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L’attrazione verso l’orrore è un grande cono d’ombra dell’anima umana

di Francesco Lamendola - 21/01/2011


«Lo squalo adesso sentiva il suo odore, e quelle vibrazioni - discontinue, precise - erano un segnale di preda in difficoltà. Cominciò a girare in cerchio salendo verso il pelo del’acqua. La pinna dorsale affiorò e la coda, con le sue possenti sferzate, tagliò con un sibilo la superficie lucente. Il corpo era percorso da una serie di fremiti.
Per la prima volta la donna ebbe paura, senza conoscerne il motivo. Una scarica di adrenalina si diffuse in tutto il corpo generando un calore formicolante e spingendola a nuotare più in fretta. A occhio e croce si trovava a una cinquantina di metri dalla riva. Poteva scorgere la sottile riga di spuma bianca là dove le onde si infrangevano contro la spiaggia. Le luci della casa erano visibili., le parve anzi di vedere qualcuno passare avanti a una finestra, e questo la rincuorò.
L’animale era a una dozzina di metri da lei, di lato, quando puntò bruscamente verso sinistra, si immerse completamente sott’acqua e con due rapidi colpi di coda le fu addosso.
Dapprima la ragazza pensò di avere urtato contro uno scoglio o un pezzo di legno galleggiante. Non ci fu dolore immediato, solo un violento strattone alla gamba destra. Abbassò un braccio per toccarsi il piede muovendo la gamba sinistra per tenersi a galla, e muovendo a tentoni la mano in quel buio. Non riusciva a trovare il piede. Cercò più in alto e fu soprafatta da un’ondata di nausea e vertigini. Le dita cieche avevano incontrato uno spuntone d’oso e carne lacerata. E capì che quel caldo fiotto pulante contro la sua mano nell’acqua gelida era il suo sangue.
Dolore e panico l’aggredirono insieme. La donna arrovesciò la testa all’indietro e lanciò un urlo gutturale di terrore.
Lo squalo si era allontanato. Inghiottì l’arto della donna senza masticare. Ossa e carne scivolarono oltre l’enorme gola in un’unica contrazione. L’animale si volse di nuovo, seguendo il flusso di sangue che scorreva dall’arteria femorale della preda: una guida chiara e sicura come un faro in una notte senza nubi. Questa volta lo squalo aggredì da sotto.  Si scagliò in su, verso la donna, le mandibole spalancate. Il grosso muso conico l’investì come una locomotiva, lanciandola quasi fuor d’acqua. Le mascelle si serrarono intorno al torso, riducendo in poltiglia ossa, carni e organi interni. L’animale, con il corpo della ragazza tra i denti, ripiombò in acqua facendola schioccare violentemente, sollevando spruzzi vistosi di spuma e sangue fosforescente.
Sotto la superficie lo squalo scosse rabbiosamente la testa resecando con i denti triangolari, seghettati, i pochi tendini che ancora resistevano. Il cadavere si squarciò in due. Lo squalo inghiottì, poi si volse per continuare il pasto. Il cervello ancora registrava segnali di cibo vicino. L’acqua era striata di sangue e brandelli di carne, e l’animale non riusciva a distinguere i segnali dalla sostanza stessa. Guizzò avanti e indietro nella nube di sangue che andava dissipandosi, aprendo e chiudendo le fauci cercando bocconi a caso. Ma ormai gran parte dei brani del corpo si erano dispersi. Alcuni affondarono lentamente fino a posarsi sul fondo sabbioso, oscillanti nella corrente. Altri si allontanarono, appena al di sotto del pelo del’acqua, sospinti dalle onde che andavano a smorzarsi a riva.»

Orribile, vero? Eppure, si direbbe che questo genere di sensazioni piaccia al pubblico.
È un brano tratto al romanzo di Peter Benchley «Lo squalo» (titolo originale: «Jaws», 1974; traduzione italiana di Mariapaola Ricci Dèttore, , Milano, Mondadori, 1974, pp.  11-12); che, se dal punto di vista letterario può considerarsi, semplicemente, non letteratura, dal punto di vista sociologico ha invece moltissime cose da dirci, visto che divenne subito un best-seller e che il film ad esso ispirato, anzi, la serie di film ad esso ispirati, con tutte le loro sequenze sanguinolente e raccapriccianti, tennero per settimane assediati i botteghini dei cinema da un numero strabocchevole di eccitatissimi spettatori.
Si noti che lo scrittore - così come farà il furbo regista, Steven Spielberg - non si limita, come avrebbe potuto benissimo fare, a suggerire la tragedia della ragazza assalita dallo squalo, magari concentrandosi sulle sue sensazioni di terrore e poi “staccando” bruscamente la scena, per proiettarci «post factum» (bisognerebbe pur lasciare qualche cosa all’immaginazione del pubblico); bensì indugia, con compiacimento morboso e con effetti granguignoleschi, nel descrivere tutti i particolari dell’orribile pasto dell’animale e perfino la sorte che tocca ai singoli resti del corpo della sua sfortunata vittima.
Qui siamo in presenza di qualcosa di più del semplice - semplice, si fa per dire - piacere della paura; qui siamo avanti ad uno dei grandi coni d’ombra dell’anima umana: l’attrazione verso l’orrore per l’orrore; quella stessa attrazione su cui prosperano i giornali e le reti televisive, allorché si gettano come avvoltoi su qualche cruento fattaccio di cronaca e lo girano e lo rigirano, con morbosa curiosità, davanti agli occhi ipnotizzati del pubblico.
Né si deve credere che il fenomeno sia tutto moderno: anche se è di moda, fra una certa “intellighenzia” progressista, magari al caviale, dare sempre tutte le colpe alla modernità (benché essa indubbiamente ne abbia molte), si tratta in realtà di un fenomeno antichissimo, testimoniato ampiamente, ad esempio, già nei poemi omerici.
Ecco come l’autore dell’«Iliade» descrive la morte del guerriero pèone Asteropeo, che si era vantato discendere dal fiume Assio, per mano di Achille; e come il poeta indugia a descrivere i pesci che si affrettano a banchettare con i suoi visceri, sparsi nell’acqua del fiume Xanto (XXI, 173-204; traduzione italiana di Rosa Calzecchi-Onesti, Torino, Einaudi, 1950):

«Lo colse al ventre, sull’ombelico, e tutte di fuori 
si sparsero in terra le viscere:  l’ombra coperse i suoi occhi
che rantolava; e Achille gli fu sul petto,
ne spogliò l’armi e disse parola vantandosi:
“Giaci così: difficile dell’onnipotente Cronide
Lottar coi figli, anche pel nato a un fiume. […]
Ecco che t’è vicino un gran fiume», se può 
giovarti…Ma no, che non vale lottare con Zeus Cronide, 
con lui non può misurarsi nemmeno il gagliardo Acheloo,
nemmeno la forza grande d’Oceano acque profonde,
da cui tutti i fiumi e tutto intero il mare,
tutte le fonti e i pozzi cuoi traboccano;
eppure anch’esso teme la folgore del grande Zeus,
e il tuono orrendo, se dal cielo rimbomba”.
Disse, e dalla pendice strappò l’asta bronzea,
lasciò lì il morto, poi che gli tolse la vita,
disteso sul greto, lo inzuppava l’acqua nera.
Anguille e pesci intorno a lui s’affannavano,
strappando il grasso dalle reni o rodendolo…»

A parte l’incomparabile superiorità artistica e la potente, drammatica potenza descrittiva di questi versi, al fondo di essi vi è il medesimo cono d’ombra dell’anima, lo stesso compiacimento dell’orrore, lo stesso mistero della contemplazione sadica.
Il sadismo, peraltro, può essere implicito o esplicito; nella scena di Asteropeo è implicito; mentre nel brano che ci accingiamo a riportare - di nuovo, scendendo dalle alte sfere dell’arte ai livelli più bassi della letteratura di consumo - esso è esplicito e strizza decisamente l’occhio ad un pubblico femminile dal palato grosso, mescolandosi inestricabilmente al masochismo latente delle lettrici, portate ad identificarsi con l’eroina della situazione.
La scena è tratta dal romanzo «L’estasi di Purity» di Yanette Seymour; la protagonista è stata catturata dalla nave pirata di una donna musulmana chiamata Azizza, che la interroga e le rivela di essere l’amante di suo marito; al che la nostra eroina, sconvolta e furiosa, la schiaffeggia (titolo originale: «Purity’s Ecstasy», 1978; Gruppo Editoriale Fabbri, Sonzogno, Etas, 1980 pp. 50-51):

«”Prendetela!” ordinò seccamente Azizza. I due bruti seminudi agguantarono Purity per le braccia., Il petto ansante, Purity fissò con furore la donna in poltrona, che ricambiò lo sguardo.
“È una menzogna!” ansimò Purity. “Mio marito non entrerebbe mai nel vostro letto, né nel letto di una qualsiasi altra donna. I nostri due corpi sono consacrati l’uno al’altro, unicamente.”.
Azizza si passò sulle labbra il dorso della mano  dalle lunghe dita e abbassò lo sguardo a osservare il sangue che macchiava la pelle scura.
“Questo schiaffo lo pagherete caro, signora Landles”, dichiarò. “E me lo pagherete subito. Ugo, denuda l’infedele e sollevala per la fustigazione.
Il ghignante Ugo si portò alle spalle di Purity, trattenuto da suoi accoliti, e afferrato con entrambe le mani il tessuto della leggera veste estiva all’altezza dello scollo, lo strappò fino all’orlo, denudandola sull’istante, a eccezione delle calze di seta fermate dalle giarrettiere. . Fatto ciò, grugnì un ordine a uno dei suoi uomini, il quale, volgendo la schiena nuda e sollevando le braccia, ristette pronto a ricevere la vittima.
La sollevarono di peso, mentre urlava e si dibatteva invano, tempestando di pugni i loro volti ghignanti, e la issarono, il seno e il ventre a contatto del dorso chino dell’uomo che la tratteneva per i polsi, con i piedi sollevati da terra. Così, Purity era ridotta all’impotenza, il corpo offerto alle loro infami attenzioni.
Azizza si avvicinò e afferrò una folta ciocca della bionda chioma di Purity, tirandole indietro la testa.
“Sappi chi sono, donna”, sibilò. “Io sono Azizza la Corsara. Ho giaciuto con mille uomini e li ho osservati contorcersi sopra di me nei tormenti del piacere.  Ho catturato cento navi e ho ucciso con le mie mani.  Non mi lascerò chiamare bugiarda da una pallida femmina infedele, perché nessuno può permettersi di posare la sua mano su Azizza e sopravvivere. Con mio sommo rammarico, non posso levarti la carne di dosso a frustate, perché ho fatto promessa di portarti viva e intatta ad Algeri e manterrò la promessa. Ugo, mostrale la sferza”.
Il gigante si profilò dinanzi agli occhi di Purity nella mano stringeva una lunga sciarpa di seta gocciolante.
“Sarai fustigata con la seta bagnata”, disse Azizza. “Infligge la più atroce sofferenza, ma non lascia tracce permanenti sulla pelle. Avanti, Ugo!”
Le braccia sottoposte a una tensione che minacciava di slogarle, i polsi serrati nella morsa delle mani dell’uomo che la teneva prigioniera, il seno e il ventre nudi viscidi del sudore di lui, Purity chiuse gli occhi e attese il primo contatto della sferza di seta , lottando disperatamente per evocare con gli occhi della mente la visione del volto adorato di Mark.  Per un orribile scherzo della fantasia, vide quel volto chinarsi sui Azizza e vide le sue labbra,  le labbra che conosceva tanto bene,  posare un bacio sul capezzolo di Azizza. Urlò e l’immagine si frantumò  nella sua mente come uno specchio rotto.
Un attimo più tardi, il primo bacio della seta bagnata le piovve sulle natiche.»

La scena sembra molto ingenua nella sua grossolana aderenza agli stereotipi più triti e consunti del repertorio sadomasochista, così come se lo immaginano, nelle loro fantasie più spinte, le signore e signorine di buona famiglia che leggono libri del genere; eppure non può sfuggire una vena sottile - sottile, si fa per dire - di sensualità morbosa. Valga per tutti l’esempio di quel colpo di sferza con la seta bagnata, che viene paragonato ad un bacio sul fondoschiena della protagonista e che vorrebbe evocare qualcosa di intermedio fra la crudeltà del dolore e l’estasi del piacere.
Nel caso del cinema, che si avvale della componente visiva e di quella sonora, questo tratto oscuro  dell’anima umana, ossia l’attrazione nei confronti dell’orrore, ha raggiunto una vetta, fortunatamente non superata né eguagliata (tranne che negli infami «snuff movies», dove gli attori vengono realmente torturati e uccisi davanti alle cineprese), con il film di Ruggero Deodato «Cannibal Holocaust», girato nel 1980, le cui oscene locandine, che raffiguravano una ragazza india impalata, mentre un cannibale divora dei visceri umani, hanno turbato l’immaginazione di parecchie persone, prima che una sentenza del tribunale decidesse il sequestro della pellicola.
Anche se le accuse di atrocità rivolte al regista erano esagerate, perché risultò che le scene di raccapricciante violenza sugli esseri umani erano tutte simulate (ma non quelle sugli animali: come ben sa l’allora giovane attore Luca Barbareschi, oggi noto uomo politico, che uccise con le proprie mani un porcellino), resta il fatto che il loro spietato realismo e, soprattutto, l’intenzionalità con cui l’occhio della cinepresa indugiava sui particolari più orripilanti, non avevano altro scopo - a parte le solite chiacchiere di giustificazione pseudo-intellettuale “a posteriori”- che quello di far inorridire il pubblico oltre ogni limite fino allora mai tentato, per strappare un successo di scandalo.
E il “successo”, effettivamente, arrivò, anche se legato principalmente alle vicende giudiziarie della pellicola e del regista (e, all’estero, alle lusinghiere cifre degli incassi); ma la bellissima musica di Riz Ortolani non fu sufficiente a riscattare un’opera che si rotolava, letteralmente, nei peggiori istinti sadici, ma non aveva assolutamente nulla da dire sul piano del contenuto, tanto è vero che rimase il massimo “risultato” di quel regista.
Ma perché dilungarci su singoli esempi relativi alla nostra affermazione iniziale? Se volessimo farlo, non  vi sarebbe che l’imbarazzo della scelta; ma crediamo che quelli già fatti siano più che sufficienti, ai fini del nostro discorso.
Gli esseri umani godono dei mali altrui; ma non hanno il coraggio, nella maggior parte dei casi (e per fortuna), di provocarlo intenzionalmente; in compenso, si soffermano con piacere morboso sullo spettacolo di quei mali, specialmente se si tratta di sofferenze fisiche provocate non già da una malattia o da altri eventi naturali, ma dall’azione deliberata di un altro essere umano. 
Si tratta di un voyeurismo a forte connotazione sadica (o, come si è detto, sadomasochista), nel quale lo spettatore (o il lettore) compie un transfert rispetto alla figura del seviziatore. Vorrebbe essere al suo posto, ma, nella vita ordinaria, non lo oserebbe mai; perciò si accontenta di guardare dal buco della serratura la sua opera di carnefice. E la letteratura, il cinema e (in minor misura) la pittura, per non parlare del fumetto o dei giochi elettronici, nonché sport come il pugilato, il catch e simili, offrono numerose occasioni per dare sfogo ad un simile istinto.
A questo punto, l’unica domanda veramente interessante che ci si dovrebbe porre è fino a che punto si dovrebbe accettare che i media svolgano tale funzione di sfogo, la quale, bene o male, dirotta verso esiti non dannosi per la società l’istinto di aggressione maligna; e quando, invece, ci si dovrebbe chiedere se non accada il contrario, cioè se essi stessi fomentino e portino al parossismo un istinto che, pur presente nell’anima umana, per la maggior parte dei soggetti giace assopito. Crediamo che la risposta vada cercata caso per caso, evitando inutili e fuorvianti generalizzazioni, così come moralismi esagerati ed eccessivi allarmismi, ma anche una pericolosa sottovalutazione dei pericoli insiti in tutto ciò.
Bisognerebbe, tuttavia, riconoscere che i media possono amplificare, ma non creare dal nulla un simile istinto; e che esso, misteriosamente, giace nelle profondità dell’anima ed è capace di convivere con sentimenti dolcissimi, come appare nel caso delle fantasie sessuali, le quali, benché talvolta intrise di crudeltà sadiche (o masochiste), normalmente non degenerano in forme di violenza ma, al contrario, corroborano il sano istinto sessuale.
Un mistero, abbiamo detto; e crediamo non vi sia altro modo per definirlo.
Possibile che il Logos calcolante e strumentale non debba mai sospendere la propria smania di tutto razionalizzare, di tutto spiegare, di tutto illuminare, per lasciare il posto alla consapevolezza che, in noi, molte cose sono e resteranno misteriose, e forse è bene che sia così?
Chi ritiene che, nell’uomo, non vi sia alcun mistero, non si pone con il dovuto rispetto verso di lui e non ne riconosce una dimensione fondamentale: la tensione verso l’altrove.