Augé: le periferie tornano al centro
di Di Paolo Lambruschi - 26/05/2006
Violenze nelle banlieues, spopolamento dei vecchi quartieri, nuovi slum planetari... Nell'era più global, la città e le sue contraddizioni
«Solo la città italiana sa far convivere diverse epoche storiche, mantenendo una vitalità sociale che altrove l’Europa rischia di perdere
L'esploratore dei «non luoghi» quotidiani guarda preoccupato alle metropoli che crescono a dismisura nell'era globalizzata, con sterminate periferie e conflitti sociali insanabili. Sono le città-mondo, per dirla con Marc Augé, etnologo e antropologo francese, vale a dire «un'immensa città in cui lavorano gli stessi architetti, dove si ritrovano le stesse imprese economiche e finanziarie, dove circolano gli stessi prodotti e le stesse merci. D'altra parte, la grande città è un mondo dove si ritrovano tutte le contraddizioni e i conflitti del pianeta, conseguenze dello scarto crescente tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, il terzo e il quarto mondo, le diversità etniche e religiose». Augé ha tenuto una conferenza ieri a Milano al convegno «Tra i confini: città, luoghi, integrazione», organizzato da Unidea e dall'Accademia della carità. Per lo studioso, che ha coniato dieci anni fa il fortunato termine «non luoghi» per definire gli spazi urbani di grande passaggio e spersonalizzanti dove trascorriamo molto tempo, come i centri commerciali o le stazioni, le rivolte dei mesi scorsi nelle banlieues parigine sono il sintomo di un malessere delle periferie, che rischiano di diventare «discariche della globalizzazione». Secondo un rapporto Onu sugli slums planetari, un abitante su tre nel mondo (circa un miliardo di persone) vive infatti in una bidonville e, secondo le previsioni, nei prossimi trent'anni andranno a vivere nelle metropoli altri 2 miliardi di individui. «Ma l'urbanizzazione - sostiene Augé - esprime le contraddizioni della globalizzazione, il cui ideale di libera circolazione dei beni, delle idee, delle informazioni e degli esseri umani è condizionato dalla realtà dei rapporti di forza che dominano il mondo».
Come giudica la protesta giovanile che ha sconvolto soprattutto Parigi, la città-mondo per antonomasia del Vecchio continente?
«La protesta dei precari non è riuscita a generare un movimento di solidarietà trasversale paragonabile a l maggio del 1968. Anche per la violenza di queste manifestazioni. Che spesso non era imputabile agli studenti universitari, ma ai casseurs delle periferie, le categorie più disperate e meno scolarizzate».
Come si spiega questa esplosione di violenza?
«Da voi la conflittualità sociale è meno pronunciata che nella Francia delle grandi mobilitazioni popolari, dove la violenza di massa è spesso una reazione a una presenza dello Stato e della polizia fin troppo invasiva nella vita dei cittadini. Parigi oggi è una delle capitali mondiali in cui vi è maggiore dispiegamento dell'esercito e delle forze dell'ordine in funzione antiterrorismo e antisommossa».
Ma il movimento di protesta di queste categorie marginali può diffondersi nelle altre metropoli del vecchio continente?
«Credo sia nato in un contesto specifico, la maggior parte dei manifestanti erano infatti cittadini francesi anche se di varia origine etnica. Tuttavia, uno degli aspetti dominanti della rivolta è che tale cittadinanza resta sulla carta. E le lotte dei giovani precari europei sono soprattutto indice di una richiesta di reale cittadinanza di chi si sente escluso dalla società dei consumi, simboleggiata dal non-luogo del centro commerciale. Questa richiesta di inclusione accomuna tutti gli immigrati di seconda generazione divenuti cittadini europei. I rischi ci sono, ma si possono dare delle risposte».
Quali?
«Va superato il sogno degli anni Sessanta che per molti era di lavorare nel proprio Paese. Questo modello non funziona più nelle metropoli contemporanee. Chiediamoci ad esempio perché tanti ragazzi delle banlieues vanno male a scuola. Per me i motivi vanno ricercati nella differenza e nell'incomunicabilità generazionale esistente tra genitori spesso analfabeti e i figli e nell'immobilità sociale e istituzionale che condiziona la vita delle persone in base al ceto di appartenenza. Una vera integrazione può passare solo attraverso un investimento decisivo nell'istruzione. Bisogna quindi promuove re un'istruzione democratica che dia a tutti le stesse possibilità. È una scelta politica precisa che richiede un massiccio investimento economico. Non capisco perché si sia sempre pronti a trovare soldi per le guerre armate e mai per una guerra all'ignoranza che potrebbe davvero esportare la democrazia. Istruire è costoso, ma ne va del nostro futuro».
Perché si dice scandalizzato dal turismo, altra caratteristica della globalizzazione?
«Migliaia di persone scappano dai Paesi del Sud del mondo perché sono costretti a uno stile di vita insostenibile e noi occidentali andiamo in questi stessi posti a trascorrervi meravigliose vacanze. Lo trovo tremendo e credo che in un mondo veramente mobile questo non dovrebbe succedere».
Come valuta le nostre città?
«Più vive di quelle francesi, ma ovunque c'è una tendenza allo svuotamento dei centri storici che andrebbe invertita. Ogni volta che sbarco a Roma o a Milano, mi sorprende il fatto che nel centro storico continuino a convivere diverse epoche storiche, anche dal punto di vista sociale. In Francia c'è la tendenza a trasformare i centri storici in musei, isolando i palazzi antichi, illuminandoli dal basso nell'illusione di valorizzarli. E così i quartieri storici vengono svuotati dai loro abitanti di una volta. In Italia, invece, si possono ancora incontrare botteghe e attività economiche accanto a un edificio trecentesco. La città italiana, insomma, mantiene ancora un dinamismo e una vitalità sociale che altrove l'Europa rischia di perdere».