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Caso Fiat: dagli aiuti di Stato alla convenienza speculativa (parte I)

di Mario Consoli - 14/01/2011


 
 
La crisi finanziaria che grava sulle economie di tutte le nazioni – particolarmente quelle occidentali ed europee – aiuta a individuare con chiarezza l’obbiettivo finale delle forze attualmente dominanti: i cosiddetti “poteri forti”. L’eden del Mondialismo – un traguardo ormai quasi completamente raggiunto – è a questo punto palese e verificabile da tutti: moneta, grande industria e mezzi d’informazione in mano a un gruppo di banche supernazionali, di proprietà strettamente privata, che soggiogano le nazioni, espropriate ormai del tutto di ogni sovranità e inchiodate nello sterile ruolo – un vero e proprio supplizio di Sisifo – di inseguire un debito pubblico sempre più grande – conseguenza della natura clientelare e demagogica dei regimi democratici – e non risanabile, per l’impossibilità di controllare il denaro, la sua emissione, la sua gestione e il profitto da signoraggio.
Il grado di civiltà politica raggiunta, cioè la dura e difficoltosa conquista di una equa regolamentazione dei diritti e doveri tra i singoli cittadini e il potere – quello che in Italia si è chiamato “Stato sociale” – è ormai abbandonato a una fatale deriva.
In tale scenario di progressivo arretramento si manifestano inoltre situazioni anomale e contraddittorie sulle quali è opportuno soffermarsi. Seguendo l’onda del libero mercato e della globalizzazione, si è provveduto a privatizzare tutto, togliendo allo Stato la possibilità di indirizzare lo sviluppo economico, garantire i servizi pubblici e dirigere le produzioni di interesse nazionale.
In questo quadro l’imponente costruzione dell’IRI è stata malamente liquidata. Ciò nonostante, quando subentrano difficoltà, da parte dei privati, si torna a chiedere allo Stato, senza ritegno alcuno, interventi e aiuti economici. Con una differenza sostanziale, rispetto al passato: oggi finanza e industria non accettano, in contropartita, alcun controllo, alcuna compartecipazione gestionale, e non offrono alcuna garanzia di utilizzare gli aiuti ricevuti esclusivamente all’interno della realtà economica nazionale.
È accaduto proprio questo, spudoratamente, per la crisi delle banche; continua ad accadere, ad ogni piè sospinto, in tutti i casi di difficoltà dei vari settori industriali.
Quando, nello scorso agosto, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha annunciato la decisione di trasferire parte della produzione auto da Mirafiori nei nuovi stabilimenti in Serbia, il clamore è stato grande. Da più parti si è sottolineato il fatto che l’azienda torinese, così facendo, arrecava un serio danno agli equilibri sociali ed economici, già instabili, dell’industria italiana. Ma, lapidaria e chiarificatrice, è giunta la dichiarazione del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi: “In una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”. E in effetti l’affermazione sembrerebbe apodittica, se non si tenesse conto del fatto che l’azienda in questione ha costruito le proprie fortune attraverso un secolo di aiuti di Stato e che, anche per l’avvenire, non mostra alcuna intenzione di rinunciare a questo tipo di sovvenzioni.
Gli aiuti di Stato all’industria privata sono infatti legittimi e importanti quando sono offerti all’interno dell’economia nazionale e a settori trasversali dove operano e producono, tra piccole, medie e grandi, migliaia di aziende nelle varie regioni. Differenti considerazioni vanno invece formulate quando i sussidi sono elargiti a una singola industria, come, ad esempio, in Italia è spesso accaduto per il settore automobilistico e la Fiat. In questo caso, infatti, occorre porsi delle domande precise:
se l’aiuto dello Stato, nelle sue varie forme – contributi a fondo perduto, finanziamenti per la ricerca, incentivi, rottamazioni, cassa integrazione, ecc. – nei decenni non ci fosse stato, quell’industria sarebbe riuscita, con le sue sole forze, ad ingrandirsi sino a sbaragliare tutta la concorrenza e rimanere l’unica del settore a livello nazionale?
- la ricchezza prodotta nei decenni da quell’azienda si è tutta riversata sull’economia nazionale o ha prodotto uno sproporzionato potere concentrato in una singola famiglia di capitalisti che, coerentemente allo spirito del libero mercato, ha spostato e continua a spostare nel mondo, a propria insindacabile discrezione, i suoi investimenti seguendo solo la bussola della convenienza speculativa?
- è compatibile questa situazione di privilegio – sganciato da vincoli nazionali – col fatto che gli aiuti ricevuti, essendo pubblici, provengono dalle tasche dei cittadini italiani?
Sarà istruttivo, dunque, per cercare risposte convincenti a queste domande, ripercorrere, almeno per sommi capi, la storia della Fiat, scegliendola come esempio estendibile a tutta la realtà industriale.
Nell’accingermi a sintetizzare questa storia, mi torna in mente un caro amico che incontrai, purtroppo solo per un breve periodo, all’inizio degli anni Ottanta: Gianni Mazzocchi.
Una parentesi su quell’incontro mi sembra degna di un certo interesse. Si tratta di un personaggio di primissimo piano; uno dei più importanti editori del giornalismo italiano, che operò quando esisteva ancora qualche libertà di dar vita a giornali e arrivare nelle edicole senza dover subire, come oggi puntualmente avviene, il condizionante controllo di qualche gruppo bancario.
Nel 1929, a soli ventitré anni, fondò l’Editoriale Domus, rilevando l’omonima rivista creata l’anno precedente da Giò Ponti, ancor oggi la più importante vetrina italiana di architettura e arredamento.
Solo Domus non fu un’invenzione di Mazzocchi; tutte le testate che seguirono furono invece frutto della sua prorompente creatività: Panorama, L’Europeo – precursore di tutti i grandi rotocalchi del dopoguerra –, Settimo Giorno, Il Mondo. E divenne proverbiale il suo intuito nello scoprire “talenti”; fu il primo ad assumere Indro Montanelli quando era un giovane apprendista giornalista.
Amava immaginare e realizzare nuove iniziative, lanciarle sul mercato e portarle al successo. Negli anni Cinquanta, con i suoi giornali, Mazzocchi era in edicola con un milione di copie ogni settimana. Poi, raggiunti gli obbiettivi, perdeva l’entusiasmo, si distraeva con nuovi progetti e finiva per cedere le testate, vendendole senza speculazioni o addirittura, come per Il Mondo, regalandole.
Personaggio davvero sempre fuori dagli schemi. Angelo Rizzoli gli dette del “cretino”: “Tu fai bellissimi giornali e non ci guadagni. Io li faccio brutti e guarda cosa guadagno”. “Li faccio per divertirmi, e mi ci diverto” fu la risposta di Mazzocchi.
Alla fine troncò con i settimanali anche perché, raggiunti quei livelli di diffusione, c’era il rischio che divenissero inevitabili quelle connivenze politiche e finanziarie che lui vedeva come fumo negli occhi.
Fondò allora Quattroruote, che divenne subito il più importante e diffuso mensile di auto e motori d’Italia, e su questa iniziativa incentrò tutte le energie e gli entusiasmi. Supportato dal successo di questo mensile intraprese e vinse battaglie memorabili, tutte dedicate alla sicurezza sulle strade. Nel 1959 indusse il governo a ridurre il prezzo della benzina; spinse per la costruzione dell’Autostrada del Sole; ottenne l’abolizione della corsia centrale di sorpasso comune ai due sensi di marcia; si impegnò per far diventare obbligatorio il faro retronebbia rosso; riuscì a far vietare i cartelli pubblicitari lungo le autostrade, giudicandoli pericolosa causa di distrazione nella guida.
Gianni Mazzocchi nel 1983 ebbe l’occasione di leggere l’Uomo libero, rimase colpito e volle conoscerci. Dedicò una pagina intera per presentarci ai suoi lettori. “È uscita una rivista di eccezionale valore culturale” scrisse; e ancora: “Vorremmo che almeno i migliori e più colti lettori di Quattroruote potessero conoscerla”. E continuò con l’elenco degli articoli che sino allora avevamo pubblicato, tra i quali spiccavano quelli storico-revisionisti di Piero Sella, quelli incentrati sui valori e sul costume di Sergio Gozzoli e i miei, dedicati all’analisi politica.
Dopo tanti anni di esperienze giornalistiche e di vita, Mazzocchi era giunto a forti convinzioni critiche sul destino dell’Italia e dell’Europa. Si era reso conto del pesante prezzo che il nostro popolo era costretto a pagare per la scomparsa dei valori, per il perdurare nella mistificazione della storia e per la perdita della sovranità. Sentiva con chiarezza che c’era bisogno di una decisa sterzata e che i tempi erano maturi per lanciare alla pubblica opinione un discorso culturale e politico nuovo, e che ciò poteva essere fatto con noi de l’Uomo libero.
Una scelta che nell’Italia degli anni Ottanta appariva decisamente coraggiosa e controcorrente, tanto più se effettuata da un consolidato editore di successo. Mentre per noi rappresentava infatti il coerente approdo di antiche scelte e maturate analisi, per Mazzocchi le cose erano differenti. Poteva addirittura stupire una tal drastica svolta e una così forte presa di coscienza da parte di chi aveva sin lì dato voce, sui propri giornali, a firme come Enzo Biagi, Camilla Cederna, Diego Buzzati, Alberto Moravia, Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio e Indro Montanelli, tutte lontane anni-luce dal nostro percorso politico e culturale e dal nostro mondo di valori.
Parlammo a lungo, su cosa fare e su come farlo, scendendo anche nel dettaglio dei particolari. Mazzocchi giunse addirittura a proporre, per sfruttare l’altissima tiratura di Quattroruote, di inserire in quella rivista un fascicolo in busta chiusa con scritto all’esterno che conteneva argomenti non concernenti auto o motori, ma che era destinato solo a un pubblico qualificato, libero e intelligente. “Così siamo sicuri che tutti lo leggeranno!”.
Noi avevamo già cominciato a scrivere e si stava predisponendo tutto per varare questa coraggiosa iniziativa, quando una brutta malattia si mise di traverso e bloccò tutto. Mazzocchi si aggravò velocemente e fu costretto a rinunciare ai suoi impegni. Ci lasciò il 24 ottobre 1984.
Si dissolse così la fattibilità di un progetto che certamente era ardito e controcorrente, ma cui oggi, osservando con occhio attento la storia degli anni Ottanta – un periodo di grandi cambiamenti; si pensi che proprio allora prese corpo la Lega di Umberto Bossi –, possiamo tranquillamente attribuire ampie potenzialità di successo.
Chiusa questa parentesi “fuori tema”, torniamo all’oggetto della nostra trattazione.
Fu proprio durante gli incontri con Gianni Mazzocchi, nella sua casa al mare di Gabicce, nelle sue Marche, e nella sua villa di Gignese sul Lago Maggiore che, grazie ai suoi racconti densi di esperienze dirette e competenza, imparai a conoscere a fondo e nella giusta luce fenomeni industriali come la Fiat e a valutare quanto fosse stata determinante, per i loro successi, la benevola, favorevole e talvolta persino “complice” mano protettrice dello Stato.
Alla fine dell’Ottocento la comparsa del motore a scoppio applicato nella costruzione di veicoli affascinò molti e furono numerose le aziende che presero le mosse per fabbricare questi nuovi mezzi di trasporto. L’11 luglio del 1899 un gruppo di imprenditori fondò la Fabbrica Italiana Automobili Torino con un capitale di 800.000 lire diviso in 4.000 azioni. I padri fondatori furono tre nobili (il conte Roberto Biscaretti, il conte Emanuele Cacherano e il marchese Alfonso Ferrero), due avvocati (Carlo Racca e Cesare Goria Gatti), un piccolo imprenditore (Michele Lanza, produttore di candele di cera), il possidente Lodovico Scarfiotti, il banchiere Michele Ceirana-Mayneri e l’agente di cambio Luigi Damevino.
L’idea iniziale era stata del conte Cacherano e dell’avvocato Goria Gatti, grandi appassionati di automobili, che furono anche i promotori dell’ACI, l’Automobile Club d’Italia.
Alla società doveva partecipare anche Giovanni Battista Ceirano che – per la sua esperienza di produzione artigianale di autovetture – era considerato il migliore esperto meccanico sulla piazza. Ma – si disse per questioni di rango – Ceirano fu escluso e Michele Lanza, ritenendo ciò un grave errore, il 10 luglio, il giorno precedente la firma dell’atto costitutivo, si ritirò dall’affare. La sua quota azionaria fu spartita, in fretta e furia, tra il Banco di Sconto e Sete e un possidente di Villar Perosa, il trentatreenne Giovanni Agnelli.
Ma Giovanni Battista Ceirano e la sua competenza, questioni di rango a parte, effettivamente rappresentavano un ghiotto boccone per chi volesse costruire automobili nella Torino di quel fine secolo. Ed erano considerati preziosi anche le maestranze, già valide e selezionate – uno dei giovani meccanici di questa azienda si chiamava Vincenzo Lancia – e i progetti già collaudati dell’Accomandita Ceirano e C. Da quell’azienda era già stato messo sul mercato un nuovo modello di automobile, la Welleyes che, nonostante il nome straniero – scelto perché richiamava quello di una bicicletta di successo – era tutta italiana, anzi torinese.
La prima delibera del Consiglio d’Amministrazione della neonata Fiat riguardò proprio l’acquisto della Ceirano. Cacherano e Goria Gatti erano riusciti ad avere in mano le garanzie di quella fabbrica, rilasciate per ottenere finanziamenti, e fu così facile acquistare tutto – attrezzature, disegni, brevetti e maestranze specializzate – per sole 30.000 lire, meno del prezzo di vendita di due autovetture. A Giovanni Battista Ceirano, obtorto collo, non rimase che accettare l’assunzione, come agente di vendita, nella nuova azienda.
La prima auto messa in produzione dalla Fiat fu la 31/2 HP, copia identica della Welleyes.
I sistemi “disinvolti” usati dalla Fiat per acquisire tecnologia, progetti, mercati e maestranze fagocitando la concorrenza non furono utilizzati solo nel caso Ceirano, ma anche in molte altre occasioni nel corso dei decenni.
Nella stessa riunione costitutiva del Consiglio d’amministrazione fu eletto presidente Scarfiotti e segretario, come consuetudine, il più giovane, Giovanni Agnelli, che da quella carica iniziò la fulminea carriera che lo condusse a divenire – nonostante le inizialmente poche azioni in suo possesso – prima “membro delegato del Consiglio” e poi Amministratore delegato.
Agnelli indubbiamente fu un grande organizzatore e un abilissimo manipolatore di giochi finanziari, ma ciò che più lo aiutò nel perseguire i successi che conosciamo, fu la sua capacità di ottenere commesse di Stato – militari e civili – intrattenendo ottime relazioni col potere: monarchia, governo, amministrazioni locali. Grazie a ciò, oltre alle forniture – che già lo ponevano su un piano privilegiato rispetto alla concorrenza – iniziò la serie doviziosa e infinita delle sovvenzioni pubbliche.
Come sempre, agli uomini di successo, oltre alle qualità professionali e allo spirito imprenditoriale non deve far difetto la fortuna. E ciò è confermato anche dalle vicende legate agli inizi della Fiat.
Si narra che la monarchia in Italia frenasse sugli investimenti da parte dello Stato nel settore automobilistico. Vittorio Emanuele – mostrando grande “lungimiranza” – considerava i nuovi mezzi di trasporto “macchine pericolose ed abominevoli”. Questo fino al 1904, anno in cui un guasto ferroviario bloccò Sua Maestà alle porte di Roma. Il principe Colonna giunse prontamente con la sua nuova Fiat a soccorrere il sovrano e condurlo al Quirinale. Vittorio Emanuele rimase talmente ben impressionato che non solo ribaltò il suo giudizio sulle automobili, ma dette istruzioni affinché alla Fiat fosse immediatamente concesso il titolo di “Fornitore della Real Casa”. Il re, nel luglio del 1905, volle recarsi personalmente a visitare, a Torino, gli stabilimenti di via Dante.
Ma la scalata di Agnelli non fu solo una sequela di facili successi.
Per fare il grande balzo verso un vero e proprio livello industriale, operò attraverso giochi finanziari e finanziamenti, a dir poco, arditi. Primo passo fu – quando si era raggiunta la produzione di cinquanta auto al mese – la riduzione ad un ottavo del valore nominale delle azioni, allargando così a dismisura il numero degli investitori e contemporaneamente espropriando il gruppo dei fondatori, eccezion fatta per i registi dell’operazione: Agnelli, Scarfiotti e Damevino. Successivamente, con la complicità della Banca Commerciale – del banchiere ebreo polacco Giuseppe Toeplitz – vengono annunciati enormi utili, pagati favolosi dividendi, allargato ulteriormente il numero degli azionisti. Alla fine di questo bailamme i tre “registi”, raggiunto il possesso della maggioranza delle azioni, liquidarono la vecchia società e fondarono una nuova Fiat ricostituita con un capitale elevato a nove milioni, divisi in 90.000 azioni.
Nel frattempo – marzo 1905 – grazie ancora una volta ai buoni uffici della Comit, l’industria di Agnelli rilevò le Officine Meccaniche Ansaldi, pagando un milione di lire una realtà produttiva che al momento dell’acquisto disponeva di ordinativi sufficienti a garantire alla Fiat un utile a breve di 2.450.000 lire.
I risultati di questa operazione – i cui “poco ortodossi” retroscena vennero successivamente alla luce – e la voce, rivelatasi poi infondata, che l’intera Fiat stava per essere venduta per 50 milioni a un gruppo di banchieri inglesi, fecero schizzare il valore delle azioni. Dalle 100 lire dell’anno precedente, nel giugno 1906 aveva raggiunto la quota di 1.885 lire. Nei momenti di massima euforia si ebbero dei picchi addirittura di 2.450 lire.
Ma si trattava di un denso fumo, molto ben diffuso, che però, quando cominciò a diradarsi, lasciò intravedere un arrosto di dimensioni assai modeste. A questo punto la discesa del titolo fu ancora più veloce di quanto lo era stato il suo crescere. All’inizio del 1907 era precipitato a 65 lire; nell’autunno sprofondò a quota 17 lire, otto lire in meno del valore nominale.
Era il crack. A salvare Agnelli e la Fiat, grazie alle altolocate relazioni e alle aspettative di ghiotte commesse militari – già erano state affidate a quell’industria torinese la fabbricazione di autocarri e sottomarini –, intervenne ancora una volta Toeplitz con la sua Comit che, con l’appoggio di tre banche minori – Ceriana, Grasso e Marsaglia – reintegrò il capitale della società in difficoltà.
Mentre la pattuglia dei disinvolti imprenditori Fiat viene salvata, un numero altissimo di risparmiatori e di piccole e medie aziende – molte proprio nel mondo automobilistico – che si trovavano in possesso di quelle azioni, vanno in rovina. A questo punto, in parecchi si fecero avanti per vederci chiaro. La Stampa, ancora non di proprietà della famiglia Agnelli, richiese insistentemente l’intervento della magistratura. Erano già ricorsi al Tribunale, contro la nuova Fiat, i soci fondatori del 1899 tenuti fuori dagli sviluppi successivi, mentre il Banco di Liguria, che deteneva una decina di titoli, aveva impugnato l’atto di liquidazione della vecchia società.
Il 23 giugno 1908 Agnelli, Scarfiotti e Damevino furono denunciati per truffa, “illecita coalizione, aggiotaggio in borsa e falso nei bilanci sociali”. La Questura, nel suo rapporto, accusava gli imputati di aver “provocato nel 1905-1906 enormi e ingiustificati rialzi nelle azioni della Fiat, sia col suddividere le primitive azioni, sia col porre nel marzo 1906 in liquidazione la Fiat per ricostituirla immediatamente dopo con un moltiplicato numero di azioni, sia con l’assorbimento ingiustificato dello stabilimento Ansaldi”. Un altro espediente illecito – proseguiva il rapporto – era stato quello di “avere dichiarato nel bilancio 31 dicembre 1906 utili non realmente conseguiti, che si erano poi divisi nel 1907, epoca nella quale la società già si trovava in condizioni critiche”. Si accusarono inoltre i tre soci di aver diffuso – per far lievitare il valore delle azioni – anche notizie, poi rivelatesi completamente infondate, riguardanti enormi commesse dall’America.
Fu grande scandalo, ma non vi fu alcun arresto.
Il 23 agosto il giudice istruttore rinviò gli indagati a giudizio. Un poderoso collegio di difesa fu subito messo in campo per ottenere proroghe e spostare il dibattimento a tempi nei quali il clamore dello scandalo fosse scemato. Contemporaneamente, pesanti pressioni giunsero sulla Procura. Il ministro della Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, fece sapere che una sentenza di condanna avrebbe potuto “influire in modo sinistro sulla sorte di industrie locali, che sono pure notevoli elementi dell’industria nazionale”. Una ben orchestrata campagna di informazione sulla stampa esaltò, nello scenario della guerra in Libia, il ruolo ricoperto dagli autocarri Fiat 15 bis impiegati nelle operazioni belliche.
Il 22 maggio 1912 il Tribunale giunge a sentenza mandando tutti assolti. Il processo d’appello si aprì il 14 aprile 1913. C’era aria di guerra e di imponenti commesse militari per la Fiat. Arrivò a Torino, per presiedere il collegio di difesa, Vittorio Emanuele Orlando in persona. La conferma dell’assoluzione – una semplice formalità – cadde nel disinteresse più generale.