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Icone della fine

di Mario Grossi - 31/01/2011



Quello che c’è ciò che verrà
ciò che siamo stati
e comunque andrà
tutto si dissolverà
Nell’apparenza e nel reale
nel regno fisico o in quello astrale
tutto si dissolverà

Sulle scogliere fissavo il mare
che biancheggiava nell’oscurità
tutto si dissolverà

Bisognerà per forza
attraversare alla fine
la porta dello spavento supremo

Franco Battiato

In tv mi sono visto un documentario nel quale un fisico teorico giapponese cercava di rappresentare fenomeni per noi inconcepibili. Con l’ausilio delle nuove teorie che si sono sviluppate a partire dalla teoria della relatività di Einstein, il fisico giapponese spiegava l’effetto dei buchi neri sul nostro corpo. Oggi, con le simulazioni virtuali e con la modellazione assistita, si possono far vivere su uno schermo scenari che sono la trasposizione in immagini di formule matematiche e permettono a tutti emotivamente di parteciparvi.

In una di queste simulazioni, per me la più evocativa e carica di poesia, si osservava una navicella spaziale che si approssimava al bordo di uno di questi buchi neri, che assomigliano a degli abissi oscuri, a dei pozzi senza fondo. Più la navicella si avvicinava e più l’effetto “spaghetizzazione” del corpo dell’incauto astronauta procedeva. A causa di una diversa attrazione tra il muso e la coda della navicella, l’effetto sul suo corpo era un allungamento che lo trasformava in uno spaghetto sempre più sottile fino a diventare una sorta di vermicello dello spessore di un solo atomo.

È una chiara impossibilità. Nessun essere umano può avvicinarsi in vita così impunemente a un buco nero, i cui effetti lo ammazzerebbero a una distanza tale che gli impedirebbe qualsiasi visione diretta dell’abisso nero, dell’orrido gorgo che inghiotte tutta l’energia che gli capita a tiro, spegnendo qualsiasi fonte luminosa nei paraggi.

Mi ha molto impressionato quella simulazione perché proprio in quei giorni ero dedito alla lettura di un saggio dal titolo evocativo, Icone della fine di Andrea Tagliapietra edito dal Mulino, e l’immagine del buco nero e della navicella era proprio una rappresentazione della fine in un campo d’investigazione del tutto diverso rispetto a quello del libro.

Tema del saggio è appunto la fine, collettiva e individuale, o meglio, come di fronte alla fine tutte le società si sono interrogate e hanno poi condensato in una serie d’immagini, rappresentazioni iconografiche, miti, questo tema che tanto impensierisce i vivi.

Che ci sia un prima è dichiarazione decisamente banale. Prima di morire siamo in vita, immersi nel tempo, percepiamo il mondo che ci circonda con i nostri sensi, possiamo raccontarlo, visto che un racconto è un elenco temporale di accadimenti e dunque omologo al contesto in cui siamo immersi.

Poi, altrettanto scontato dirlo, c’è un dopo. Dopo la morte, la nostra vita cessa, usciamo dal tempo, non percepiamo più il mondo con i nostri sensi e con ogni probabilità non percepiamo più niente, non possiamo dunque nemmeno raccontare, vista l’incongruità di elencare temporalmente una serie di avvenimenti in un luogo privo del tempo o dove il tempo abbia smesso di fluire.

In mezzo ci sta una frattura, una cesura, un attimo (che può protrarsi a lungo) in cui, come gli astronauti della navicella del documentario, ci troviamo a solcare i bordi del buco nero che ci sta inghiottendo.

L’universo a noi conosciuto e la bocca del buco nero è il prima, che possiamo descrivere, dopo averlo teorizzato con formule e dimostrazioni scientifiche che acquistano la dimensione di racconto temporale. L‘altra parte del buco nero, il suo buco del culo se volete, (che qualcuno immagina collegata ad altro universo) è il dopo, di cui non possiamo dire nulla e di cui non avremo mai esperienza visto che il suo passaggio ci tritura fino alla dissoluzione totale.

In mezzo ci sta la visione di questo spettacolo che ci terrorizza e di fronte al quale ci arrestiamo impauriti. È una frattura che è anche contiguità, il prima e il dopo sono giustapposti e non separati nettamente. Da questo terrore nascono e fioriscono in tutte le società e in tutte le civiltà, le immagini che tentano di rappresentare appunto la fine.

Il saggio prende spunto da questa constatazione: «Di fronte all’idea della fine sembra che tutti i nostri pensieri debbano arenarsi».

Con questo pensiero si è confrontato Kant, che ha ben rappresentato, in un suo scritto La fine di tutte le cose, l’arenarsi del pensiero di fronte all’avvicinarsi della fine. Il pensiero ci «conduce sull’orlo di un abisso da cui non è possibile alcun ritorno per colui che vi partecipasse».

La voragine che si spalanca, il buco nero del documentario è l’idea della fine.

La forza negativa di questa voragine agisce sull’attività del pensare, che, in quanto tale, avviene nel tempo e fa sì che questa voragine non sia soltanto un pozzo vuoto senza fondo inconoscibile ma risucchia nelle sue profondità qualsiasi pensiero osi avvicinarsi troppo.

È per questo che nascono le rappresentazioni per immagine della fine ed è per questo motivo che più ci si avvicina al buco nero e più il pensiero e le parole che ne conseguono perdono di senso.

È così spiegato l’attonito e immoto sgomento dell’osservare senza profferire parola o pensiero che permette la nascita e il fiorire dell’immagine che appare assai più appropriata per quello specifico momento di frattura.

Ne consegue un altro fatto del tutto naturale. Sul bordo del buco nero il tempo tende a perdere il suo significato che costituiva un caposaldo della vita prima della fine. Il tempo s’incurva sul bordo del buco nero, perde la sua linearità e la possibilità di utilizzarlo per le nostre funzioni.

In questa frattura, cesura, giustapposizione ci troviamo dunque in una scomoda posizione che genera terrore. Siamo spettatori di una visione che non può essere detta e quindi raccontata, ma solo vista e non comunicata.

In questa frattura regna sovrana l’immagine senza parole, rappresentazione della realtà in forma sincronica, la sola possibile dopo che, con la prossima scomparsa del tempo, nessuna rappresentazione diacronica è più praticabile.

La paura si farcisce di un terrore all’ennesima potenza quando ci sorprendiamo immersi nella sabbia mobile del nostro stesso pensiero che s’incaglia senza più poter andare oltre.

Il saggio attraversa allora, facendosi trasportare da questa piattaforma comune, una serie di forme antiche e moderne, collettive e individuali d’immagini, miti, rappresentazioni iconografiche che raccontano però lo stesso timore di sottofondo, cercando di trasferire sull’immagine lo spavento e per cercare conforto.

Facile, percorrendo il saggio, trovare riscontro a questo fil rouge dell’autore quando si parla dell’Apocalisse e di tutte le Apocalissi antiche. Così come nelle rappresentazioni mitiche della fine di tutte le civiltà.

Ma la cosa di maggior interesse non sta tanto in questi esempi del passato, noti a tutti, ma quanto nell’ampia casistica che viene presa dalla modernità e dalla nostra vita contemporanea.

La paura della fine, in questo caso collettiva, ha molti esempi nella filmografia degli ultimi tempi. Scontato citare i vari film catastrofici che attingono direttamente all’Apocalisse, come Day after e Big One che ne sono diretti discendenti. Come pure quei film tipo Apocalypse now che, pur non avendo come trama una diretta filiazione dai temi della catastrofe, ne illustrano i meccanismi e le nostre paure, alla perfezione. A livello simbolico attinge all’Apocalisse anche un film come Titanic che narra di un naufragio, riecheggiando però un assai più vasto scenario: l’eclissarsi della modernità nella fine del sogno prometeico del “tutto solcabile con la tecnica”.

Nel saggio ci sono ancora, presi dal repertorio cinematografico, altri esempi più emblematici ed oscuri. Su tutti 2001 odissea nello spazio descritto assai minuziosamente, che ripercorre il tema del tempo e di come il suo fluire e la sua dissoluzione pongano le basi per l’avvento della rappresentazione in immagini della fine.

Ci sono poi i miti e le rappresentazioni moderne della fine individuale, dove la fanno da padrone la Creatura di Frankenstein, il Vampiro, la Mummia esseri che si pongono sulla frattura tra il prima e il dopo e diventano simboli iconici di questa posizione intermedia che ci sgomenta e che sono anch’essi miti e rappresentazioni mute, per immagini della fine.

La conclusione è poi un vero e proprio fuoco pirotecnico, in cui, nella figura di Don Giovanni, trovano spazio tutti i sensi e i timori della fine individuale nella metafora moderna del grande amatore seriale che, amando troppo o troppo poco le donne (a seconda elle interpretazione), trasforma l’unità assoluta dell’amore in una serie infinita e reiterata di fotogrammi temporali, ognuno immobile in un tempo sospeso, che rende la scena grottesca. Per rimandare ancora una volta l’avvicinarsi del confronto con la soglia, in cui il tempo sarà fermo per sempre, l’amatore seriale, come del resto il killer seriale, ripete incessantemente la stessa scena, replicandola fin nei minimi particolari, nella speranza vana di fermare il tempo e rimandare indefinitamente una visione e le sue angosce che incombono sul bordo del buco nero nell’istante in cui ne saremo inghiottiti.

Attualissimo esempio che potrebbe essere posto come base di lettura degli ultimi episodi che vedono coinvolto il nostro Presidente del Consiglio.

Alla fine di questo splendido saggio quello che rimane è proprio questo sentimento d’inanità del pensiero di fronte alla fine che lascia il passo all’immagine senza commento, come ha ben dimostrato, forse involontariamente, alla fine del suo articolo a commento di Hereafter Miro Renzaglia [leggi QUI]quando afferma laconico che l’aldilà è un semplice problema da risolvere visto che non c’è che il nulla.

Ecco appunto. Come sostiene anche Battiato nella canzone che ho riportato in testa a quest’articolo, La porta dello spavento supremo, il nulla, dal bordo del buco nero, può essere solo contemplato, mai commentato.