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Il male, nel pensiero di Gabriel Marcel, non è un problema, ma un mistero

di Francesco Lamendola - 29/12/2010


Il male, da sempre, costituisce il nodo fondamentale, il punto sensibile e, non di rado, la pietra dello scandalo sulla quale si misurano, e talvolta inciampano e scivolano, i sistemi filosofici e religiosi, nel loro sforzo di dare una risposta ai massimi problemi dell’esistenza.

Il problema del male, della sofferenza e della morte, dunque, costituisce il banco di prova per ogni forma di pensiero che ambisca a dire una parola di verità su quanto di più importante concerne la vita dell’uomo, il suo significato e il suo destino; e nessuno che tenti di eluderla potrà mai dire di essersi anche solo avvicinato alla più profonda esigenza della natura umana.

Innanzitutto bisogna distinguere tra le varie forme di male: altro è il male fisico, altro il male morale; altro il male che è tale solo per l’essere umano, ma fa parte del sistema della natura - ad esempio, le conseguenze di un terremoto - ed altro quello che l’uomo infligge deliberatamente ai propri simili, come nel caso del bombardamento di una città inerme o della persecuzione sistematica, fino alla morte, di un determinato gruppo etnico o religioso.

Il male che più fa scandalo è, naturalmente, quello morale, appunto perché si traduce nell’offesa alla dignità della natura umana; il male fisico, specialmente quando è l’effetto di condizioni naturali, fa parte della nostra condizione di esseri finiti, cioè di creature: cosa di cui, gonfi di superbia e di presunzione di onnipotenza, tendiamo a dimenticarci anche troppo facilmente: al punto che ci permettiamo di qualificare “assassina” la montagna su cui si avventurano, con inescusabile imprudenza, gli escursionisti della domenica; e del pari “assassini” quegli animali - squali, tigri, orsi - i quali, per caso, e invero in circostanze piuttosto rare, aggrediscono l’uomo. Quasi che il mondo intero fosse stato fatto appositamente ed esclusivamente per noi e quasi che, da un punto di vista puramente biologico, la morte di un essere umano fosse un male assoluto, e non anche, invece, un “bene” per gli organismi ed i micro-organismi che si ciberanno dei suoi resti: esito inevitabile di un antropocentrismo tanto presuntuoso quanto puerile.

Lasciamo perciò a Voltaire, nel «Candide», il gusto di scandalizzarsi per eventi naturali, come il terremoto di Lisbona del 1755, i quali altro non dimostrano se non che il pianeta in cui viviamo è geologicamente irrequieto e, se offre alle creature viventi straordinarie opportunità e incantevoli bellezze, le quali si riscontrano su pochi altri corpi celesti a noi noti, non è tuttavia esente da rischi e da pericoli. Il che non depone affatto circa la inesistenza di una Provvidenza o una supposta insignificanza del nostro essere nel mondo: pensare ciò è un tipico esempio di errore filosofico, in cui si vede bene che la conseguenza è assai maggiore delle premesse date; o meglio, in cui non ci si sforza affatto di ragionare con la testa, ma ci si abbandona  all’emotività e quindi, per così dire, facendo appello piuttosto al richiamo dei visceri.

Quanto al male morale, esso deriva dal fatto che l’uomo è intrinsecamente malvagio, come sostenevano i grandi pessimisti quali Machiavelli, Hobbes e Schopenhauer; oppure dal fatto che egli è libero e, quindi, soggetto a sbagliare, scegliendo il male invece del bene, ovvero preferendo dei beni di grado inferiore rispetto a quelli di grado superiore?

Qui le opinioni divergono; tuttavia è evidente che, se gli uomini fossero interamente buoni, allora non sarebbero liberi, perché non sarebbe contemplata, nella loro natura, la possibilità di sbagliare, scegliendo il male o dei beni di grado inferiore, cioè dei beni parziali e limitati, piuttosto del Bene in se stesso.

E la mancanza di libertà non è certamente un bene, ma un male: una volta ammesso questo, bisogna onestamente accettarne le conseguenze, per quanto spiacevoli possano essere nella vita dei singoli individui.

Tra i filosofi contemporanei, uno di quelli che hanno preso maggiormente sul serio il problema del male è stato Gabriel Marcel, del quale ci siamo altre volte occupati, come di una voce seria e autorevole nella babelica cacofonia della tarda modernità; al punto da poter dire che la risposta a tale problema costituisce il fondamento e la nota dominante della sua riflessione.

Solo che, per Marcel, il male non è un problema, ma un mistero: e non si tratta di un gioco di parole: i problemi si possono risolvere, perché la domanda che essi pongono eccede, in assoluta, la nostra capacità di trovare una risposta; mentre il mistero può solo essere riconosciuto e accettato nella sua eccedenza ontologica rispetto alla nostra finitezza.

Così riassume la posizione di Marcel uno dei massimi filosofi e teologi francesi della prima metà del Novecento, Antonin-Dalmace Sertillanges (1863-1948), domenicano, nel suo pregevole volume «Il problema del male» (titolo originale: «Le problème du mal», Fayard, Paris, 1951; traduzione italiana di Bruno Montagna, Brescia, Morcelliana, 1951, pp.354-56):

 

«Gabriel Marcel incalza le condizioni del dolore e della morte, del peccato e delle sue molteplici conseguenze. Egli lo fa da filosofo, ma anche da cristiano, perché, egli dice, dopo il Cristo colui che intende non essere che filosofo si tiene nell’astratto; egli è di qua dall’esperienza. Ciò non vuol dire che, anche dopo il Cristo, la filosofia non sia una scienza autonoma; ma per distinguere le discipline,  non è necessario mutare l’uomo.

Il problema del male non ‘è d’altra parte, per il filosofo, un oggetto di curiosità, ma di inquietudine. La distinzione è essenziale. Il curioso, ben stabilito in se stesso, cerca di rendersi conto di un di fuori, e, per tentare di sbraciarlo, si porta alla periferia, come un croupier raccoglie le messe a partire dai lati.  L’essere inquieto è soprattutto tormentato di sé, perché egli è in gioco quanto l’oggetto. Ed è il caso dell’uomo di fronte al male, nel quale è immerso con la sua persona. Qui l’oggetto dello studio è tanto più inquietante in quanto non può allontanarsi a me senza annientarmi. Potrei esistere se non fossi soggetto al dolore, alla morte, e al peccato? In queste condizioni, è con angoscia che io mi domando come possa vivere e come accade che ne possa soffrire,.

Così questa espressione: il problema del male non aggrada al nostro pensatore. Il male, egli dice, non è un problema ma un mistero. Non si tratta di risolverlo, ma di illuminarlo, ciò che è tutt’altra cosa. Un problema è un caso posto a partire da dati concreti che tutti abbiamo davanti a noi., come una bicicletta della quale si tratta di verificare il funzionamento,. A questo titolo, il male, che è un fenomeno universale, mescolato all’essere in ciò che ha di più comune e di più intimo a tutto il mondo creato, non potrebbe essere un problema. Noi non ne possediamo i dati. Noi siamo annegati nell’insieme delle condizioni che esso suppone e noi non possiamo abbracciarle con lo sguardo.

Inoltre, il male che si tratterebbe di giudicare, di dosare, affligge il nostro spirito come affligge tutto il resto, e, in queste condizioni, giudici e parti, come saremmo sicuri delle nostre soluzioni? Da tutte le parti il problema del male sfugge dunque alle condizioni  di ciò che si chiama un problema. I dati sono troppo vasti perché posiamo abbracciarli, e noi vi siamo troppo impegnati per considerare questi dati dal di fuori; essi ci affliggono interiormente e turbano i nostri sguardi.

Se si persiste nel chiamare la questione del male un problema, sarà necessario aggiungere che è “un problema che si allarga sulle sue proprie condizioni immanenti di possibilità” . E ciò ritorna a dire che non  è un problema nel senso scientifico del termine. È un mistero, e questo mistero non potrà veramente essere illuminato che quando sorvoleremo tutto il reale unendoci intimamente alla sua divina Sorgente.

È come di una commedia nella quale non si è spettatore nella sala, ma attore sulla scena, e spettatore riguardo agli altri, ma impegnato nella compagnia e giudicando così la commedia dall’interno, in accordo con il suo proprio gioco e con le sue proprie reazioni. L’autore constaterà che se la commedia gli sembra cattiva gli è perché non ha saputo comprenderla o non ha saputo adattarvisi; perché ha mal recitato o perché, pur avendo ben recitato per conto suo, non ha tenuto sufficientemente conto della parte degli altri e così ha ancora ma recitato.

Quando tutti gli attori recitano bene, trovano generalmente che la commedia  buona. Essi la rendono buona, e se l’autore avesse potuto incorporare nella sua commedia la recita degli attori, come fa Dio, avrebbe composto una buona commedia, che apporterebbe ai suoi autori onore e profitto. Insomma, l’universo è buono per i buoni, cattivo per i cattivi o per gli incoscienti. Se ciò non illumina il mistero lo rende accettabile sotto il beneficio della fede.

A questo proposito, Gabriel Marcel racconta che tutta la sua vita intellettuale è stata mutata dalla sua reazione interiore a una frase di Leone Brunschvicg: “Credere o verificare, l’alternativa è ineluttabile.”. Verificare vuol dire porsi nelle condizioni di esperienza che possano esaurire le condizioni del fatto e farle constatare da altri. La comunicabilità è la legge di una tale operazione. Ma la questione del male, non più dei grandi misteri della vita, non è suscettibile di una operazione di questo genere; si sono esposte ora le ragioni. Non resta dunque che una libera chiaroveggente adesione al mistero delle cose, che si penetrerà tanto meglio quanto si sarà più nobilmente e più generosamente vissuto. È attraverso una specie di “scambio creatore” che la bontà dell’opera di Dio si manifesta al fedele credente.

Questo compito della fede nell’interpretazione del male è secondo Gabriel Marcel assolutamente essenziale. Senza di essa, la disperazione è di diritto e si rivela come un dato centrale della metafisica. “Il fatto che essa (la vita) possa apparirmi come letteralmente priva di significato fa parte integrante della sua struttura”.

Una delle grandi teorie di Gabriel Marcel, la distinzione fra l’ESSERE e l’AVERE, contribuisce anche alla penetrazione del mistero del male. AVERE, è disporre di elementi di vita desiderabili in se stessi e comunicabili, come il denaro, tipo di tutti gli altri. ESSERE è tenersi in comunione »con tutti gli elementi della propria vita, interiore ed esteriore, grazie a un “patto nuziale” con l’esistenza, patto che ci permette di giudicarla dal di dentro come dicevamo poco fa dell’amore, di esaurirne le possibilità, e grazie ad essa, di costruire noi stessi, ciò che è il fine supremo di questa esistenza. In mancanza di questa comunione, gli uomini che considerano la natura e gli altri uomini come qualche cosa di esteriore, come un AVERE possibile, si sforzano di pagarsi tutto, di accaparrare tutto, di subordinare tutto a sé, e così si corrompono, invece di vivere. È la radice di tutti i peccati, poiché l’abuso che si chiama peccato non consiste che nell’appropriarsi come un possesso di quella cosa con la quale si dovrebbe essere in comunione attraverso una reciprocità di servizi.  L’universo è fatto per noi e noi per lui, visto che siamo i cooperatori di Dio nella sua immensa opera. Gli uomini sono fatti gli uni per gli altri, come in una società di fratelli. Quando attraiamo a noi il reale senza servirlo, gli uomini senza amarli, non cercando che di ricavare da essi il nostro proprio bene, questo è il peccato. Non vi è alcun peccato che non abbia questa radice. Il suicidio stesso ha questo significato. Il suicida tratta il suo essere come un avere di cui può disporre, in luogo di un elemento del suo destino che egli deve amministrare e portare a compimento, come uno dei casi della provvidenza che concerne l’umanità intera. La morte attende noi tutti; ma noi dobbiamo darci ad essa come alla nostra vita stessa, della quale essa costituisce il termine, mentre darci la morte è una fuga e una profanazione. Se vi è qualche cosa di terribile nel suicidio è che di questa morte, destinata a liberarci dai limiti della vita, appropriando cesene il suicida in tal modo fa un delitto, con la impossibilità di renderla alla sua prima destinazione.

In generale, il peccatore non è altro che colui il quale,a proposito di questo o di quello, intende pagarsi la vita, invece di darsi ad essa subordinandosi alle sue leggi. Ma in luogo della ricercata felicità non vi trova che disgusto; insipidezza morale, talvolta disperazione. L’esteriorità che si desidera non vi nutre, vi avvelena. I beni ottenuti, avviliti in conformità, non sono mai sufficienti; ci si porta senza tregua verso altri, come nel DIVERTIMENTO pascaliano. Ci si DIVERTE perché ci si è RITIRATI inizialmente. “Il bisogno di distrazione è legato a un certo riflusso della vita”. L’uomo è inchiodato a questo dilemma: o compiersi o fuggirsi. Là dove egli non si compie, non può che avvertire se stesso come un vuoto spalancato, insopportabile, dal quale per lui è necessario difendersi a ogni costo.

Non si fugge dunque all’esterno che perché si è vuoti dentro. Ma se si è vuoti internamente è per aver rifiutato il generoso scambio che Dio offre a tutti gli amici suoi e della sua creazione.

Don Giovanni corre dietro a tutte le donne perché non ha saputo trovare in una sola, con la comunione dell’amore, la pienezza che egli cerca. L’indefinito non è che morte; nell’infinito è la vita, tutto ce lo dà dal momento che riceviamo da Dio e viviamo in Lui.»

 

Come si vede, l’impostazione data da Marcel alla questione del male risale alla radice del vuoto esistenziale che viene a determinarsi allorché la creatura, separandosi dal Creatore, si pone in una prospettiva falsa rispetto a se stessa e rispetto al mondo: giacché l’armonia fra il dentro e il fuori non si realizza, se non quando la volontà individuale si pone in accordo con l’Essere, principio e fine di tutte le cose.

Come dice Dante in quei versi stupendi del «Paradiso» (100-105):

 

«A quella luce cotal si diventa,

Che volgersi da lei per altro aspetto

È impossibile che mai si consenta;

però che ‘ben ch’è del volere obietto,

tutto s’accoglie in lei, e fuori di quella

è defettivo ciò ch’è lì perfetto.»

 

Ecco allora che la questione del male morale, pur conservando il suo carattere di tremendo mistero, incomincia a presentarsi a noi sotto una luce meno pessimistica e sconsolata, meno angosciante e disperata: non tanto nel senso, agostiniano, della non esistenza del male stesso (il male esiste, eccome, ed esiste anche il Male con la “m” maiuscola!), bensì in quello di una necessaria conseguenza della nostra libertà morale.

Allorché noi ci poniamo rispetto agli enti nella modalità dell’avere, noi profaniamo la creazione e introduciamo il peccato nel mondo: il peccato, cioè la difformità dalla legge cosmica, l’abuso di ciò che ci viene dato nella misura del nostro necessario.

Solo quando ci poniamo secondo la modalità dell’essere, noi ci apriamo al mistero dell’esistenza che ci è stata donata e rispondiamo positivamente alla chiamata, rapportandoci agli altri enti nel segno dello stupore, del rispetto, dell’apertura e della gratitudine.

La modalità dell’avere è intrinsecamente distruttiva, perché segue le logiche del possesso e del dominio e trasforma gli enti in meri strumenti per la nostra affermazione egoistica; la modalità dell’essere è costruttiva, perché ci mette in comunione con le persone e con le cose, con la realtà visibile e con quella invisibile.

Per vivere armoniosamente con noi stessi e con gli altri noi abbiamo bisogno di essere, non di avere; di aprirci, non di chiuderci; di entrare in comunione, non di scatenare una lotta perenne senza quartiere.

E, una volta che avremo imparato ad aprirci, con fiducia e senza brama di possesso, allora anche la questione del male, forse, incomincerà a sgomentarci un po’ di meno: perché vedremo in essa un elemento necessario, ma transitorio, della nostra realizzazione e del nostro fine: il ritorno nel seno dell’Essere, da cui proveniamo, insieme ad ogni altra cosa.