libro, Le Style oral, è interamente composto da citazioni>>.[17]
Ma seguiamo l'autore stesso nella descrizione del suo metodo di composizione dell'opera: <<Ammettendo di poter rappresentare la realtà sotto forma di un cerchio, avevo, a forza d’osservare, ‘intussuscepzionato’ la realtà in me. A partire da quel momento, sono andato nei libri, per vedere ciò che altri ricercatori avevano visto sulla questione. Ho letto circa 5000 opere. Ne ho trattenute 500 ed ho scelto in quei 500 volumi le frasi che sembrano meglio aderire alla realtà, per lo meno alla realtà così come l'avevo ricevuta nei miei mimemi. Così, ho preso nel tale libro la tale frase che coincideva con la mia realtà, ho preso tale altra con lo stesso criterio. E un gran numero di punti del mio cerchio, certo non tutti, sono stati toccati dalle frasi degli autori che avevo letto.
<<Direte che ho plagiato gli altri e fatto un libro con dei libri? Nient’affatto. Eppure è un libro quasi interamente fatto di citazioni. Ma credete forse che se non vi fosse stata realtà in me, il mio libro avrebbe avuto una tale ripercussione? Avrebbe fatto ciò che fanno molti libri: silenzio! Alcuni teologi vi si sono ingannati. ‘Ma non vi sono altro che citazioni lì dentro!’ E tuttavia il mio Style oral impedisce loro di dormire, perché è ormai impossibile pensare il Rabbi Ieshoua di Galilea come lo si pensava prima, perché la realtà che avevo in me ha giocato: la realtà e il suo collegamento logico>>.[18]
Fin qui l'autore. Ma Gabrielle Baron aggiunge qualcosa di prezioso: <<Nel metodo di composizione di quest’opera Jousse perseguiva un altro scopo. Far percepire sperimentalmente che è possibile, attraverso una manipolazione personale di citazioni -diciamo pure di 'formule'- di autori differenti, portare del nuovo. Nei suoi lavori successivi <...> Marcel Jousse metterà in rilievo quel fenomeno proprio ai Compositori di Stile orale, quello che chiamerà la ‘legge del Formulismo’ che segna un passo avanti illuminante nello studio della composizione dei Vangeli. Si capisce che, diventato prete e gesuita, tale questione gli stava particolarmente a cuore>>.[19]
Dalle parole di Baron si evince che il <<montaggio letterario>>, per usare un'espressione benjaminiana, è per Jousse uno strumento per utilizzare la scrittura secondo le leggi dello Stile orale, anziché quelle dello Stile scritto.
L'altra vera novità è contenuta nel sostantivo del titolo dell'opera, perché il termine <<stile orale>> non esisteva neppure. Si parlava all'epoca di <<tradizione orale>>, ma ci si riferiva più all'impersonalità della trasmissione (il <<si dice>>), che non alla parola ricevuta, memorizzata e trasmessa esattamente (la <<tecnica del corpo>>).[20]
La combinazione del metodo con l'oggetto producono un effetto straordinario sugli ambienti culturali dell'epoca.
Valga come illustre esempio la testimonianza del filosofo Maurice Blondel: <<Per quanto riguarda Marcel Jousse, amo la forza del suo metodo personale che gli consente di trovare ovunque il proprio tornaconto e di mostrare che i risultati acquisiti e organizzati da lui erano già virtualmente ottenuti da altri che enunciavano fatti e verità frammentari senza sapere abbastanza di quale verità complessiva si trattasse... Oserei aggiungere che a mio parere Marcel Jousse ha persino più ragione di quello che pensa lui stesso...
<<I fatti raccolti e raggruppati da Marcel Jousse sono molto illuminanti, grazie alla luce che si rimandano l’un l’altro nel proprio piano. Ma con la loro stessa luce toccano molti più problemi di quanto appaia a prima vista e contribuiscono a porne di nuovi pur precisando quelli vecchi>>.[21]
3. La musica delle cose.
Alla concezione di Jousse si addice il termine greco di <<mousiké>> nella sua primitiva accezione: <<Il termine greco dal quale è derivato il nome stesso di 'musica', mousiké (sc. techne, ‘l'arte delle Muse’) definiva, ancora nel V secolo a. C., non solo l'arte dei suoni, ma anche la poesia e la danza, cioè i mezzi di trasmissione di una cultura che fino al IV secolo a.C. fu essenzialmente orale, una cultura che si manifestava e si diffondeva attraverso pubbliche esecuzioni nelle quali non solo la parola, ma anche la melodia e il gesto avevano una funzione determinante. Il compositore dei canti per le occasioni di festa, il poeta che cantava nei conviti, l'autore di opere drammatiche erano i portatori di un messaggio proposto al pubblico in una forma allettante e quindi persuasiva proprio attraverso gli strumenti tecnici della poesia, quali le risorse del linguaggio figurato e traslato e l'armonia dei metri e delle melodie che ne favorivano l'ascolto e la memorizzazione: non è casuale che nel V e nel IV secolo a.C. Mousikòs anér designasse l'uomo colto, in grado di recepire il messaggio poetico nella sua completezza>>.[22]
Sulla primitiva mousikè si abbatté però ben presto il furor mensurandi pitagorico, come segnala lo storico della scienza de Santillana: <<La matematica pitagorica va insieme con la creazione di quell'ideale di cultura che i Greci chiamavano mousikè indica una unione di logo, melodia e movimento... Le vere potenze della natura vengono definite come armonia e proporzione.
<<Il numero è in marcia, forza autonoma, non elemento come l'aria e l'acqua, ma vero principio, che vive di vita propria; e ciò è profondamente giusto, perché esso rappresenta le leggi del pensiero.
<<È così che la fisica stessa diventa mousikè e l'astronomia torna a essere l'Ars regia che era sempre stata>>.[23]
Jousse ripercorre consapevolmente il cammino inverso: <<Porto dentro di me un grosso lavoro sull’antropologia dell’espressione umana dal ‘concretismo’ fino all’,algebrismo’. Contavo di dedicarmi all’astronomia. L’astronomia mi ha indotto a porre il problema dell’algebra: come si è arrivati a non pensare più se non in termini di x,y,z? allora, sono sceso di meccanismo in meccanismo e sono arrivato al linguaggio dei gesti, che è all’origine dell’espressione umana e dunque di tutte le liturgie, e che mi ha fatto comprendere l’espressione mimodrammatica dei profeti e dei popoli rimasti spontanei. Ecco il grande sistema di ricerche al quale mi applico>>.[24]
Per comprendere le valenze profonde può essere opportuno riesaminare uno dei più imponenti trattati medievali di argomento musicale, il De Musica di Agostino d'Ippona, tenendo ben presente che in epoca medievale continua a tramandarsi una accezione allargata del termine <<musica>>.[25]
Da una parte Agostino, in cui l'antica mistica del numero di ascendenza pitagorica viene a fondersi con la nuova mistica cristiana: <<Il discorso sui numeri viene ripreso nel VI e ultimo libro che rappresenta il coronamento della sua estetica musicale e che rimarrà come uno dei pilastri del pensiero musicale del Medioevo cristiano.. Agostino in quest'ultima parte della sua opera si pone il problema di delineare una specie di gerarchia di numeri-suoni in relazione al principio che l'anima non può mai essere sottomessa al corpo e che il corpo agisce solo se sollecitato da un moto dell'anima. L'anima perciò si manifesta nel suo movimento cosciente e razionale verso il corpo; movimento significa per l'appunto numero, relazione misurabile. Il moto cosciente dell'anima non può essere che un moto ordinato. Il numero è connesso con l'anima, cioè con il mondo immateriale e incorporeo. Se la musica è essenzialmente un movimento ordinato e misurabile bisogna concludere allora, seguendo il filo del pensiero agostiniano, che la sua sorgente è tutta interiore e solo secondariamente e in modo accessorio la musica, e quindi i numeri, diventano 'sonanti'. Tutta la complicata argomentazione di Agostino tende a dimostrare che la musica vera e propria non è che 'un 'operazione dell'anima>>.[26]
Dall'altra Jousse, secondo cui il numero, come la scrittura, da semplice strumento mnemotecnico, diviene nel corso del tempo un principio di <<algebrosismo>>: <<Con il principio dei giorni infatti, cominciano i numeri. Si sa quale ruolo sempre più grande, sempre più invadente, perché più coscientemente mnemotecnico, questo computo dei numeri, delle frasi, delle parole e delle lettere-cifre ha svolto presso i ‘sêferisti’ palestinesi, quegli sconcertanti contatori-meccanici degli atomi testuali. Nella Tôrâh tutto è pesato, tutto è contato, tutto è misurato. La conclusione fatale doveva essere la gemàtria, o meglio, la grammàteia, quel ‘letterismo’ (lettrisme) aritmeticamente metafisico>>.[27]
Ma soprattutto, il mimismo, fondamento del pensiero di Jousse, è risolutamente respinto dalla concezione radicalmente anti-mimetica che Agostino eredita dalla tradizione neoplatonica: <<(Per Agostino, ndr.) vi è dunque una determinata gerarchia nell'esercizio dell'arte musicale. Al gradino più basso si ha la musica a livello istintuale come nel canto dell'usignolo; ad un grado un po' più alto abbiamo i suonatori di strumenti , perché questi ultimi procedono 'secondo un'arte che hanno imparato' mentre nell',usignolo non c'è che istinto'. A livello dei suonatori di strumenti la musica è imitazione , cioè imitazione di maestri che insegnano a suonare; ma Agostino rifiuta categoricamente che la vera arte sia imitazione. L'imitazione è riservata anche ad esseri privi di ragione, come gli animali e anche se 'molte arti si basano sull'imitazione' ciò non vuol dire che l'arte sia 'imitazione di per sé'. L'arte nel senso proprio della parola e quindi a maggior ragione la musica, in quanto arte è unicamente scienza e non ha nulla a che spartire né coi sensi e neppure con la memoria, qualità che sono entrambe presenti negli animali .Così l'agilità delle dita propria ai suonatori appartiene solo al corpo e non allo spirito; l'essere un buon esecutore è perciò del tutto indipendente dal possedere la scienza della musica. Tra lavoro come esercizio pratico e scienza come conoscenza del medesimo esercizio vi è dunque secondo la concezione agostiniana, ereditata dalla civiltà greca ,una totale frattura: gli istrioni 'non conoscono la musica'; la conoscenza della musica è solamente scienza 'bene modulandi’>>.[28]
Ancora una volta Jousse, anticipando di decenni gli studi e le pratiche della musica ambientale, nonché quelle della musica concreta[29], rovescia la prospettiva: prima il rumore delle cose, poi gli strumenti musicali, soltanto in ultimo le gamme sonore:
<<Siamo morti dal punto di vista del ‘mimismo-fonetismo’. I mille e un rumore della natura ci sono divenuti inudibili.
<<Perché? Perché, per molti di noi la musica ha meccanizzato il nostro udito. Abbiamo irreggimentato la realtà sonora nelle nostre gamme