L'Orso americano e il Dragone cinese
di Giacomo Catrame - 04/10/2005
Fonte: Umanità Nova
L'Orso americano e il Dragone cinese
Soldi, armi, potere nel Grande Gioco del terzo millennio
Due avvenimenti hanno segnalato più di altri nel corso di quest'ultima estate lo stato dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina. Quest'ultima da alcuni anni viene guardata dai commentatori geopolitici come l'unico possibile concorrente di Washington al dominio sull'economia mondo capitalistica. Al di la degli scenari futuribili oggi Pechino è saldamente inserita all'interno dell'economia mondiale a guida americana e sta sfruttandone abilmente le aperture complessive per assumerne il ruolo di "officina del mondo" non più solo nei settori ad alto valore aggiunto e basso contenuto tecnologico ma anche in quelli creati dalle nuove tecnologie sulle quali sta avviandosi ad ottenerne la leadership.
La posizione cinese sul terreno economico è talmente forte che Pechino quest'estate ha concesso la rivalutazione della propria moneta (lo Yuan) anche se non nella misura richiesta da anni da europei ed americani. Il presidente americano Bush ha cantato vittoria sostenendo che tale misura era stata decisa da Pechino sotto la pressione dei dazi all'importazione sui prodotti Made in China decisa recentemente dalla sua amministrazione. In realtà la rivalutazione non è così significativa da giustificare l'ottimismo della Casa Bianca (la rivalutazione reale tocca all'incirca il 2%) ed è stata decisa da Pechino anche in vista dei continui aumenti del petrolio, bene che viene quotato in dollari e del quale la Cina è completamente sprovvista. La rivalutazione dello yuan avrà l'effetto di ridurre la facilità delle esportazioni cinesi verso l'area del dollaro (ma non in quote significative, i prezzi sono talmente bassi che ci vorrebbe una rivalutazione superiore al 150% per rendere i prodotti del paese asiatico poco competitivi) ma ha soprattutto quello di abbassare in modo più che proporzionale la spesa estera cinese per le materie prime energetiche o di consentire a Pechino l'innalzamento della domanda di petrolio. In questo quadro, comunque, è difficile che si producano a breve novità significative a causa della forte interdipendenza tra un'economia cinese che necessita di mercati di massa come quello USA per la vendita dei propri prodotti e che dovrà aspettare almeno altri vent'anni prima che il mercato interno assuma una valenza altrettanto significativa, e la maggiore potenza mondiale i cui conti dipendono in larga misura da quanto Pechino decide di fare del proprio surplus commerciale. Finché la quota più significativa continua ad affluire all'interno delle esangui casse del Tesoro americano nella forma di acquisto dei bond della Federal Bank, tutto bene, il giorno che la Cina si sentirà così forte da diversificare i propri investimenti finanziari l'economia degli States verrà investita dalla più spaventosa delle crisi di liquidità vista fino ad adesso nella storia del capitalismo.
Se il piano dell'economia lega le due potenze ad un destino comune per ora difficilmente contrastabile, il piano del controllo mondiale ostinatamente perseguito da Washington per garantirsi proprio la supremazia nel campo finanziario e più in generale della liquidità, ha iniziato ad incrinare rapporti che si erano mantenuti su un profilo molto basso anche in occasione della guerra dell'amministrazione Bush in Iraq o dell'avvertimento mafioso lanciato nel '99 da Washington a Pechino con la distruzione dell'ambasciata cinese a Belgrado, atto che voleva ricordare alla Cina che il suo appoggio a Milosevic non era visto positivamente alla Casa Bianca.
Con la copertura della "guerra al terrorismo" gli Stati Uniti hanno installato fin dal 2001 delle basi militari nei paesi dell'Asia centrale usciti dalla disintegrazione dell'URSS, in particolare Uzbekistan e Kirsghizistan ospitano basi aeree e militari dell'esercito USA. L'Uzbekistan è guidato dall'indipendenza dal presidente Karimov, un ex appartenente al PCUS riciclatosi come filoamericano dopo un breve flirt con la Turchia datato al tempo in cui Ankara aspirava a costituire una sorte di proprio commonwealth tra gli stati abitati dalle popolazioni turcofone del cosiddetto (non a caso) Turkestan. Karimov è oggi considerato uno dei più feroci dittatori dell'area e la sua polizia è nota per l'abitudine di squartare o bollire vivi gli oppositori. Tutto ciò fino a ieri non ha impedito i buoni rapporti con Washington che lo considerava un baluardo contro l'espansione dell'islamismo militante nell'area e dal quale aveva ottenuto la base di Karshi e quella di Termez dove sono ospitati anche reparti aerei tedeschi. Il Kirghizistan è stato teatro questa primavera di una vera e propria insurrezione la cui base è stata sostanzialmente di ordine tribale e motivata dal potere assoluto del quale si era investito il clan presidenziale ma che è stata considerata nell'area la prova generale di una "democratizzazione" in salsa americana di tutta la regione. Anche in Kirghisistan sono presenti gli americani con una base a Kant a pochi silometri da quella gestita dall'aeronautica russa che è rientrata nell'area con il beneplacito proprio del presidente rimosso dalla piazza e dai clan nemici.
I movimenti nell'area di un ambasciatore ufficioso della democratizzazione americana come il finanziere Gorge Soros, la cui fondazione figura tra i finanziatori e i sostenitori maggiori delle rivoluzioni colorate in Serbia, Ucraina e Georgia ha ulteriormente insospettito le classi dominanti di questi paesi. A Maggio Soros è stato ricevuto ad Astana, capitale del Kazakistan, con tutti gli onori e lì ha partecipato ad un seminario sulla democrazia durante il quale ha principalmente puntato il dito contro Karimov e la sua gestione dell'Uzbekistan. Nello stesso periodo sono scoppiati incidenti gravissimi sfociati in una rivolta nella città uzbeka di Andijan. Rivolta repressa ma che ha fatto capire il potenziale di scontento anti karimov presente nel paese asiatico soprattutto nell'area della valle di Fergana, la più intensamente popolata e la più ricca, divisa con Kirghiziztan e Tagikistan e culla fin dai primi anni ottanta dell'islamismo radicale di tutta l'Asia Centrale. Il dittatore uzbeko ha colto la situazione e ha iniziato a denunciare le manovre americane per destabilizzare l'area, introducendovi il simulacro di democrazia che Washington esporta laggiù dove può e che è funzionale all'occidentalizzazione delle classi dominanti dei paesi che ne vengono travolti. Per evitare di fare la fine dei Milosevic e degli Shevarnadze, il dittatore uzbeko si è sbilanciato in senso opposto riavvicinandosi a russi e cinesi e lo scenario di questo giro di valzer è stato il summit dell'organizzazione per la cooperazione di Shangai, organismo che riunisce Cina, Russia e i quattro paesi dell'ex Unione Sovietica in centro Asia. Nel corso del summit di luglio la Cina con l'appoggio della Russia ha spinto per una risoluzione che chiedesse agli USA di evacuare le proprie basi dall'Asia Centrale dal momento che l'allarme terrorismo con la caduta dei Talebani era venuto meno nell'area. A tale richiesta si è subito associato Karimov che una base sul proprio territorio ce l'ha e all'epoca l'ha anche fortemente desiderata, salvo maledirla oggi per le sue possibili conseguenze. Nei giorni successivi anche il nuovo governo kirghizo, teoricamente vicino a Washington, si è associato nella richiesta e i due stati hanno anche lanciato un ultimatum di sei mesi perché le loro richieste vengano accolte. Per ora la Casa Bianca tace e abbozza ma è chiaro che non potrà esimersi da una risposta di fronte a una tale richiesta. Per Washington e la sua crociata per la democrazia sarebbe per lo meno imbarazzante mantenere una base in un territorio davanti alla richiesta del governo del paese perché tale basa venga evacuata.
Pechino è chiaramente dietro a questa escalation nei rapporti geopolitici locali dal momento che la potenza più disturbata dalla presenza americana in quei territori, insieme alla Russia, è chiaramente la Cina che si trovava stretta in una morsa con basi americane in Giappone e Corea ad Est, con la Repubblica di Taiwan protetta dagli Stati Uniti a poche miglia dal proprio territorio, con Thailandia e Malesia sempre più allineate con gli Stati Uniti a sud e con l'ingombrante presenza americana (e, in subordine, europea) nei paesi dell'Asia Centrale. È chiaro che Pechino cerca di rompere un assedio fino ad adesso solo virtuale ma che un domani potrebbe strangolare la Cina. In questo ha trovato un buon alleato nella Russia che, dopo le "rivoluzioni" ucraina e georgiana ha realizzato che gli assetti di potere a Mosca sono il vero obiettivo di Washington e che ha deciso di passare sopra al fatto che Pechino abbia dato il via ad una colonizzazione economica ed umana dei ricchissimi territori siberiani, e si è avvicinata alla Cina. Se le notizie del braccio di ferro tra l'organizzazione di Shangai e gli USA sulle basi in Asia Centrale sono di luglio, è di agosto quella di manovre comuni con comando centralizzato svolte tra cinesi e russi nel pacifico settentrionale e in quelle zone di confine dove i due colossi si sparavano addosso non più di trentacinque anni fa.
Inoltre la paura comune a russi e cinesi è che in nome della democrazia e dei diritti umani gli Stati Uniti lancino un assalto politico ai due paesi con l'obiettivo di disinnescare il potenziale geoeconomico della Cina e di mettere le mani sulle immense risorse della Russia. La nuova collaborazione con il Presidente uzbeko Karimov che da alcuni mesi riceve regali consistenti in oppositori rifugiati a Mosca e consegnati alla polizia del dittatore è un segnale chiaro ed inquietante della crescita del livello del conflitto in un'area che mantiene la sua strategicità, soprattutto a fronte dell'evidente fallimento americano nella costituzione di un governo afgano capace di controllare il paese senza bisogno delle truppe euroamericano e del consenso dei signori dell'oppio e della guerra locali.
A conferma del tendersi dei rapporti tra Cina ed USA è venuta la scelta adottata dal Consiglio d'Amministrazione della Unocal sotto pressione politica diretta della Casa Bianca. L'Unocal, che qualcuno ricorderà per il progetto di gasdotto passante per l'Afganistan per il quale si svolsero negli USA due anni di serrata contrattazione con il governo talebano prima dell'attacco del 2001, è una compagnia petrolifera in vendita contesa tra la compagnia americana (ed ex datrice di lavoro del segretario di stato Condoleeza Rice) Chevron che offriva 63 dollari per azione dei quali solo 27,60 in contanti mente il resto sarebbe stato pagato in azioni Chevron (0,618 per ognuna di Unocal), e la compagnia cinese (per il 70% di proprietà dello stato) Cnooc che offriva 69 dollari per azione e tutti in contanti e cash.
Nella teoria del libero mercato non ci sarebbe stata partita, nella realtà del capitalismo mondiale, sì. E alla fine l'ha spuntata Chevron grazie alle pressioni del Congresso e della Casa Bianca che hanno definito il settore energetico tra quelli strategici e non vendibili a multinazionali estere. In questo modo viene alla luce il segreto di Pulcinella: gli USA e in subordine i paesi europei pretendono l'apertura delle economie degli altri paesi allo scopo di impadronirsene, mentre rifiutano che questo possa accadere per le aziende dei loro paesi. I cinesi oggi come i giapponesi negli anni ottanta (o se per questo gli europei nei confronti degli USA) possono, anzi devono, acquistare titoli pubblici degli States finanziando così il loro deficit, ma non possono nemmeno lontanamente pensare di entrare all'interno dell'economia della prima potenza planetaria. Come l'assalto giapponese all'industria dello spettacolo americana negli anni ottanta fallì davanti a pressioni politiche e militari esplicite, così è fallito il più ambizioso tentativo mai fatto di acquisire quote dell'industria energetica americana da parte di un'impresa non americana. La Cina non è però il Giappone; ha un peso specifico maggiore, ha l'atomica e un esercito vero, non è occupata da basi militari americane e ha un suo potenziale di ricatto economico verso Washington. La questione rischia di non essere così facilmente risolvibile per gli strateghi della Casa Bianca e, anzi, la rinascita del nazionalismo nei rapporti tra le due potenze e in quelli con le altre potenze asiatiche (come dimostra lo scontro Cina-Giappone sui crimini di guerra commessi dall'esercito del Sol Levante sul territorio del vicino, scontro avviatosi in primavera e lontano dalla fine) sembra sulla buona strada con conseguenza che potrebbero essere catastrofiche per le popolazioni dei paesi che si affacciano sul Pacifico.
Giacomo Catrame
Umanità Nova, numero 31 del 2 ottobre 2005, Anno 85