Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Una sconosciuta epopea missionaria: l’evangelizzazione dell’Okawango

Una sconosciuta epopea missionaria: l’evangelizzazione dell’Okawango

di Francesco Lamendola - 27/12/2010





Un uomo sta agonizzando, su un giaciglio, nella capanna di uno sperduto villaggio africano, in una regione arida e selvaggia, lontanissima dal mondo civilizzato; sa di essere giunto alla fine della vita, ma non ha rimpianti: solo l’amarezza di sentirsi sconfitto, di non essere riuscito nell’audace tentativo di portare la croce di Cristo fra le ultime tribù pagane dell’Okawango.
È un missionario cattolico, il padre Lauer, tedesco: ha lasciato la sua verde Germania per venire a spegnersi in quest’angolo dimenticato del mondo, dove a una stagione arida, in cui si muore di sete, succede una stagione piovosa, in cui le acque inondano tutto, trasformando la steppa in una impraticabile palude.
I suoi due compagni, insieme ai quali era partito, mesi prima, dalla base di Windhoek, sono già morti; e adesso toccherà a lui, che, scosso dalle febbri, denutrito, esausto, sente avvicinarsi l’ultima ora in totale solitudine; o meglio, circondato da indigeni che spiano i suoi ultimi respiri per derubarlo, né cessano di minacciarlo e di insultarlo: proprio coloro ai quali egli era venuto per annunciare una parola di pace e di amore universale.
Con la sola compagnia del suo diario, al quale affida i suoi pensieri e sul quale, con mano sempre più debole e, quindi, con calligrafia ognora meno leggibile, traccia le estreme annotazioni della sua vita mortale, il padre Lauer, un giovane vigoroso che gli stenti e le fatiche hanno repentinamente trasformato in un vecchio dal fisico distrutto, affida la propria anima a Dio.
È il 28 marzo del 1909, nella località di Andara; la piccola carovana dei missionari oblati si era mossa nel novembre precedente: il loro dramma è durato appena cinque mesi e si è consumato nel più assoluto silenzio, lontano da ogni conforto e da ogni voce amica.
Sembra, sul momento,  che il sacrificio di quegli uomini sia stato vano, e questo pensiero ha reso ancora più amara la loro fine; e invece esso servirà a spronare altri loro coraggiosi confratelli, i quali, finalmente - al decimo tentativo - riusciranno a raggiungere il fiume Okawango e, poco dopo, anche le regioni ancora inesplorate dell’Ovamboland, presso il fiume Cunene, al confine con l’Angola portoghese.
I missionario dell’ordine degli Oblati di Maria Immacolati erano attivi in tutti i continenti extraeuropei: nelle Americhe (Canada, Stati Uniti, Brasile, Uruguay, Argentina); in Africa (Camerun, Congo, Sud Africa); in Asia (Ceylon, Laos, Filippine); e infine in Australia. In alcune di queste missioni erano stati i primi cristiani, anzi, i primi europei ad entrare in contatto con genti che non avevano mai visto prima degli uomini bianchi; i loro campi d’azione preferiti, infatti, erano le popolazioni che, allora, si chiamavano “selvagge” e non quelle che, civilizzate da secoli, seguivano altre religioni “superiori”.
Alla fine del 1800 e ai primi del 1900, dunque, gli oblati stavano gettando, fra le altre cose, le basi per una profonda azione missionaria nell’interno semisconosciuto dell’Africa Sud-Occidentale Tedesca, che il cancelliere Otto von Bismarck, precedendo di pochi giorni un’analoga intenzione del Foreign Office britannico, aveva proclamato protettorato germanico nel 1884, sulla scia dell’azione - invero tremendamente priva di scrupoli - di un commerciante di Brema, F. A. E. Lüdertiz, sbarcato ad Angra Pequeña l’anno prima.
In quella regione erano già attivi, ma solo nella parte centro-meridionale, i missionari protestanti di confessione luterana. Ricordiamo che il Reich era uno Stato, all’epoca, per almeno due terzi luterano e solo per un terzo cattolico; e che proprio contro la Chiesa cattolica tedesca il “cancelliere di ferro” aveva scatenato la durissima «Kulturkampf» («battaglia per la civiltà», svoltasi fra il 1872 e il 1887), ragion per cui i missionari cattolici non erano ben visti nemmeno dal proprio governo (per non dire degli altri governi delle colonie europee, come testimonia la vicenda dell’alsaziano Albert Schweitzer nell’allora Congo francese, internato durante la guerra 1914-18 come pericoloso cittadino nemico).
Così rievoca quella pagina ardimentosa e pressoché sconosciuta della evangelizzazione delle estreme terre settentrionali dell’Africa Occidentale Tedesca, tra la fine del XIX secolo e il principio del successivo, il padre Gaetano Luzzio, degli Oblati di Maria Immacolata, nel suo libro «Missionari di tutti i climi» (S. Giorgio Canavese, propaganda Missionaria, 1946, pp. 140-45):

«Giungendo in questo immenso territorio di mezzi milione di chilometri quadrati[ossia il Vicariato apostolico di Windhoek], con al massimo 200.000 abitanti appartenente a un dedalo d razze, gli Oblati avevan da occuparsi dei bianchi cattolici e degli indigeni pagani.
Sbarcati nella zona di Swakopmund il 5 settembre 1896, giunsero con un carro trainato da 22 buoi, il 13 dicembre, dopo 32 giorni di viaggio, alla capitale del Sud-Ovest, Windhoek
Il Governo dà loro una collina con tre ettari d terreno sassoso, e lì fondano la prima missione. Improvvisano una cappella larga un metro (!) con un campanile costituito da una campana sospesa a… due pali; scavano nella roccia, a forza di dinamite, un pozzo di otto metri, indispensabile per l’acqua da bere e per l’irrigazione del giardino che creano dal nulla, dissodando la terra sassosa non smossa da secoli.
E si inizia il lavoro missionario, ma, purtroppo, solo per i bianchi. Con lo specioso motivo che la presenza di due confessioni cristiane fra gli indigeni darebbe luogo a torbidi, il governo lascia la zona meridionale in mano ai ministri protestanti già presenti da una quarantina d’anni; mentre ai missionari cattolici dà piena libertà solo nel Nord, al di là del “campo della sete” [ossia la zona aridissima dell’Etosha Pan], nella zona dell’Okawango e degli Ovambo, dove i protestanti non hanno ancora osato affacciarsi per le difficoltà e le incognite dell’impresa. Comunque nel Damaraland si fondano varie stazioni (Swakopmund, Gababis, Epukiro, Doebra, Usakos…) che un giorno saranno far luminosi anche per i negri, e si teta di dare una solida base economica alla Prefettura, piantando vere e proprie fattorie molto estese: così i numerosi capi di bestiame e - dove è possibile - il lavoro razionale del terreno, daranno modo di provvedere a molte impellenti necessità e, negli anni di carestia soprattutto, si riveleranno quanto mai provvidenziali.
Con pazienza mirabile e intuizione sorprendete, un fratello coadiutore riesce - cosa incredibile in quelle zone - a impiantare e a far prosperare  una magnifica vigna che costituisce la meraviglia della colonia e il cui vino ha meritato, varie volte, il primo premio all’esposizione coloniale di Windhoek.
Sorgono intanto scuole, orfanotrofi, dispensari; si organizzano riunione serale artistico-letterarie per i bianchi e si crea, fin dai primi anni, una scuola industriale per gli stessi indigeni dei quali finalmente ci si può occupare con frutti discreti.
Ma intanto il lontanissimo campo del nord (Okawango e Ovamboland) esercita un fascino potente, che sembra crescere in ragione diretta delle difficoltà, quasi insormontabili.
Si tratta di fare un viaggio di ottocento o mille chilometri dalla base di partenza, Windhoek, con cavalli e buoi. Attraverso la steppa e il formidabile “campo della sete”, sfidando febbri, insidie e ogni sorta di pericoli.
Il p. Hermann parte con tre cavalli per l’Ovamboland nel 1897: atterrato dalla febbre nera, appena si sente nuovamente in forze, riparte: ma muoiono tre cavalli e il terzo si ammala…
Prima delusione…. Quante altre ne seguiranno?
Due anni dopo si ritenta con un tiro di buoi preventivamente vaccinati per precauzione; nuova disdetta: tutti periscono in viaggio…
Anche nella nuova spedizione del 1900 il povero missionario vede perire di peste quasi tutti i buoi e deve tornare indietro, amaramente. L’inferno sembra scatenato per tanto ardire, che viene nuovamente reso vano dallo scoppio della guerra fra gli Ovambo.
Nel 1903 si punta a nord-est, verso l’Okawango; sicuri che un capo tribù a nome Himarua li attende, partono cinque missionari con un carro di centoventi quintali di carico, trainato da  venti buoi. Ma qualche ora dopo bisogna scaricarne un buon terzo. Come descrivere tutte le pene e le amarezze di questa quinta dolorosa spedizione?
Il povero carro talvolta si sprofonda e, non di rado, occorre alleggerirlo e rifare tre o quattro volte  lo stesso tragitto con piccolo carico. Di notte una banda di scorpioni e di serpenti viene a… far festa ai viaggiatori estenuati che devono cercare scampo sulle casse e sui bagagli.
Il superiore è assalito da febbre mortale. Più a nord bisogna aprirsi varco tra macchie e arbusti e la stessa guida sembra smarrirsi… e per colmo di sventura Himarua li respinge brutalmente e minaccia loro la fucilazione se non si affrettano a riprender la via del ritorno.
Il superiore sfinito dalle febbri e dagli stenti, si spegne malinconicamente, e gli altri quattro, arsi alle febbre, vedono gli indigeni venire a rubar loro buoi, fucili e abiti…
Il disastroso ritorno ha un tragico epilogo: un altro confratello soccombe. Seconda vittima!
La sesta spedizione dura cinque mesi e percorre 2.056 km. col solito carro tirato da buoi e con le solite pene e delusioni amare; anche la settima vene spezzata dal “campo della sete”, sicché si è costretti a ritentare la prova nel novembre 1908, durante la stagione delle piogge.
Il “campo della sete” quindi non preoccupa più; ma quale contropartita! Per cinque settimane, una o due volte al giorno, piogge torrenziali vengono a inzuppare i viaggiatori fino alle ossa; mai un palmo di terreno asciutto per passar la notte; il carro affonda spesso  fino agli assi nella sabbia bagnata o nel fango di vere e proprie paludi: il “campo della sete” è diventato un immenso acquitrino.
Tutto vien dimenticato quando ad Andara si ha l’illusione di aver finalmente raggiunto lo scopo sospirato. Tragica ironia! Un missionario è schiantato dalla febbre nera lungo il ritorno. E gli altri due rimasti ad Andara, oppressi di stanchezza, malnutriti e ignari delle necessarie precauzioni locali, sono uccisi da febbri tifoidi; l’ultimo di essi, p. Lauer, steso sul duro giaciglio d’agonia vede gli indigeni accorrere non a dargli sollievo ma a derubarlo, colla minaccia di cacciarlo inesorabilmente.
“Ieri - scrive egli con mano tremante - volevano prendermi anche il fucile… Oh!, crudeli!, non possono attendere la mia morte e, tuttavia, non hanno il coraggio di uccidermi! Oh! Se almeno arrivasse il carro!”
L’indomani, 28 marzo, traccia, appena comprensibile, l’ultima linea: “Oggi debolezza grande”. Il giorno stesso, forse, il pio e modesto missionario, si addormenta in Cristo, solo, senza un soccorso, senza una parola amica.
La nona spedizione non riesce che a rendersi conto del disastro d Andara e, anch’essa, cade a vuoto, grazie alla malizia e alla voracità d’un altro capo tribù, Libebe.
Che fare dunque? Dopo tanti insuccessi, bisognava confessarsi vinti e rinunziare all’impresa che, per le tremende avversità di uomini e d’elementi, sembrava ed era disperata?
Chi aveva seguito attentamente tanta tenacia e costanza missionaria poteva scrivere: “La tragica stria di queste spedizioni è una delle più gloriose pagine delle missioni contemporanee” (P. Klaylé). Ma qual frutto se n’era ricavato? Nulla, all’infuori di cinque tombe disseminate nel Gran Veld, solenni pietre miliari ammonitrici…
E allora? I Superiori si sentirono avviliti e pensarono che era ormai vano e temerario gettare altri animosi. Ma il giovane P. Gotthardt, nella sua breve permanenza ad Andara era stato conquiso dall’Okawango: e seppe tanto dire e tanto fare che poté far decidere i Superiori a permettere, nel 1910, un estremo tentativo - il decimo! - che vien messo sotto la protezione del S. Cuore.
Nella Prefettura e nella Congregazione intera, ammirati di tale costanza e di tanto ardire apostolico, si scongiura per quest’ultimo sforzo deuisivo… e finalmente il cielo di piombo si squarcia: ed ecco il sole, il sole della grazia celeste scendere sulle rive dell’Okawango: la Croce è inalberata alla missione di Niangana (1910) e poi anche ad Andara (1913).
Così, dunque, tredici anni di amarissime lagrime, di sangue e di morti, non erano andati perduti, ma avevano faticosamente aperta la via del celo a una serie di tribù attaccatissime alle proprie selvagge tradizioni, immorali e quasi prive di ogni religione.»

Abbiamo voluto riportare per esteso questo brano, compresa la conclusione alquanto etnocentrica, per conservare il clima e il sapore di quest’ultima stagione pionieristica ed eroica delle missioni cattoliche nei Paesi extraeuropei, ormai in piena “bella époque” e tuttavia,  nel Sud-Ovest africano, alle prese con difficoltà simili a quelle che i primi missionari europei, specialmente gesuiti, dovettero affrontare nei Nuovi Mondi nel XVI e XVII secolo.
Colpisce anche l’assordante silenzio relativo al genocidio degli Herero perpetrato dall’esercito tedesco del generale Lothar von Trotha nel 1904, la cui eco, pur giungendo assai attenuata in Europa, fu nondimeno tale da provocare una crisi ministeriale in Germania e le elezioni anticipate del 1907, che vennero perciò dette “ottentotte”.
Si trattò di una operazione militare estremamente spietata, culminata nell’ordine di sterminio emesso da von Trotha, che provocò la morte di 60.000 degli 80.000 indigeni Ova Herero (ce ne siamo specificamente occupati nella monografia, unica in lingua italiana, «Il genocidio dimenticato. La “soluzione finale” del problema herero nel Sud-Ovest africano, 1904-05», Pordenone, Stavolta Editore, 1988: ripubblicata sulla rivista «Il pensiero mazziniano», di Forlì, n. 1, 2007, ripresa in parte su diversi siti Internet).
Ed è tanto più assordante il silenzio di padre Gaetano Luzzio, in quanto che i missionari cattolici ebbero il merito di interporsi, a guerra finita, svolgendo opera di mediazione fra il governo coloniale e le decimate tribù indigene, e concorrendo a mitigare il trattamento delle popolazioni deportate e rinchiuse nei campi di concentramento e poi nella decisione di farle rilasciare, poco alla volta, affinché tornassero ai propri villaggi abbandonati.
Pur con questi precisi limiti di carattere ideologico, peraltro imputabili al contesto culturale dell’epoca, che vedeva non solo e non tanto la Chiesa cattolica, ma il fior fiore della cultura “laica”, etnologi e antropologi in testa, concorde nel descrivere i popoli nativi come “selvaggi”, “primitivi”, “barbari” coi quali  bisognava adottare, nel migliore dei casi, un ruvido paternalismo, spacciato per il «dovere» o il «fardello» dell’uomo bianco (il «white man’s burden» di Rudyard Kipling), rimane il fatto della tenacia ammirevole, della generosità senza limiti, dell’abnegazione e dello spirito di sacrificio di cui quegli sconosciuti missionari oblati tedeschi diedero commovente prova nei loro  sforzi per evangelizzare la regione dell’Okawango e, poco dopo, anche quella dell’Ovamboland, più ad ovest, fino al corso del Cunene.
Sappiamo bene che in molti, in troppi casi, i governi europei approfittarono dell’opera dei missionari cristiani per gettare le basi del proprio dominio politico sulle popolazioni africane, asiatiche e oceaniche, quando non presero pretesto proprio dal loro assassinio, ad opera di elementi locali, per avanzare le proprie rivendicazioni coloniali. Tale fu il caso, ad esempio, del governo tedesco nei confronti di quello cinese, allorché due missionari germanici venero assassinati in Cina  e il governo di Berlino, per rappresaglia, occupò la base di Tsingtao nel 1897, dopo di che ottenne la concessione della ferrovia dello Shantung e la concessione, nel 1898, di Kiaochow «per un periodo di novantanove anni».
Ma era colpa dei missionari, se le autorità politiche sfruttavano ogni occasione per creare ed estendere i propri possedimenti coloniali a spese delle popolazioni indigene?
Piuttosto, ci sembra che un’altra critica si possa rivolger all’opera delle missioni cristiane: quella di aver contribuito alla deculturazione di quei popoli, di aver demonizzato indiscriminatamente le loro credenze religiose e, talvolta, di averne sovvertito la morale, giudicandola in base ad aspetti esteriori e senza conoscere bene le circostanze che avevano portato al consolidarsi di determinati costumi (come quello di abbandonare gli anziani, al sopraggiungere dell’inverno, da parte degli Inuit e di alcune tribù amerindie della regione artica canadese).
Tuttavia, cerchiamo di essere onesti: agivano con più tatto, con più discrezione, con maggiore rispetto per le credenze indigene, gli esponenti della cultura laica europea, a cominciare dagli scienziati: naturalisti, medici, studiosi di etnologia e di lingue? O non è forse vero che, in diversi casi, furono proprio i missionari a offrire agli indigeni un minimo di protezione contro le prepotenze dei loro connazionali armati di spada, dei commercianti di schiavi, come è il caso delle famose “reducciones” dei gesuiti nel Paraguay, durante il XVII e XVIII secolo? E che furono proprio essi a salvare il salvabile delle culture native - lingua, letteratura orale, mitologia - prima che il diluvio della occidentalizzazione le facesse scomparire; talvolta fisicamente, come nel caso degli sventurati Tasmaniani sotto l’incalzare della colonizzazione inglese, altre volte culturalmente e spiritualmente, come per gli Amerindi del Nord America.
Dunque, onestà vuole si riconosca che l’opera dei missionari cristiani non fu solo negativa; che, in ogni caso, essa fu in linea con l’atteggiamento culturale europeo dei secoli passati, e, non di rado, più umana e illuminata di quanto lo fosse il comportamento dei loro connazionali laici, i quali certo  non si recavano in lontani continenti per fini puramente spirituali; e che, se furono commessi degli errori - e questo è innegabile -, furono fatte anche molte cose buone, aiutando quei popoli a inserirsi in modo un po’ meno traumatico, dove possibile, nel grande flusso della civilizzazione occidentale; e, dove era ormai troppo tardi - come fra gli indigeni della Terra del Fuoco, presso i quali operavano particolarmente i Salesiani -, assistendoli spiritualmente nella loro tragedia finale e aiutandoli a spegnersi con dignità.
E questo dovrebbero avere l’onestà di riconoscerlo, i nostri intellettuali laicisti del Pensiero Unico oggi imperante.