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Viaggiare o restare?

di Francesco Lamendola - 14/01/2011


 

 

Il mondo attuale è caratterizzato dall’ampiezza del viaggiare: viaggiare per lavoro, viaggiare per studio, viaggiare per diletto; specialmente per diletto.

Si prende l’aereo e si va in ogni angolo del mondo: da soli o con l’assistenza delle agenzie turistiche, che offrono allettanti pacchetti-vacanze.

Esistono voli charter che permettono di recarsi da Venezia a Londra o da Milano a Parigi con la cifra simbolica di pochi euro: costa di più prendere il taxi per raggiungere l’aeroporto, che non la trasferta all’estero.

Ci sono poi le autostrade, perennemente trafficate da milioni e milioni di autoveicoli privati; le reti ferroviarie, percorse in ogni senso e in ogni stagione da treni quasi sempre affollatissimi; e, ormai anche per famiglie di modesto reddito, le crociere marittime.

Queste ultime creano l’illusione, per lo spazio di una settimana, non solo di un esotismo a buon mercato, ma anche di un salto di classe: perciò svolgono il ruolo di surrogato della frustrazione sociale, analogo a quello dei film o dei romanzi rosa dove la commessa del supermercato attira l’attenzione di un piacente milionario e finisce per sposarlo.

Ma la forma più tipica del viaggiare, nella società contemporanea, è, senza dubbio, il viaggio di piacere, anche se - talvolta - ammantato di dubbi pretesti culturali o camuffato, in altri casi, da viaggio di lavoro: come quando il manager approfitta della stipulazione di un contratto, per fare una sortita all’estero e concedere alla moglie (o all’amante) un fine settimana all’insegna dello shopping internazionale.

Si viaggia moltissimo, dunque; e viaggiano, ormai, sia pure in misura diversa e con modalità differenti, i membri di quasi tutte le classi sociali.

Magari si viaggia in autostop, specialmente i giovani; ma la moda “on the road” sembra essere tramontata, per venire sostituita da altre mode, ad esempio quella dei viaggi “spirituali” alla ricerca della saggezza dell’India, o dei viaggi “alternativi”, come la traversata del Sahara o il trekking lungo le pendici dell’Himalaya o delle Ande.

Ogni tipologia di viaggio, naturalmente, anzi ogni singolo viaggio, meriterebbe una riflessione specifica, trattandosi di realtà fra loro diversissime; eppure un denominatore comune sembra esservi, ed è indubbiamente di segno quantitativo: oggi si viaggia con una frequenza e con una disinvoltura che erano sconosciute, non solo alle epoche passate, ma anche alle due o tre generazioni immediatamente precedenti.

In gran parte è un effetto dei meccanismi della società di massa, già descritti da fini osservatori, quali Ortega y Gasset: nella società di massa, la gente è dappertutto, le folle sono una presenza costante nel panorama della vita quotidiana: le strade, i supermercati, i cinema, le stazioni, gli aeroporti.

Mentre nel mondo pre-moderno le folle comparivano solo in determinati luoghi e in determinate circostanze - piazze, sagre, mercati, processioni religiose -, oggi esse dominano ovunque la scena. La loro continua, frenetica mobilità non è che l’estensione spaziale della loro onnipresenza: un po’ come la velocità di rotazione delle pale di un elicottero, che finisce per saturare tutta la superficie come se fosse interamente “piena”, non è che la trasformazione della dimensione «tempo» nella dimensione «spazio».

Viaggiare sembra diventato perfino un obbligo, beninteso in senso psicologico e, talvolta, cultuale: almeno per chi se lo può permettere; ma, come abbiamo già osservato, ormai se lo possono permettere quasi tutti, e sia pure con qualche sacrificio, intaccando - eventualmente – alte voci del proprio capitolo “spesa”.

Come immaginare delle ferie che non siano trascorse in una località lontano da casa, possibilmente in qualche luogo rinomato e se non anche esotico, raggiungibile solo con un viaggio più o meno lungo? Per la cultura oggi dominante, passare le ferie restando a casa sembra quasi una contraddizione in termini.

Oppure, come immaginare un anno scolastico che non trovi il proprio coronamento in un viaggio, che, teoricamente, dovrebbe essere di natura didattica (beata ipocrisia), ma che, in realtà, è di pura e semplice evasione? E quante famiglie sono disposte a negare un simile “diritto” al proprio figlio, a fronte della constatazione che «tutti gli altri» ci vanno?

Si viaggia, dunque: sempre di più, sempre più lontano.

L’atto del viaggiare è divenuto qualcosa di più che un valore evidente in se stesso: è divenuto una necessità improrogabile, se non in senso stretto, in senso morale e professionale: che razza di cittadino del terzo millennio sarebbe quello che non è stato di qua e di là, che non ha soggiornato all’estero, che non ha mai preso l’aereo?

Perché il cittadino del terzo millennio, si sa, deve essere cosmopolita, deve conoscere le lingue, gli usi, i costumi stranieri; anzi, deve abolire la parola “straniero” dal proprio vocabolario, in nome di una multiculturalità che significa, in pratica, l’oblio delle proprie radici e delle proprie tradizioni e l’abbandono nel “mare magnum” della globalizzazione.

Arrivati a questo punto, si potrebbe anche liquidare la questione da noi posta, come un falso problema; e negare, puramente e semplicemente,  che vi sia un significato nella domanda «partire o restare», dato che solo il «partire» sembra essere un atto in linea coi tempi moderni, come lo sono, per altri versi, la tecnologia, la moda, il culto della velocità e del giovanilismo; mentre il «restare» sarebbe espressione di un provincialismo rinunciatario e antimoderno, dunque intrinsecamente sbagliato, oltre che patetico.

Ma è proprio così?

Per prima cosa, bisognerebbe vedere se realmente la categoria del viaggio sia un valore in se stesso evidente; in secondo luogo, se lo sia il viaggiare proprio della modernità, ossia un viaggiare massificato, omologante, frettoloso e sostanzialmente distratto.

Questi due punti non possono essere dati per scontati, se si vuol rimanere sul terreno non solo della logica, ma anche del senso comune: perché il senso comune non accetta un valore come tale, se non dopo averne fatto la verifica, magari anche solo in base agli effetti che produce.

Punto primo, dunque: il fatto di viaggiare costituisce un bene in se stesso, indipendentemente dalle modalità, dagli scopi, dai risultati?

Ci sembra difficile sostenerlo.

Tanto per fare un esempio, la deportazione di popoli - come quella degli Armeni, nel 1916, verso il deserto mesopotamico, o quella delle “Cinque tribù civilizzate” del Sud-est degli Stati Uniti, nel 1838, verso l’Oklahoma - corrisponde, sì, a un viaggio, ma un viaggio di carattere infernale; e un ragionamento analogo si può fare per i viaggi di singoli individui o di piccoli gruppi, ad esempio nel caso degli emigranti che una estrema indigenza spinge ad avventurarsi, magari in circostanze drammatiche, verso Paesi lontani, dei quali ignorano tutto e ove ben difficilmente potranno integrarsi, pur lavorando duramente.

Dunque, il fatto che un determinato viaggio, o un determinato tipo di viaggi, siano dei beni in se stessi, dipende dalle circostanze specifiche in cui si svolgono e per cui si svolgono.

Ed eccoci al secondo interrogativo che avevamo posto: se la modalità del viaggiare che è propria della modernità, ossia il turismo di massa, giustifichi la valutazione positiva che ne viene data in partenza, a prescindere da qualunque ulteriore verifica.

Anche questo, in verità, rischia di configurarsi come un interrogativo eccessivamente generico; e tuttavia crediamo che una modalità del viaggiare tipicamente moderna esista, e che, pur senza darne una definizione rigorosamente scientifica, lo si possa constatare anche solo osservando ciò che avviene normalmente negli aeroporti, a bordo degli aerei, nelle stazioni ferroviarie e sui treni, lungo le autostrade e a bordo delle navi da crociera.

Si dice e si ripete che il viaggiare moderno è utilissimo per allargare gli orizzonti, per sciogliere i pregiudizi, per creare una mentalità cosmopolita: ma è facile vedere che tutti questi supposti vantaggi possono venire considerati effettivamente tali, solo a patto di condividerne l’ideologia di fondo: che, cioè, il cosmopolitismo sia cosa migliore del tradizionalismo; che la velocità sia cosa migliore della lentezza; che il multiculturalismo sia cosa migliore di un forte legame identitario, e così via.

In altre parole, ciò che non funziona nel ragionamento di partenza è precisamente il fatto di dare per dimostrate appunto quelle cose che si tratterebbe di valutare: si tratta di un modo di pensare tautologico, cioè, il quale - questo sì - è veramente tipico della modernità, a dispetto del suo tanto sbandierato spirito critico.

Infatti, riteniamo sia perfettamente lecita - ad esempio - la domanda: «Perché mai la velocità dovrebbe essere cosa migliore della lentezza?»; a parte il fatto, naturalmente, che essa è stata esaltata da alcune avanguardie artistiche e letterarie, ad esempio dal futurismo.

Si sarebbe portati a rispondere: «Perché, grazie alla velocità, si possono fare molto più cose che in passato»; ma sarebbe, naturalmente, una risposta estremamente sciocca. Ad essa, infatti, si potrebbe subito ribattere: «Ma perché il fatto di riuscire a fare un maggior numero di cose si deve considerare un bene in sé evidente?».

Oppure, con critica ancor più penetrante: «D’accordo, si possono fare più cose che in passato. Ma si riesce anche a farle MEGLIO? Infatti, è più importante fare parecchie cose, o fare bene le cose che devono essere fatte?».

Il paradigma fondamentale della modernità, tuttavia, è quantitativo: per cui sembra - ma «sembra» soltanto - che più cose si riescono a fare, e meglio è. Non importa se si tratta di cose secondarie o, addirittura, di cose inutili e perfino dannose, che sottraggono tempo ed energie per quelle che costituiscono delle necessità reali.

Un ulteriore chiarimento di questo concetto ci può venire, crediamo, prendendo in considerazione quelle categorie di persone che non agiscono in base alle mode o, più in generale, in un clima di superficialità e di inconsapevolezza; che non agiscono, cioè, più o meno convulsamente, nel mondo dell’illusione: ma che sono motivate dalla incessante, personale ricerca della Verità (a prescindere dal fatto che essa possa sfuggir loro, ossia dal risultato pratico): artisti, poeti, filosofi, uomini e donne di fede e di alta spiritualità.

Ebbene: per ciascuno di essi, l’idea che riuscire a fare più cose in un minor tempo sia un bene auto evidente, è palesemente presuntuosa e ridicola. Che cosa vorrebbe dire, infatti, tradotta nella dimensione della loro ricerca: dipingere più quadri o sculture; comporre più poesie; sviluppare un maggior numero di ragionamenti su ciò che è reale; pregare e meditare sei o sette volte al giorno, invece di una o due?

Via, siamo seri. L’essenziale non è mai riuscire a fare più cose, ma riuscire a fare bene ciò che deve essere fatto; e ciò vale anche per la dimensione del quotidiano e del materiale. Per il falegname, ad esempio, costruire un mobile ben fatto e destinato a durare nel tempo, è cosa assai migliore che costruire due o tre mobili mal fatti e destinati a usurarsi rapidamente.

Tornando al viaggiare: che senso ha spostarsi più volte e a grandi distanze; prendere numerosi arerei, treni, navi; soggiornare in luoghi lontani ed esotici, se ciò non si traduce affatto in una reale conoscenza di quei luoghi, di quei popoli, di quei costumi?

E il viaggiare moderno è proprio così: banale, omologante, meschino. Ci si sposta senza nulla vedere dei luoghi attraversati: perfino sulle corriere a lunga percorrenza si preferisce guardare la televisione, piuttosto che ammirare il paesaggio dal finestrino. Si alloggia in alberghi di tipo internazionale, ove si mangiano cibi preparati secondo una cucina internazionale; si comunica a mezzo di interpreti e guide turistiche; ci si rivolge, per ogni esigenza, a una ristretta cerchia di agenzie autorizzate.

In breve, non si vede e non si sperimenta nulla di autentico.

Vi sono poche cose più deprimenti di queste folle di turisti, stanche per il troppo girare a vuoto, che invece di contemplare i capolavori dell’arte, bevono Coca-Cola; che invece di guardare, di chiedere, di stupirsi, leggono giornaletti di gossip: che invece di fare silenzio e sforzarsi di capire, parlarono e ridono rumorosamente.

Se questo è il viaggiare moderno, allora è meglio, molto meglio, starsene a casa.

E provare, magari, a dedicare un po’ del proprio tempo ai viaggi che sono di gran lunga più importanti per la vita di un essere umano: quelli dell’anima verso la Verità.