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La maldicenza è una pratica deleteria non solo per l’altro, ma anche per se stessi

di Francesco Lamendola - 08/01/2011


In un paese della provincia francese la comunità è turbata da un misterioso personaggio, “Il Corvo”, che scrive lettere anonime, spiattellando implacabilmente - in un crescendo di sospetti e di scandali, che provocheranno anche un suicidio -, le magagne nascoste dei suoi concittadini: è il soggetto di un film francese del 1943, «Le Corbeau», girato dal regista Henri-Georges Clouzot; film che a torto venne accusato di simpatie naziste e sequestrato fino al 1947.
Ma, pettegolezzi di provincia a parte (per non parlare del clima da apocalisse e da guerra civile dell’Europa di quegli anni), resta il fatto che la questione messa a fuoco dal regista francese era, ed è, di perenne attualità; e che riflettere su di essa non è una operazione né di destra, né di sinistra, ma semplicemente umana.
Parlare male del prossimo - infatti - è un’attività che piace, indubbiamente, a un gran numero di esseri umani; anzi, se vogliamo essere onesti, quasi a tutti.
Ma perché la maldicenza è un piacere?
Si potrebbe rispondere che non esiste un “perché” speciale; che è un piacere e basta, come lo è annusare il profumo di un fiore o bere dell’acqua fresca, quando si è assetati.
Ma, naturalmente, non ci si può accontentare di una risposta del genere: anche se non per tutte le domande esiste una risposta, di certo ogni fatto possiede una causa specifica e, quindi, un suo ben preciso “perché”. La filosofia è appunto il tentativo di rispondere alle domande ultime sui diversi aspetti del reale; cosa che non va confusa con i “perché”, necessariamente limitati ed empirici, delle single scienze, ivi compresa la psicologia.
Questa considerazione ci permette già di tracciare una linea di separazione fra la risposta al nostro quesito che è possibile dare in sede psicologica e quella che si richiede, invece, in sede propriamente filosofica. 
Lo psicologo ci spiegherà per quale ragione questo o quell’individuo provano piacere nel parlare male del prossimo; inoltre, per la vicinanza del suo campo di studi con la psichiatria e, più particolarmente, con la psicanalisi, tenderà a generalizzare le situazioni psicopatologiche, traendo delle “leggi” di carattere universale dal comportamento di singoli individui, più o meno seriamente disturbati sul piano mentale, affettivo e spirituale.
Al filosofo spetta un ben diverso compito: quello di chiedersi perché la maldicenza, in se stessa, risulti così familiare e così gradita alla natura umana; o, in altri termini, quali componenti essenziali dell’anima rendano la maldicenza una struttura permanente, connaturata alla sua condizione ontologica.
Si parte da una osservazione empirica, dunque - la diffusione universale del piacere della maldicenza - e si cerca di risalire alle ragioni ultime, permanenti, strutturali, per le quali esso è una manifestazione genuina della vita dell’anima.
E cominciamo dall’etimologia: “maldicenza” viene dal latino tardo “maledicentia” (attestato in Gellio; il latino classico usava piuttosto “obrectatio”, nel senso di “insinuazione”), derivato dal verbo “maledicere”, che significava «sparlare di…, parlar male di…; oltraggiare; ingiuriare» (R. Bianchi - O. Lelli). Quindi, anche “maledizione” viene dalla stessa radice e ci ricorda che parlare male del prossimo non è un passatempo relativamente innocuo, bensì una cosa estremamente seria, che può avere conseguenze gravi.
Tuttavia, si potrebbe obiettare, perché definire gli altri uomini come “il prossimo”? La parola ha un significato cristiano ben preciso, che presuppone una fratellanza umana, in nome della comune discendenza da Dio Padre; ma, se si rifiuta questa parentela spirituale?
Se il prossimo non è più il prossimo, ma solo un estraneo che il caso ha gettato vicino a noi, e che, magari, ci attraversa la strada, per quale mai ragione dovremmo farci scrupolo di trattarlo come un nemico, apertamente, se possibile; e, se no, mediante le subdole arti dell’insinuazione, della maldicenza, della calunnia, allo scopo di distruggerlo, se non fisicamente, quanto meno sul piano sociale e morale?
Ecco: questa è una obiezione seria, perché ci ricorda che l’atteggiamento di benevolenza o di malevolenza che decidiamo di adottare nei confronti dell’altro deriva, necessariamente, dall’idea che ci siamo fatta del nostro essere al mondo, della ragione per cui siamo qui e dello scopo della vita in generale, particolarmente della vita umana.
Inevitabile: il linguaggio è figlio delle idee e non viceversa; perciò, chiamare gli altri esseri umani con la parola “prossimo” è già una scelta, almeno in linea di principio, di benevolenza; e sia pure, magari, dettata da considerazioni utilitaristiche (trattare gli altri come vorremmo essere trattati a nostra volta, soprattutto se dovessimo nel bisogno).
Ottimismo e pessimismo antropologico vengono qui a darsi battaglia, come hanno sempre fatto, sin dagli albori del pensiero filosofico. L’uomo è intrinsecamente buono o intrinsecamente cattivo, al di là di quello che una data educazione può fare di lui, orientandolo a sentire, a pensare e ad agire in un modo anziché in un altro?
Questo interrogativo ci riporta ad un altro, ancora più a monte: l’uomo, alla nascita, è una «tabula rasa», che riceve ogni idea dall’esterno (usiamo qui la parola “idea” nel significato più ampio possibile), dunque anche le idee di ciò che è “bene” e di ciò che è “male”; oppure possiede già delle idee innate?
Alla luce delle più recenti acquisizioni, non solo della filosofia, ma anche della psicologia e della parapsicologia, sembra davvero difficile negare l’innatismo: oggi, infatti, moltissimi studiosi danno per acquisito che l’anima dell’uomo (o la sua mente, se così preferiamo chiamarla) non è che una parte di una entità molto più vasta, universale, che comprende l’anima (ovvero la mente) tutti gli altri esseri viventi, inclusi quelli che più non esistono e, forse, anche quelli che devono ancora iniziare ad esistere.
Sappiamo troppe cose, infatti, e le altre le apprendiamo troppo in fretta, per ammettere che ogni nostra conoscenza ci provenga dall’esperienza dei sensi materiali; se fosse vera quest’ultima ipotesi, allora una vita intera non ci basterebbe per accumulare nel nostro cervello i milioni e milioni di informazioni di cui abbiamo bisogno quotidianamente, ad ogni istante.
Inoltre, la conoscenza improvvisa e inspiegabile di numerose lingue, antiche e moderne, da parte di persone illetterate; la precognizione, la retrocognizione, la chiaroveggenza e numerosi altri fenomeni analoghi, indicano chiaramente - se vogliamo vederli e se siamo disponibili ad accettarne le implicazioni - che infinite conoscenze, cui possiamo attingere nei cosiddetti stati alterati di coscienza, non vengono da nostre esperienze, né appartengono in alcun modo al nostro bagaglio individuale, ma appartengono ad una realtà universale cui ci è talvolta dato attingere, poiché - di fatto - ci muoviamo in essa come i pesci nel mare. 
L’inconscio collettivo di Jung è una parte, o un aspetto, di questa mente o anima cosmica, così come lo è la memoria ancestrale che affiora in noi dagli abissi del tempo; viste in questa luce, anche le profezie di un Nostradamus ci appaiono non già come il frutto di una operazione magica o astrologica, ma come una vera e propria lettura di ciò che è eternamente presente, e quindi - in teoria - eternamente leggibile, in tale dimensione superiore, ove le nozioni di passato e futuro perdono ogni significato, poiché esiste solamente il presente.
E non solo gli esseri viventi, animali e piante compresi, ma anche la cosiddetta materia inanimata possiede un certo grado di coscienza e, quindi, partecipa alla realtà della mente universale. Parlare di “anima dei luoghi” non è affatto un’espressione retorica; e lo capiremmo meglio se, invece di sottometterci alla tirannia della ragione, ascoltassimo di più le nostre sensazioni a accettassimo ciò che i sensi interni ci dicono riguardo a determinati luoghi, a determinate case, a determinati paesaggi, invece di considerarle manifestazioni inattendibili di “sentimentalismo”.
Sia detto fra parentesi, l’idea che le cose materiali possiedano un’anima permette di rendere conto di tutta una serie di fatti - fatti, non ipotesi -, che vanno dalla psicometria (si pensi alle straordinarie capacità di un Gerard Croiset) ai poteri degli sciamani, capaci di guarire o far ammalare a distanza un individuo, del quale possiedano anche solo un piccolo oggetto personale. E ciò con buona pace di quanto vorrebbero che non si debba trarre alcuna conclusione filosofica a partire dalla constatazione dei fenomeni paranormali; come se questa preziosa finestra, che ci si schiude sulla dimensione “altra” del reale, non dovesse servire che per il diletto di romanzieri, poeti, pittori e registi cinematografici “di genere”.
Ma torniamo alla maldicenza.
Se esiste un’anima universale, esiste anche una fratellanza universale: la conseguenza di ciò è che tutti gli esseri viventi, tutte le cose, tutti i luoghi, sono legati fra loro da un vincolo sotterraneo, ma potente: e che ciascuno è “prossimo” per l’altro. Non si tratta, quindi, soltanto del precetto di una fede religiosa o di un imperativo morale (il kantiano: «agisci sempre vedendo l’uomo come un fine e mai come un mezzo»), ma di un vero e proprio dato di fatto, che noi possiamo anche respingere o ignorare, ma che permane, nonostante tutto.
Ora, se ciascuno è il mio prossimo (e non solo gli altri esseri umani, come voleva la piccola, meschina morale di Kant), allora diventa ben chiaro per quale ragione sia cosa cattiva parlar male dell’altro e compiacersi di gettare su di lui, insinuando le parole come serpenti che strisciano nell’ombra, la calunnia e il discredito. Danneggiando lui, danneggiamo anche noi stessi; avvelenando l’ambiente sociale, avveleniamo anche la vita della nostra anima. Ci facciamo del male, alla lettera, credendo che danneggiare il prossimo ci farà stare meglio.
Pur senza arrivare all’esagerazione filosofica - sostenuta, ad esempio, da Emmanuel Lévinass - che l’etica debba inglobare ogni ontologia, possiamo tuttavia ragionevolmente ammettere che etica e ontologia siano due facce di una stessa realtà; per cui, se l’etica è la scienza del bene, non si dà ontologia senza etica, perché il bene coincide con l’essere.
Né si tratta di una forma di utilitarismo, nel senso comune del termine: perché il principio della conservazione di se stessi non è un principio utilitaristico, ma il principio sul quale si regge l’essere e, pertanto, il principio fondamentale della realtà in quanto tale; il che non va confuso, d’altra parte, con la morale edonistica, perché non sempre il piacere coincide con il bene, ma sempre il bene coincide con l’essere. 
In questo senso, potremmo anzi dire che una morale utilitaria - e non utilitaristica, come lo è nell’accezione comune -, nel senso universale che abbiamo detto, sia l’unica morale possibile e non una forma particolare di essa. La legge di conservazione dell’energia, come è noto, è la più importante fra le leggi di conservazione della fisica; e l’intero universo è fatto di energia.
Tutto ciò che esiste, infatti, tende ad affermarsi, beninteso a differenti livelli di consapevolezza: perché, mentre il bambino lotta per affermarsi in maniera irriflessa ed egoistica, l’uomo o la donna adulti che scelgono di sacrificare la propria vita per la difesa di un bene più grande - ad esempio, la vita di una persona amata, oppure un valore considerato irrinunciabile - tendono ad affermarsi su un piano alquanto più elevato. Ma quel che prevale è sempre l’istinto di conservazione di se stessi: se non del proprio corpo fisico, dei propri affetti o dei propri valori.
Ecco perché la pratica della maldicenza è intrinsecamente sbagliata e deleteria. E non parliamo, ovviamente, della maldicenza scherzosa, cui ci si abbandona con un amico fidato e il cui vero fine è sdrammatizzare le situazioni e alleggerire la fatica quotidiana del vivere: ma di quella maligna, diretta a danneggiare in ogni modo, per quanto possibile, chi ne sia l’oggetto.
Forse ciascuno dovrebbe rivedere il proprio atteggiamento di indulgenza nei confronti di cattive abitudini, come la maldicenza, a torto ritenute delle colpe trascurabili.
Perché, se è vero che esse hanno la radice in una ferita originaria dell’anima umana, che la rende più incline al male che al bene, ciò tuttavia non esime alcuno dal dovere di lavorare su se stesso, per migliorarsi e oltrepassare gli istinti primari, eredità del cervello rettile.