La società industriale contro le società vernacolari.
di Mario Cenedese - 04/10/2005
Fonte: estovest.net
II punto di vista ecologista di Edward Goldsmith.
Innanzi tutto, Edward Goldsmith, inglese di famiglia benestante, nato a Parigi nel 1928, è un ambientalista famoso a livello internazionale non solo per i suoi lavori "scientifici", ma soprattutto per le battaglie portate avanti in prima persona sul fronte ecologico e sociale.
A titolo esemplificativo, ricordiamo i continui interventi di Goldsmith contro le azioni distruttive intraprese dalle grandi banche multilaterali, come la Banca Mondiale, e contro tutti quei programmi di sviluppo che prevedono la costruzione di dighe, di centrali nucleari, che producono devastazioni ambientali nelle foreste tropicali e così via. Inoltre, nel primo numero del 1985 della rivista da lui diretta e sostenuta, The Ecologist, aveva pubblicato una lettera aperta al presidente della Banca Mondiale di allora, R. Clausen, ritenendolo responsabile di sponsorizzare la povertà, la distruzione dell'ambiente e la fame nei paesi terzomondiali.
A tale proposito, Goldsmith ha pure predisposto, più di recente, un numero speciale del The Ecologist in cui ha attaccato duramente il direttore della FAO, E. Saouma, denunciando la sua Agenzia internazionale di perseguire una politica di sviluppo deleteria nei confronti dei paesi poveri.
Infine, nel 1991, a Goldsmith è stato attribuito, proprio per le sue campagne ecologistiche, uno dei più ambiti riconoscimenti alternativi a livello mondiale, quello che viene definito il "Premio Nobel Alternativo" (Right Livelihood Award) presentato ogni anno al Parlamento svedese il giorno che precede la premiazione ufficiale dei Premi Nobel.
Lo stato stazionario
Società stabile, società stazionaria, stato stazionario economico, de-industrializzazione sono sempre stati i concetti-chiave, che Goldsmith ha sviluppato in più di venti anni di attività e di ricerca per tentare di individuare nuove strade da percorrere affinché possa essere recuperata l'antica armonia premoderna tra società umana e mondo della natura.
Tale armonia e stata messa a repentaglio a partire da Bacone e Cartesio e dai pensatori successivi, con la loro visione antropocentrica e, per certi versi, "interventistica" nei confronti degli aspetti naturali, dato che concepivano la conoscenza non più come visione contemplativa che lascia le cose cosi come sono, ma in senso tecnicistico come serie di escogitazioni razionali atte ad operare sulla realtà per modificarla. Il mondo greco e tutte le correnti tradizionali del pensiero antico ritenevano, d'altra parte, che uomo, Stato e natura fossero sottoposti alle stesse norme e seguissero leggi simili, per cui una frattura tra uomo e natura, e tra Stato e natura sarebbe stata considerata una profanazione della sacralità della Terra e del Cosmo.
Goldsmith, nel corso delle sue analisi, individua nel cosiddetto "progresso", inteso come sviluppo della scienza, della tecnologia, dell'industria, del sistema mondiale del mercato e dello Stato Moderno, la causa principale dei numerosi problemi cronici, apparentemente irrisolvibili, che stanno devastando la società attuale, quali la disoccupazione, l'istruzione scadente, la cattiva salute, l'inquinamento, la guerra, l'esplosione demografica, la delinquenza, la tossicodipendenza, e cosi via.
Tali problemi, riconducibili, in sintesi, a due tendenze fondamentali: disintegrazione sociale e degrado ambientale, non vengono affrontati in maniera adeguata dai responsabili del nostro ordine societario perché ciò non è né politicamente opportuno né economicamente conveniente. Diversamente, si tratterebbe di scardinare in modo radicale l'attuale assetto politico-sociale ed economico, "...ponendo il "progresso" all'opposizione..."1, come osserva lo stesso Goldsmith.
Pertanto, invece di applicare espedienti a breve termine, aggiustamenti ad hoc, per coprire le manifestazioni più lampanti dei problemi che stanno a monte, è necessario enucleare quali siano le caratteristiche essenziali di una nuova società liberata dall'ordine-disordine sociale ed economico fondato sullo "sviluppo ad ogni costo", in cui siamo caduti. Tali caratteristiche si possono stabilire solo individuando le peculiarità di base delle società tradizionali del passato che si sono dimostrate in grado di evitare, per anni incalcolabili, la creazione di questi problemi aberranti, che oggi, ci troviamo di fronte.
Tuttavia, come precisa Goldsmith, "...non possiamo ricreare il passato, l'esperienza dell'era moderna non può essere cancellata".2
Oltre il ricordo del passato
L'ecologista inglese in oggetto non è un passatista, come è stato talvolta considerato. Se, nelle sue opere, usa molto spesso come punti di riferimento le popolazioni tribali che vivono in armonia con la natura, è solo perché queste possono fornire un modello reale di comunità stabili e solidali, un esempio da cui trarre orientamenti da seguire per invertire la nostra attuale tendenza alla devastazione ambientale. Dunque, cercheremo ora di descrivere i tratti essenziali, che, secondo Goldsmith, devono qualificare una società stabile. Innanzitutto, tale paradigma sociale si contraddistingue in quanto è un sistema autoregolato ed autogovernato, in cui regna grande disciplina, all'interno dell'ordine gerarchico costituito, senza confusione di ruoli, senza che le parti si sormontino o si scavalchino reciprocamente, fondato su una scala di valori che assicura la subordinazione degli interessi particolari ed egoici dell'individuo a quelli della famiglia e della società nel suo insieme. Come e già stato sottolineato, questi requisiti della stabilità si possono ritrovare nelle società tribali, in cui l'unica istituzione che riscontriamo, nota Goldsmith, "... è quella del consiglio degli anziani, il cui ruolo è quello di interpretare la tradizione tribale e di garantire che essa sia osservata scrupolosamente e tramandata quanto più immutata possibile alle generazioni successive".3
Un'altra peculiarità fondamentale delle società stabili è il carattere eminentemente sociale dei loro cuti e riti; senza di essi, non potrebbero essere assicurate la coesione e la compattezza di tali sistemi, i quali sono contraddistinti da una completa identità tra Stato e territorio. Infatti, nel caso di Roma (durante il periodo repubblicano), come in quello di molte società tribali, "...il territorio che essa occupava era strettamente collegato con la sua religione. Esso era un suolo sacro, il suolo in cui erano sepolti gli antenati della società. Allo stesso modo, la società romana era sacra, dato che a sua struttura era consacrata dai suoi Dei...".4
Non a caso, quindi, spesso si dice che una tribù è composta dai vivi, dai morti e dalle persone non ancora nate -da questo la sua grande continuità, proprio perché i defunti che in vita si erano segnalati per una condotta irreprensibile secondo la tradizione, per atti di eroismo o altre azioni meritorie, non si trasferiscono in qualche remota "Isola dei Beati", ma seguitano a stazionare nel loro villaggio acquisendo il ruolo di figure protettive nei confronti della famiglia e del clan di appartenenza, promossi ad una classe di età più prestigiosa.
La democrazia consensuale
Goldsmith rileva, inoltre, come l'autocrazia fosse sconosciuta tra le società stabili tradizionali. A riprova di ciò, egli cita il caso del re omerico, il quale "... come l'originario re romano, poteva essere detronizzato da una semplice votazione per alzata di mano, esattamente come può esserlo il suo omologo dell'Africa occidentale".5
A tale proposito, è importante osservare come i re di Roma non siano stati rimossi dalla loro carica perché contrari al "progresso sociale", motivazione tipicamente moderna, che, spesso solo a livello di proclami, guida il cambiamento politico, ma per ragioni diametralmente opposte, essi si erano, in realtà, allontanati dalla legge tradizionale in quanto avevano tentato di integrare i plebei nello Stato, essendo questi stranieri e, quindi, non incorporabili nel tessuto sociale originario senza sconquassarlo.
Come e stato in precedenza accennato, un sistema autoregolato è ordinato, nel senso che le sue parti sono differenziate per adempiere a funzioni specializzate e, perciò, non sono affatto autonome, bensì interdipendenti. Ciò significa che esse devono cooperare tra di loro per soddisfare sia i bisogni fondamentali dell'intero sistema di cui fanno parte, sia, nel contempo, le loro specifiche esigenze.
Goldsmith giunge così, in base a tali presupposti, al "principio di cooperazione gerarchica", che vale per il comportamento all'interno di qualsiasi sistema autoregolato, come una famiglia o una comunità, e che potrebbe essere formulalo in questi termini: "...in un sistema autoregolato, il comportamento che soddisfa i bisogni delle parti differenziate soddisfa anche quelli del tutto".6
Questo principio è lettera morta in una società industriale moderna caratterizzata dalla disintegrazione del tessuto sociale, dall'individualismo sfrenato e dal degrado ambientale, nella quale è semplicemente illusorio pensare alla cooperazione dei suoi membri per qualsiasi attività che non sia finalizzata verso interessi parziali di singoli individui o gruppi.
Dalle precedenti analisi emerge, quindi, assai chiaramente come i gravi problemi che stanno facendo precipitare il mondo dentro un abisso senza confini non possono essere risolti con espedienti a breve termine o con provvedimenti ad hoc, ma solamente attraverso un'inversione radicale di tendenza. Secondo Goldsmith è necessario muoversi verso una società stabile o in stato stazionario, in cui "... l'investimento di capitale uguaglierebbe il deprezzamento, le nascite uguaglierebbero le morti, ma il livello effettivo di investimento di capitale e di nascite sarebbe notevolmente più basso di quello attuale -un livello che determinerebbe una "domanda ecologica" che potrebbe realmente essere soddisfatta, cioè una domanda che sarebbe uguale al tasso di recupero naturale. In altri termini, ciò cui dobbiamo mirare non è la crescita, ma una crescita negativa, cioè una contrazione economica e demografica".7
Pertanto, Goldsmith si pone decisamente contro l'idea di progresso economico, contro il predominio dell'economia di mercato, fenomeno, quest'ultimo, che l'economista K. Polanyi considera come una delle grandi calamità che abbiano colpito la civiltà occidentale. L'economia di sussistenza, che è propria delle società primitive, precapitalistiche e premoderne, non conosce il concetto di "scarsità", non conosce la miseria né la povertà che contraddistinguono, invece, le società moderne industrializzate: la scarsità e il suo contrario, l'abbondanza, sono nozioni relative ai bisogni e ai consumi richiesti da un certo tipo di uomo. Ora che spadroneggiano il consumismo e l'anima desiderante, siamo infatti prigionieri dell'idea di "bisogni illimitati" e della tendenza alla massimizzazione del profitto. Prevale, perciò, il comportamento "economico", sconosciuto nelle società tradizionali, in cui le attività "produttive" erano svolte per motivi sociali, come quello di assolvere obblighi di parentela (reciprocità) o di ottenere prestigio.
Goldsmith, inoltre, contrariamente ad uno stereotipo corrente, alla base di tutti i piani di industrializzazione e di crescita economica dei paesi del Terzo Mondo, predisposti da Agenzie internazionali quali la Banca Mondiale e la FAO, precisa che il cosiddetto "sviluppo economico" non migliora assolutamente il tenore di vita della società intera. All'opposto, esso determina effetti controproducenti assai sgradevoli, come, ad esempio, la disoccupazione e l'incremento demografico incontrollato.
"Non dimentichiamoci -osserva sempre Goldsmith- che la maggior parte dei nostri congegni tecnologici è necessaria proprio allo scopo di risparmiare manodopera".8
Pertanto, il rilancio economico su criteri dell'alta tecnologia non significa rilancio dell'occupazione ma, anzi, diminuzione progressiva del numero del posti di lavoro.
Piccolo è bello
L'aumento sproporzionato della popolazione, poi, ha creato metropoli enormi insostenibili, assurde concentrazioni di persone sradicale dal loro ambiente d'origine, deprivate rispetto ai loro bisogni autentici, quelli sociali, in quanto vivono in un tessuto societario disgregato, senza tradizioni, senza veri collanti culturali che tengono uniti gli uomini in vista della realizzazione del bene comune, attraverso stabili rapporti e vincoli di solidarietà. Tale sottoproletariato urbano, il più delle volte senza lavoro, o impiegato in occupazioni precarie, diventa cosi facile preda della criminalità, della tossicodipendenza e di altre manifestazioni di disadattamento sociale sempre più degeneri.
In definitiva, contro l'attuale società centralizzata burocratizzata Goldsmith ripropone l'ideale gandhiano di uno Stato come associazione di "repubbliche-villaggio", tendenzialmente autosufficienti, in cui le attività economiche, come indica con forza lo stesso Platone, siano svolte nella più piccola scala possibile, per salvaguardare al massimo grado attuabile l'ambiente sociale e fisico.
Sempre in sintonia con Platone, eccettuate le ovvie differenze epocali in ordine ai dettagli, Goldsmith suggerisce di eliminare quei beni di lusso che ancora (1977) non sono divenuti di comune necessità, come i televisori a colori, le automobili di grossa cilindrata, i motoscafi privati, i videoregistratori, gli spazzolini da denti elettrici, etc..
Comunque, a ben vedere, possiamo trovare non poche corrispondenze tra le idee goldsmithiane e il pensiero di Platone, al punto che determinate elaborazioni dell'ecologista inglese possono essere considerate, seppur con cautela, valide attualizzazioni di talune concezioni socio-politiche del filosofo ateniese.
Come Goldsmith, Platone è nemico dello sviluppo economico, del mercato e delle speculazioni: "In questa legislazione non c'è praticamente spazio per il profitto, perché da essa consegue il rigido divieto per chiunque di trafficare in loschi affari, in quanto il mestiere cosiddetto "vile" ha l'effetto di distogliere dai nobili costumi."9. Inoltre, egli è per una comunità caratterizzata da uno stile di vita frugale e da attività economiche (al terzo posto nella scala dei valori) basate sul criterio della soddisfazione moderata dei bisogni essenziali dell'individuo.
Come abbiamo visto, Goldsmith non sembra discostarsi sostanzialmente da tale linea di tendenza. In piena consonanza con l'ecologista inglese, Platone -sia ammessa l'inversione cronologica- è sostenitore, poi, di una società stabile basata sull'agricoltura e sull'artigianato: e stata l'industrializzazione moderna che ha invece mandato in rovina, secondo Goldsmith, questo tipo di società preesistente, ordinata, in cui l'interesse delle parti si armonizzava con l'interesse del tutto.
Platone e l'ecologista inglese concordano, quindi, sulle modalità di atteggiamento da assumere rispetto al problemi della crisi demografica: entrambi sostengono, nella sostanza, che ad un livello ottimale, per mantenere una società in una situazione stabile, è necessario che il numero delle nascite pareggi quello delle morti e che, per ottenere questo, occorra stabilire un adeguato controllo demografico.
In particolare, Platone, nelle Leggi, precisa che il numero dei cittadini dello Stato "secondo" non deve variare: "Bisogna disporre che il numero odierno dei nostri focolari domestici si mantenga identico, non aumentando né diminuendo neppure di un'unità"10 e riferisce, inoltre, che "La legge fissa il numero ideale dei figli precisamente in un maschio e una femmina".11
Inoltre, ricordiamo che, non diversamente da Platone, al quale interessa soltanto un certo tipo di crescita, quella spirituale della sua comunità, Goldsmith considera del tutto insensato insistere ancora sull'idea di progresso, inteso come sviluppo economico ad ogni costo, concetto che viene ribadito in tutti i congressi internazionali come idea-forza e ricetta miracolosa per la risoluzione dei problemi mondiali.
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Note
1- E. Goldsmith, La grande inversione, Franco Muzio, Padova, 1992, p. 6. torna al testo ^
2- Ivi, p. 7. torna al testo ^
3- Ivi, p. 13. torna al testo ^
4- Ivi, p. 14. torna al testo ^
5- Ivi, p. 19. torna al testo ^
6- Ivi, p. 177. torna al testo ^
7- Ivi, p. 181. torna al testo ^
8- Ivi, p. 184. torna al testo ^
9- Platone, Leggi, V, 741e. torna al testo ^
10- Ivi, V, 740b. torna al testo ^
11- Ivi, XI, 930c. torna al testo ^