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Rabbia

di Francesco Lamendola - 28/01/2011




Il mondo è pieno di rabbia; le persone sono piene di rabbia: e specialmente quelle in apparenza più tranquille, pacifiche, persino rinunciatarie.
Il fatto è che la rabbia, a differenza dell’ira, il più delle volte non appare: si dissimula nelle pieghe della quotidianità, della normalità, del quieto vivere: lavora in silenzio, nell’ombra, verso l’interno piuttosto che erompere verso l’esterno.
La depressione è una forma di rabbia: rabbia verso se stessi; rabbia perché non ci si vuol bene, perché non ci si perdona, perché non ci si ritiene degni di vivere serenamente e in pace con il mondo; e, poiché la depressione è la malattia probabilmente oggi più diffusa, già da questo si può intuire quanto sia spaventosa la diffusione della rabbia.
Ecco una persona che pareva mite e pacifica, ormai avanti negli anni, già nonno o nonna, che improvvisamente va fuori di testa, diventa aggressiva, si scaglia tutto il girono contro i suoi familiari, li insulta con parole atroci, bestemmia e dice parolacce irripetibili: lei che, prima, non aveva mai detto una parola meno che educata e corretta.
Sono casi più frequenti di quel che non si creda; in moltissime famiglie c’è qualcuno che soffre di depressione, o di qualche forma di ossessione, o di entrambe le cose insieme; in moltissime famiglie persone esauste per lo sforzo di comprimersi, gettano la maschera e lasciano esplodere tutta la loro rabbia, lungamente accumulata; spesso le più posate e le più discrete. 
Fra di loro, moltissime donne: perché la donna, oggi, è divenuta l’anello debole della catena, ed ha accumulato in silenzio entro d sé una intensa frustrazione e un cocente senso di fallimento, che si trasformano in rabbia contro se stessa. 
Anche quando l’oggetto apparente della rabbia sono gli altri - mariti, fidanzati, figli, genitori, colleghi - il vero  oggetto sono loro stesse; ma la loro rabbia è così profonda e distruttiva, così radicale e immedicabile, che non osano guardarla in faccia e riconoscerla per quello che realmente è: una rivolta contro se stesse.
Per rabbia contro se stessi ci si dà al bere; per rabbia contro se stessi ci si abbandona nella spirale della droga; per rabbia contro se stessi si trasformano le mura domestiche in un piccolo inferno quotidiano, che risuona di parole cattive, di gesti irosi, di pensieri estremamente negativi che, se potessero materializzarsi, ucciderebbero qualcuno.
Quando la rabbia si riversa all’esterno, magari contro il primo che passa, le si offre una valvola di sfogo, ma, ovviamente, non si risolve il problema. Non stiamo parlando della rabbia improvvisa che assale l’automobilista intrappolato in una coda chilometrica o del commerciante che ha subito cinque o sei furti nel giro di dodici mesi: queste forme hanno una causa precisa, anche se difficile da combattere, e che risiede all’esterno del soggetto. Per questo, sarebbe meglio chiamarla ira: l’ira, infatti, è una rabbia in atto.
Ma la rabbia vera e propria è latente, e perciò tanto più insidiosa; può essere che quanti la provano non ne siano neppure consapevoli. Si può provare rabbia per qualcuno, e credere di amarlo: lo si circonda di gesti affettuosi, dunque lo si ama; chi potrebbe dubitarne? E invece no; lo si odia: ma non si ha il coraggio di rendere quest’odio consapevole; perciò lo si traveste addirittura nel suo contrario, lo si maschera da amore.
Può essere una persona alla quale ci si sente legati in maniera soffocante: un parente anziano e malato, un figlio troppo diverso da come lo si sarebbe voluto, un coniuge o un amante di cui si è gelosi e che non ricambia l’amore con pari intensità oppure, peggio ancora, che non si ama più o che non si ha mai realmente amato, ma che si ha sempre fatto finta di amare, se non altro per non dover confessare a se stessi il proprio fallimento affettivo.
Si può provare rabbia anche per il proprio lavoro, per la propria città, per la propria vita; ma, naturalmente, a ben guardare, si tratta sempre di scontentezza e sfiducia verso se stessi, perché chi si vuole bene e chi ha stima di sé non si lascia rovinare l’esistenza dalle circostanze esterne: se può, cerca di cambiarle; e, se non può, se ne fa una ragione, perseguendo la propria realizzazione in altri ambiti e in altre dimensioni esistenziali.
Chi si fissa sulle circostanze esterne ed attribuisce loro la responsabilità di una vita infelice, vuol dire che non si vuole bene e non si stima: di conseguenza accumula rabbia, una rabbia così forte da poter causare un autentico corto circuito. Quando ciò accade, la persona che ne è afflitta cade nella depressione; e, il più delle volte, ciò si verifica con gli individui in apparenza più miti e tranquilli, più sensibili e dotati di forti valori morali.
Quando i valori non si accompagnano ad una personalità sufficientemente forte, possono rivelarsi delle pericolosissime armi a doppio taglio: l’anima può restarvi imprigionata, può martoriarsi con i sensi di colpa, può soffrire le pene dell’inferno per il proprio senso di inadeguatezza. Non si dà pace, perché vede di non essere in grado di realizzare quello che ritiene giusto e doveroso, quello che il suo senso del dovere le impone di fare.
Ecco la subdola strategia della mente: colpire l’anima là dove essa è più vulnerabile; e, in coloro i quali hanno un senso del dovere eccessivamente sviluppato, provocare frustrazione e rabbia contro se stessi, per non essere stati all’altezza dell’imperativo categorico. 
Quando la mente diventa giudice, è difficile che trovi qualcosa che sia meritevole di approvazione, se l’anima non ha raggiunto un certo grado di equilibrio. Per l’anima squilibrata, la mente è il suo peggior nemico; e il giudice che da essa scaturisce si trasforma in un accusatore implacabile, che non concede mai requie.
«Perché non ami adeguatamente tuo marito (o tua moglie), che ti ama così tanto e che farebbe qualsiasi cosa per te?», essa domanda.
«Perché non ami come si deve tuo figlio, almeno con pari abnegazione di quella che i tuoi genitori hanno avuto nei tuoi confronti?», essa rimprovera. 
«E perché non ami tuo padre e tua madre, accontentandoli in tutti i loro desideri, anche quando si tratta di sacrificare le tue esigenze vitali?», incalza.
E risponde: «Ciò avviene perché sei un egoista, un verme, uno zero: dovresti vergognarti, dovresti sprofondare sotto terra. Non saresti nemmeno degno di vivere».
Queste sono le strategie con cui la mente cerca di assalirci, di tenderci le sue trappole, di ricattarci e di farci viverre male, lacerati dai sensi di colpa.
Ci sono gli egoisti autentici e ci sono quelli immaginari.
I primi, di solito, non si fanno tanti scrupoli e non si preoccupano delle conseguenze del proprio agire, non perdono il sonno per il fatto che qualcuno soffrirà a causa dei loro atti. 
I secondi, invece, non riescono a darsi pace, a perdonarsi, a oltrepassare le proprie manchevolezze e i propri errori: quelli reali e quelli immaginari.
E accumulano rabbia: tanta, tanta rabbia. 
Così tanta da non esserne nemmeno consapevoli; e, nella loro stupefacente incapacità di guardarsi dentro, attribuiscono a tutt’altre cause i loro immancabili malesseri, i loro incessanti disturbi. Si riempiono di ansiolitici, si intossicano con gli psicofarmaci e si svenano con le salatissime parcelle dello psicanalista.
Chi non è amico di se stesso, chi non impara a riconciliarsi con se stesso e a perdonarsi, immagazzina rabbia e prepara il combustibile che alimenterà le fiamme della propria malattia, della propria angoscia esistenziale.
La vita ci riconduce sempre davanti agli stessi nodi irrisolti, alle stesse contraddizioni, per darci l’opportunità di affrontarli e superarli: ma noi, molto spesso, siamo ciechi e sordi davanti al suo linguaggio e preferiamo ignorare la sua pedagogia, seguitando a reiterare sempre le stesse dinamiche regressive ed autolesioniste.
Ecco perché - ad esempio - tante persone, che sono uscite con le ossa rotte da un rapporto affettivo squilibrato e traumatico, corrono a gettarsi per la seconda volta nella stessa situazione, e poi nella terza, e così all’infinito. Donne che avevano, poniamo, un compagno manesco, violento, che le maltrattava e le umiliava in continuazione; e poi se ne trovano un altro, che finirà per rivelarsi come il precedente, se non peggiore addirittura.
Esse incolpano la sfortuna, ma è una spiegazione veramente puerile delle loro disavventure: meglio sarebbe incolpare la sfortuna per il fatto di aver subito numerosi incidenti automobilistici, quando si ha l’abitudine di mettersi al volante sotto l’effetto dei superalcolici o della droga.
Anche chi non è riuscito a fare della propria vita ciò che avrebbe voluto e non sa né lottare per cambiare le cose, né darsi pace per accettarle, annega nella propria rabbia e si muove come in una nebbia che spegne, in lui  e attorno a lui, ogni luce di bellezza.
Il mondo è pieno di questi individui rabbiosi, che si aggirano ringhiando per le strade, nelle case, nei luoghi di lavoro; che cercano impossibili rivalse sui familiari, sui dipendenti, sui vicini. E che, se non osano prendere coscienza del loro problema, scivolano inevitabilmente nell’angoscia, nella depressione, nella dissociazione, diventando i peggiori nemici di se stessi.
Lo stesso vale per chi non riesce ad accettare la propria condizione sociale, il proprio aspetto fisico, il proprio status anagrafico; per chi, ad esempio, non ce la fa ad accogliere l’idea di invecchiare, e oscilla penosamente fra il ridicolo tentativo di emulare i giovani e l’istinto prepotente di odiarli, ostacolarli, danneggiarli quanto più gli sia possibile.
Ci sono, poi, quelli che si sentono colpevoli per la morte di una persona cara: pensano di esserne responsabili; e, anche se ciò non è affatto vero, niente e nessuno riescono a liberarli da una tale convinzione. Oppure il loro senso di colpa agisce, per così dire, nell’oscurità: essi non ne sono consapevoli, tuttavia esiste e li logora incessantemente. Nell’un caso come nell’altro, il risultato è la rabbia contro se stessi e, quindi, la tendenza alla depressione.
La rabbia, in fondo, non è che amore capovolto di se stessi; così come l’odio non è che amore capovolto dell’altro. 
Si è rabbiosi perché si soffre di non essere quel che si vorrebbe essere; ma, d’altra parte, non si ritiene di avere abbastanza forza per cercare di diventarlo. Da questo vicolo cieco non si esce più e si paga un prezzo sempre più alto all’incapacità di oltrepassarlo, sotto forma di rabbia accumulata senza posa.
Disinnescare la rabbia, spegnere il fuoco che la fa divampare e sottrarle il senso di colpa e la frustrazione che incessantemente la alimentano, è il compito che si dovrebbe prefiggere ogni essere umano il quale sia persuaso che, nella vita, abbiamo qualche cosa di meglio da fare che non lasciarci tiranneggiare dal nostro cervello rettile e dai suoi ciechi impulsi.
Le filosofie del pessimismo, del nichilismo, dell’esistenzialismo deteriore, hanno tutte contributo, per la loro parte, a creare un clima di ansia, di smarrimento, di sfiducia, che certo non aiuta a liberarsi dalla propria rabbia e ad accettarsi per quel che si è.
Occorre, dunque, in primo luogo fare un serio sforzo per risalire la china del compatimento di sé, del vittimismo, del deleterio piacere di avvoltolarsi nella propria pena e nella propria disperazione; e, per farlo, bisogna riscoprire la scintilla divina che è in noi.
Se noi siamo una scintilla di luce divina, allora vuol dire che siamo fatti per la gioia, non per il dolore; per la vita e non per la morte. 
E, se non ci sentiamo in grado di tornare ad amarci da noi stessi, dovremmo chiedere l’aiuto di quella Essenza divina dalla quale proveniamo e alla quale stiamo ritornando, talvolta cadendo e rialzandoci, lungo le strade impervie e polverose della vita.
Quella Essenza divina ci ama, anche se noi non ci amiamo; ci perdona, anche se noi non ci sappiamo perdonare; ci vuole in pace con noi stessi e con il mondo, anche se noi facciamo di tutto per alimentare sospetti, gelosie, inimicizie.
Ciò vuol dire che, nonostante tutto, siamo preziosi: non noi, ma la scintilla divina che è in noi; il gioiello che riluce in fondo alle tenebre della nostra ignoranza.
Questo pensiero dovrebbe darci forza e coraggio. Non siamo soli; non viviamo solo per noi stessi, né dobbiamo render conto solamente a noi stessi: se così fosse, non ne saremmo capaci. 
E allora sì, che cadremmo nella disperazione e nella rabbia, senza alcuna speranza di redenzione.