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Crescono le attività di finanza islamica

di Matteo Mascia - 08/01/2011

     

 
Il decennio appena iniziato potrebbe segnare l’affermazione su scala mondiale della finanza islamica. Sono numerosi gli Stati che hanno già conferito pieno diritto di cittadinanza a questa forma di investimento molto diversa dai modelli tradizionali. Tra questi figurano anche veri e propri feudi del modello capitalista “occidentale” del calibro di Regno Unito, Australia e Lussemburgo. Un’attenzione che evidenzia come sia crescente l’interesse per questa forma di investimenti, un trend direttamente proporzionale alla possibilità di maturare dei guadagni. Non a caso, alcune delle più importanti holding bancarie – tra le altre Citigroup e HSBC – hanno iniziato ad inserire nel loro bouquet di prodotti servizi finanziari islamici. Una manovra che ha permesso ai dividendi marchiati con la mezzaluna di acquisire una sempre maggiore fetta di mercato. Secondo alcune rilevazioni, oggi questo tipo di investimenti rappresenterebbe più dell’1% del totale degli asset, per un controvalore che supererebbe i mille miliardi di euro. Si è sempre descritto il modello bancario islamico come uno schema avulso dal concetto stesso di interesse, una convinzione che è solo parzialmente corretta. Le regole etiche raccolte nel Corano impediscono infatti la speculazione o gli investimenti in comparti attivi nei settori che producono “prodotti proibiti”, come alcool, tabacco o carni suine. Vincoli che non sono incompatibili con un margine di guadagno per gli investitori. Quello che rimane vietato è l’interesse come viene concepito dal nostro sistema bancario, guadagni che spesso sono il frutto di scambio di carta tra le grandi aziende di credito.
Il modello islamico prevede invece una base reale, la moneta non viene intesa come una riserva di valore ma è il mezzo di scambio da impiegare in una transazione o in un processo produttivo. Ed è proprio l’attenzione per i processi produttivi che potrebbe spianare la strada verso il successo per questi modelli di investimento. Le banche islamiche, una volta effettuata una raccolta di fondi adeguata, identificano dei progetti che abbiano alti margini di realizzazione. Non contano le garanzie offerte dai debitori ma la capacità dell’idea imprenditoriale di generare ricchezza.
Denaro vero generato da contratti di scambio o di partecipazione in altri progetti. Una concatenazione virtuosa che potrebbe essere un utile antidoto contro le mosse azzardate dei grandi gruppi finanziari o il gonfiarsi delle bolle nel settore immobiliare o petrolifero. Un’altra opportunità è rappresentata dal sukuk il modello di prodotto obbligazionario corrispondente ai dettami coranici. Una forma di investimento che sta prendendo piede grazie alla domanda proveniente dall’Asia e dai paesi che si affacciano sul Golfo Persico.
Anche qui il ricavo garantito agli investitori corrisponde ad una base reale e non fittizia, la compravendita di debito è infatti assolutamente vietata. Mentre l’obbligazionista occidentale riceve a scadenze predeterminate il pagamento delle cedole, nel caso del sukuk il cliente ha diritto sia ai profitti generati dalle attività che ai ricavi da realizzo degli stessi.
Come avviene per le nostre emissioni obbligazionarie la durata è predeterminata e varia da un minimo di tre mesi ad un massimo di dieci anni. Un rapporto contrattuale in cui compratore e venditore sono a conoscenza delle attività in cui sarà investito il denaro e non semplicemente di un insieme di settori in cui la banca potrebbe investire il denaro raccolto. È difficile dire se sul Vecchio Continente possa affermarsi questo tipo di finanza “etica”, sicuramente abolire il concetto di interesse predeterminato potrebbe essere utile per l’intero tessuto economico. Si ritornerebbe a dare importanza a settori come l’agricoltura o il manifatturiero. Attività evitate dai banksters perché spesso incapaci di generare profitti nel breve o brevissimo periodo.