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Gioia di vivere e angoscia di vivere nel pensiero di Emmanuel Mounier

di Francesco Lamendola - 07/01/2011

 

 

Del filosofo francese Emmanuel Mounier, padre del personalismo, avevamo già trattato, in parte, l’aspetto pedagogico, in un articolo di alcuni anni fa, sempre su questo stesso sito (cfr. «L’unità dinamica della persona va “suscitata”, per Mounier, attraverso l’amore e l’attività», inserito su Arianna Editrice in data 17/07/2008).

Ci proponiamo adesso di riprendere il discorso su questo importante pensatore del Novecento da un punto di vista più specifico, ma anche - a ben guardare - più generale: vale a dire quello della dialettica fra la gioia di vivere e l’angoscia di vivere, come si presenta nella sua prospettiva psicologica, prima ancora che in quella propriamente filosofica.

Nel suo poderoso «Trattato del carattere», che, nel “corpus” della sua produzione, costituisce al tempo stesso un “unicum”, ma anche un passaggio centrale, egli scrive, infatti (titolo originale: «Traité du caractère», Paris, Éditions du Seuil, 1947; traduzione italiana di C. Massa e P. De Benedetti, Roma, Edizioni Paoline, 1982, pp.186-89):

«L’istinto che con un termine troppo statico, si chiama di conservazione, tende allo sboccio della vita individuale: e, quando essa è minacciata, al suo mantenimento mediante la gioia di vivere, la difesa contro il pericolo, il nutrimento del corpo, il possesso del mondo, l’affermazione della personalità.

La gioia di viere è una specie di benessere generale dell’istinto.  Come il benessere muscolare, è garantita da un certo tono dello slancio vitale, né troppo né troppo poco.

Troppo poco, è il pessimismo dei deboli, degli affaticati, degli annoiati: la grande depressione malinconica. Nulla può il ragionamento contro questo male: bisogna rianimare una vitalità indebolita, oppure - nei casi estremi - ridurre il suo campo d’azione secondo la debolezza dei suoi mezzi. Accade pure che non si possa impedire il suo completo esaurimento, il quale trova il proprio epilogo nel suicidio depressivo.

Troppo, è la preoccupazione agitata della vita e della morte. A rigore, per diffusa che sia, è sempre anormale. Nel suo fiore, la vita si dà senza preoccuparsi di sé, totalmente incurante dell’avvenire, dei suoi mezzi e del suo termine. L’avvenire, il suo stesso slancio ne è l’affermazione. i mezzi li troverà giorno per giorno col suo genio aperto: gli ostacoli li eviterà, se, come il ciclista esperto, non vi terrà fisso lo sguardo ma si abbandonerà semplicemente all’elasticità del movimento. Della morte non ha esperienza prima di cominciare a decrescere: questa esperienza può esserle venuta dal di fuori o da una riflessione superiore, ma allora non è l’istinto che la fa nascere. Le epoche di alta vitalità sono indifferenti alla morte, si tratti della propria o dell’altrui, e certi valori irresistibili ne sommergono il pensiero e il timore. I barbari che conquistarono la Gallia, dopo aver abbondantemente arrischiato la vita dal mattino alla sera, la giocavano ai dadi verso il tramonto: e chi perdeva si piantava la spada in gola. L’uomo del Medioevo incrociava il ferro per un peccatuccio. Ci rappresenteremmo in modo falso la psicologia dell’Inquisitore, se supponessimo che egli dovesse vincere le nostre ripugnanze di oggi per la soppressione fisica d’un eretico: non è un paradosso degli apologisti dire che egli la ordinava con grande amore. Come in certi greci, anche in Byron e in Péguy si trova piuttosto romantica ma non proprio assurda idea che la vita breve è una benedizione degli dèi e che la vita lunga è la ricchezza senza gloria di chi non ha arrischiato. Qualunque siano i progressi spirituali che uno sviluppo della coscienza civile o della coscienza religiosa segnano su questo spirito intrepido dell’istinto, non bisogna confonderli con la profonda decadenza di un’epoca in cui tanti uomini - per non morire - sono pronti a vendere la loro anima, il loro corpo, il loro onore… e talvolta l’anima, il corpo e l’onore altrui. Ogni pacifismo che trova appoggio soltanto sulla paura della morte è un fenomeno di decomposizione che usurpa un immeritato prestigio. La paura di versare il sangue non è il rispetto della vita degli altri. Questo orrore del sangue sparso è oggi un sentimento generale di tutti quegli uomini che non temono né di anemizzare il sangue vivo né d’intossicarlo né d’infettarlo nel corso dei giorni e delle notti. Questa, anzi, è una delle ipocrisie che segnano la nostra epoca. Certi tempi più virili appoggiavano la morale sulle due colonne della Forza e della Prudenza. Temere di morire d’una morte inutile, senza ragione sufficiente, o d’uccidere ingiustamente, è effetto della Prudenza. Ma temere, senza altra precisazione, di morire o d’uccidere è sintomo di debolezza. Gli antichi vedevano giustamente nell’atteggiamento fiero di fronte alla morte il segno capitale della forza d’animo; il suggello d’una vita per la quale esistono valori che valgono più della vita stessa.

Ci riserviamo di parlare in seguito di quelle forme attive della gioia di vivere che sono l’istinto di potenza e l’istinto di possesso.

Questo gusto della vita è più o meno minato da un’angoscia di vivere che sembra risalire non soltanto al fondo del nostro essere, ma dal fondo dell’umanità, come voce lontanissima in noi dell’uomo primitivo. Prima d’essere circondato dallo schermo protettore della scienza e della civiltà - soprattutto delle civiltà urbane - l’uomo, in mezzo alle forze naturali, era una festuca nel vento. I asti abissi dell’ignoto, ella sua fragile condizione, ripercuotevano all’infinito il più piccolo dei suoi timori. Nulla era per lui regolare o razionale: nulla, nemmeno la burrasca, nemmeno una stella, nemmeno quel quotidiano levarsi e calar del sole che potevano sembrargli sempre esposti al capriccio di qualche dio. Questa angoscia diffusa egli la esteriorizzava moltiplicando i tabù e formandosi della divinità un’immagine tremenda e remota, come quella che il bambino si forma della sua paura. Del resto, non gli riusciva facile differenziarsi da quella natura che, ad ogni istante, come una ventata in una casa senza porte, veniva a scuotere la sua intimità. Questo orrore segreto non si è ancora spento nell’uomo moderno e le più vive sensibilità sono talora in esso particolarmente vulnerabili. Un mondo che può sedurre l’uomo e inghiottirlo come un’acqua misteriosa: ecco l’universo di Novalis. Un mondo che può scuotere bruscamente tutte le comodità razionali in cui lo teniamo incatenato e che ci può precipitare nell’assurdità del suo capriccio trascendente: ecco l’universo di Kafka. Una salute fisica e morale ben adattata alle forme solide delle cose e delle società cerca protezione definitiva contro questo brivido vitale. Ma il sentimento della vita vi perde una risonanza insostituibile.

Essa comunque è sempre così perturbante che il gusto di vivere, più o meno, si rafforza ognora dalla sua parte. Si cambia allora in istinto di sicurezza:  formazione di protezione che non ha la libera innocenza della gioia di viverre. Tale istinto si sviluppa talora febbrilmente in certi emotivi più vulnerabili degli altri all’angoscia vitale: oppure, nei flemmatici, dispone lentamente, metodicamente, le sue difese sovrapposte. Impone dapprima un certo numero di ripiegamenti, di tutte le zone esposte, di tutte le iniziative avventurose, sui rifugi immaginari e sulle soddisfazioni interiori, o su qualche mediocre regolarità di vita. Una seconda fase costituisce sistemi di sicurezza destinati a consolidare le posizioni di ripiegamento: sistemi intellettuali. Rituali di precauzione (“bilancismo” o passione dei conti, degli equilibri, delle restituzioni, delle simmetrie: mania dell’ordine, della puntualità, della pulizia), riti di protezione (ritrosia, cortesia affettata, alterigia, mutismo, ecc.). Come le difese naturali di certi animali, a furia di svilupparsi, li ingombrano e li portano alla morte, così il gusto di vivere si è annientato da sé quando, per garantire la vita, ha ucciso il senso stesso della vita.»

In questo notevole brano di prosa, nel quale Mounier mostra di possedere eccezionali doti di intuito psicologico, oltre che la solidità d’impianto e la profondità dell’autentico pensatore, ciò che balza maggiormente in evidenza è la consapevolezza della stretta correlazione che caratterizza, nella natura umana, l’istinto della gioia di vivere e la tendenza verso l’angoscia del vivere stesso.

Si tratta di una duplicità, di una ambivalenza, che appaiono già evidenti nell’uomo greco - basti pensare all’atteggiamento esistenziale degli eroi omerici - di Achille, per esempio - lacerati fra la dolcezza del vivere e l’istinto di morte; ma che, a nostro avviso, si afferma in maniera caratteristica con l’inizio della modernità.

«Quel doppio uomo che è in me», dice di se stesso Petrarca, nell’epistola in cui narra l’ascesa del Monte Ventoso: ed è vero che cita, alla lettera, una frase delle «Confessioni» di Sant’Agostino; ma è altrettanto vero che, se in Agostino (che vive, peraltro, alla fine del mondo antico e non nella sua piena stagione) ciò rappresenta una caratteristica particolare e, per molti aspetti, esasperata, nel contesto della grecità e della latinità, a partire da Petrarca diviene, per così dire, la regola, fino a culminare nell’autentico sdoppiamento e nella tendenziale schizofrenia dei personaggi di Svevo, Pirandello, Thomas Mann, Kafka, Musil, Joyce, Proust.

Laddove ci sembra di dover dissentire, tuttavia, dalla pur lucida analisi di Mounier, è quando egli afferma che l’istinto di potenza e l’istinto di possesso sono le forme attive della gioia di vivere e quando sostiene, a riprova di ciò, che la paura e l’orrore della morte sono manifestazioni di una debolezza dell’istinto vitale; e che la vera forza d’animo consiste, come per gli antichi, nella fierezza davanti alla morte, perché una vita degna d’essere vissuta è solamente quella che non teme di sacrificarsi per affermare dei valori più alti di se stessa.

Partiamo da quest’ultima considerazione.

Anche se Mounier ha certamente ragione di denunciare la profonda ipocrisia di un’epoca poco virile, in cui gli uomini sono disposti a qualunque bassezza e a qualunque prostituzione morale, pur di sopravvivere («deninque vivunt»!, esclamava con sdegno già Lucrezio), ci sembra che cada nell’eccesso di una esaltazione del barbarico e del nichilismo, specialmente là dove intona l’elogio di quelle civiltà e di quei popoli che possiederebbero un così forte istinto vitale, da non esitare a giocarsi la vita anche per cose da  nulla.

Oltre tutto, è evidente la contraddizione: da un lato egli afferma che solo l’affermazione di valori più alti della vita stessa giustifica lo sprezzo della morte; dall’altra, guarda con ammirazione a quei barbari della Gallia che non esitavano ad incrociare il ferro per un nulla e che, scampati alla morte in cento battaglie, vi si gettavano poi a capofitto solo per mostrare una supposta virilità, in una sorta di roulette russa “ante litteram”.

Quello che più dispiace, però, nel ragionamento di Mounier, non sono né le forzature logiche, né le contraddizioni del pensiero, ma l’esaltazione di un vitalismo amorale che gioca con la vita propria ed altrui, come cose di nessun valore in se stesse, ma solo in quanto occasione per sfoggiare la propria superiorità davanti al timore della morte. E dispiace perché si tratta di una posizione etica che si colloca letteralmente agli antipodi del Cristianesimo; e il filosofo cristiano Mounier avrebbe dovuto bene accorgersene.

Per il Cristianesimo, la vita è un bene prezioso, anche se non lo è in modo assoluto, come mostra il sacrificio stesso di Gesù Cristo, che affronta la more per incarnare la figura del giusto sofferente profetizzato da Isaia. Prezioso, tuttavia: perché, come dice San Paolo nella Epistola agli Efesini (1, 4), «prima della creazione del mondo, Dio ci ha scelti per mezzo di Cristo, per renderci santi e senza difetti di fronte a lui». PRIMA DELLA CREAZIONE DEL MONDO: è un’espressione molto forte; significa che ogni essere umano è stato scelto non solo prima di nascere o di essere concepito; ma, addirittura, prima che l’universo materiale incominciasse ad esistere.

Se l’uomo è così prezioso agli occhi del suo Creatore, al punto che quest’ultimo si è fatto creatura per trasmettergli tutto il Suo amore, allora vuol dire che deve avere la massima cura della propria vita e di quella del prossimo. Altro che giocarsela ai dadi, piantandosi poi la spada nella gola, come facevano, ubriachi di autoesaltazione, i guerrieri celti! Questa sarebbe la negazione dello spirito autentico del Cristianesimo.

Pienamente d’accordo, invece, ci trova la protesta di Mounier contro l’eccessiva prudenza, per non dire l’ignavia e la pavidità, di chi non vuole mai mettersi in gioco, perché - in fondo - non ama la vita. Sì, la distinzione fra ignavia e retto amore della vita, che aborre dalla violenza non per timidezza, ma per amore, talvolta si presenta sottile. Esiste, tuttavia: ed è una differenza decisiva.