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Così l’Imperatore svanì nel nulla

di Alessandro Barbero - 14/01/2011

     


Napoleone III, nipote di Napoleone Bonaparte, governò la Francia nella seconda metà dell’Ottocento per un ventennio, grazie a un colpo di Stato che trasformò la Seconda repubblica in un regime assoluto.
Napoleone III fu eletto presidente della Repubblica, ma seppe sfruttare la fragile situazione politica ed economica per attuare un colpo di Stato che gli consentì di diventare imperatore. Il suo fu un regime basato sul populismo, ma sul lungo periodo si rivelò fragile e destinato a sgretolarsi a causa degli insuccessi sia nella politica interna che in quella estera. Fu così che nel 1870 la sconfitta militare di Sedan contro la Prussia mise fine al suo regime e alla sua parabola politica.


Dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone, presidente della Repubblica francese, che il 2 dicembre 1851 mandò in piazza l’esercito e assunse poteri dittatoriali, Cavour annotava: «La paura del socialismo vince nei francesi l’amore della libertà. Gran lezione». La vicenda di colui che è poi passato alla storia come l’imperatore Napoleone III, e che Victor Hugo ribattezzò «Napoleone il piccolo», è di straordinario interesse per chi voglia capire come funzionano le democrazie moderne, soprattutto nei Paesi politicamente lacerati, dove l’odio di partito prevale sull’amor di patria, e dove paure reali o immaginarie hanno più presa sugli elettori dell’attaccamento alla democrazia e alla libertà.
La Francia di metà Ottocento era un esempio da manuale. Il tasso di natalità era crollato in pochi anni fino a rasentare lo zero. L’economia dell’«arricchitevi!», promossa pochi anni prima dal re Luigi Filippo, aveva avuto come risultato, nelle parole di un economista dell’epoca, che «lo spirito imprenditoriale si è tramutato in speculazione e la speculazione in gioco d’azzardo», creando una bolla che poteva scoppiare in qualunque momento. […] Era, insomma, il terreno di coltura ideale per forme di «leaderismo plebiscitario», autoritario, antiparlamentare, populistico, carismatico, e almeno a parole modernizzatore, per riprendere i termini con cui Eugenio Di Rienzo apre la sua densissima biografia politica di Napoleone III. Quando il futuro imperatore aveva appena dodici anni, sua madre gli aveva ricordato che lui, un giorno, avrebbe potuto aspirare al trono, e gli aveva spiegato «che per voi non è impossibile divenire letteralmente un idolo», se avesse saputo persuadere il popolo che lui solo si preoccupava del suo benessere e sapeva prodigarsi per realizzarlo.
Cresciuto fra esilio, cospirazioni fallite, arresti e anni di galera, il giovane principe non perse mai di vista questo obiettivo e affinò l’abilità tattica necessaria per realizzarlo. Divenuto Presidente della Repubblica, badò a ripetere al popolo che lui era uno di loro, che i suoi amici non vivevano nei palazzi del potere ma nei tuguri e nelle officine; e che lui non era il seguace d’un partito, ma l’eletto del popolo, forte di milioni di suffragi. Era l’estate del 1849 e il «Principe-Presidente» si preoccupò anche di avvertire i suoi elettori che «le voci infondate di un colpo di Stato, in cui potrei essere stato coinvolto», erano soltanto calunnie. Puntuale, il colpo di Stato arrivò due anni dopo, al prezzo (che Di Rienzo, biografo indulgente, giudica «contenuto») di quasi un migliaio di morti nelle strade di Parigi, più le vittime, certamente molto più numerose, del «terrore bianco» scatenato in provincia, che fra esecuzioni capitali e deportazioni alla Caienna annientò, o credette di annientare, i temutissimi «rossi».
Assunta la dittatura, Napoleone III si affrettò ad assicurare tutti che il suo regime sarebbe stato moderato, progressista e benevolo. Le Camere rimanevano, anche se non avevano più il potere di proporre le leggi, riservato all’imperatore e al suo Consiglio; così, assicurò Napoleone, non sarebbe più accaduto che perdessero il loro tempo in inutili discussioni, come succedeva sotto la Repubblica. […] Di Rienzo assicura che l’uomo era in buona fede e che rimase lui per primo stupefatto quando si accorse che il sistema non funzionava e il Paese diventava ingovernabile (complice, osserva l’autore non senza indignazione, il «perverso disegno» dell’opposizione che, chissà perché, faceva di tutto per sabotare la politica dell’imperatore). Via via che il conflitto sociale sfuggiva a ogni controllo, che i giornali rialzavano la testa e criticavano con sempre maggior asprezza, che le finanze dello Stato sprofondavano nel dissesto, l’imperatore non seppe far altro che appellarsi ancora una volta al popolo, e il popolo non lo deluse: il plebiscito del maggio 1870 diede più di 7 milioni di sì, contro un milione e mezzo di no e 2 milioni di astensioni. Nemmeno quattro mesi dopo Napoleone III, imbarcatosi nella catastrofica guerra contro la Prussia, era sbaragliato e catturato aSedan, i deputati repubblicani proclamavano la restaurazione della Repubblica, e il rappresentante parigino della banca Rothschild comunicava a Londra che dei sette milioni di votanti neppure uno era disposto a muovere un dito per sostenere l’imperatore: il plebiscito aveva fatto apparire il suo potere invulnerabile, «ora esso svaniva nel nulla senza provocare neppure una voce di protesta». Come direbbe il conte di Cavour, «gran lezione».

Eugenio Di Rienzo, Napoleone III, Salerno Editrice, pp. 715, € 30.