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Le radici che non gelano

di Luca Leonello Rimbotti - 31/01/2011




Mai come oggi, quando la vita politica sta finendo di imputridire in un marciume senza nome, e quando il circo culturale non dà segnali di volersi distaccare dalla banalità, mai come oggi conviene distogliere lo sguardo dallo spettacolo di degradazione che ci circonda. Questa è l’ora di tornare a rafforzare i fondamenti ideali – e, perché no, anche ideologici – di un totale rifiuto del presente. Riorganizzare il futuro a partire dal primo mattino. Riformulare certezze rifacendosi alle origini della nostra civiltà, raccogliendo segnali che non mentono, tracce di un’originalità e di un’unicità che serviranno un giorno non lontano per tornare a parlare di Europa. Non come ricettacolo di usurai cosmopoliti, ma come scrigno di popoli di elevata dignità civile.

Le radici nostre, quelle “che non gelano mai” e che sono sparse ovunque nella nostra terra, tra i nostri borghi e tra la nostra gente antica: un attimo prima che questo patrimonio venga sommerso dalla valanga mondialista, le testimonianze vanno messe in salvo, i tesori di memoria assicurati ai discendenti. Questo è ciò che si incaricano di fare tanti studiosi “privati” che, di loro iniziativa e spesso subendo l’intralcio e l’ostilità delle istituzioni ufficiali, delle università, delle cattedre ingessate dagli interessi e dal potere, riescono non di rado ad aprire vie nuove, a formulare idee inedite, così da dare profondità alla ricerca. In Italia, se non sei sponsorizzato dal “professorone” di turno, o dall’istituzione che elargisce i fondi solo lungo i soliti canali, si sa che non ti puoi muovere. Nessuno ti finanzia, tutti ti discreditano chiamandoti “dilettante” e “autodidatta”: due termini usati per squalificare.

A questo proposito, viene in mente il nome di Felice Vinci, lo studioso che ha ribaltato le tesi sulle origini dei poemi omerici, attirandosi lo scherno oppure il silenzio dei potentati accademici. Solo qua è là – e più spesso là, nel senso di istituzioni straniere che se ne sono occupate con interesse – il grande lavoro di Vinci ha avuto il giusto riconoscimento.

Appartiene a questo novero di ricercatori di talento, ma privi del lasciapassare ufficiale, anche Giovanni Feo, che da anni perlustra la Maremma alla ricerca di sempre nuove tracce della cultura primordiale che, in quei luoghi, dette vita alla civiltà etrusca e, quindi, a quella italico-romana. Si tratta di un etruscologo che in una quindicina di libri ha esplorato il fenomeno culturale più appassionante della nostra proto-storia. Niente sensazionalismi. Nessuna “fanta-etruscologia” per new ager, intendiamoci, ma solida conoscenza del terreno, delle fonti, dei metodi di ricerca. Questa la prassi. E, soprattutto, idee e capacità di sintesi. Ad esempio, aprendo il recente libro di Feo Il tempio di Voltumna. Alla scoperta del sacrario dei dodici popoli etruschi (Stampa Alternativa), si viene messi a contatto con tutta una serie di innovative interpretazioni. La più importante delle quali è che il famoso tempio centrale della dodecapoli etrusca, il Fanum Voltumnae, non sia da collocare in Orvieto  –  nei cui dintorni da anni si svolgono in questo senso scavi ufficiali, diretti da professori e soprintendenze – bensì nel lago di Bolsena. Questo luogo, che racchiude aperture geomantiche di tipo tellurico, legate alle arcaiche ierofanie del dio Voltumna, sarebbe il polo materno-spirituale dell’intero territorio, in corrispondenza polare col centro guerriero-maschile, rappresentato da Orvieto.

Questo dio Voltumna, ben conosciuto dagli studiosi, a cominciare da Pallottino, che lo considerava divinità androgina e bisessuale, agreste ma insieme guerriera, viene da Feo interpretato un po’ come il simbolo della civiltà etrusca, in grado di racchiudere sia i valori spirituali (tanto che i romani lo identificarono con la Fortuna), che quelli virili, ma avendo al suo centro il rapporto privilegiato con l’acqua: «La dea di epoca etrusco-romana conosciuta come Voltumna ricalcherebbe quindi – scrive Feo – l’identità di una precedente dea, patrona delle acque, il cui culto era nato sul lago vulcanico di Bolsena». Un culto che Feo ricorda attivo già nell’epoca preistorica della cosiddetta “cultura di Rinaldone”, che fiorì nel versante tirrenico dell’Italia centrale e che studiosi di fama considerano l’antefatto diretto della civiltà etrusca. Anzi, a smentita della sola matrice femminile-materna attribuita spesso come esclusiva del mondo etrusco, fu lo storico Mario Attilio Levi a rimarcare che proprio la “cultura di Rinaldone” si segnalò nel quadro dell’Eneolitico per l’adozione della “pericolosa ascia da combattimento in pietra levigata”. Ciò che, secondo Levi, sarebbe stato un preciso portato degli influssi indoeuropei. La questione delle origini degli Etruschi non è qui in ballo. Il libro di Feo rappresenta qualcosa di più che non un’erudita disputa su problemi tuttora irrisolti. Si tratta di un ottimo esempio di alta divulgazione, di un atto di amore verso un luogo e una cultura, condotto con rigore scientifico, ma soprattutto con la volontà di mettere in luce gli aspetti più vivi della cultura che fu madre e matrice di quella italico-romana.

Al di là della collocazione di questo o quel tempio, Feo riafferma l’importanza di «riscoprire la complessità del portentoso progetto realizzato dai dodici popoli» etruschi: il sacro, la comunità, la fedeltà alla terra. Il fatto che oggi si riscoprano questi valori, magari evitando la fredda e spesso inutile erudizione, è un positivo segnale in controtendenza rispetto alla mondializzazione cosmopolita in atto. Crediamo infatti che dal luogo, dalla provincia riposta, dalle profonde tracce del nostro passato sparse per le nostre terre, debba partire la risposta allo stravolgimento dei popoli e della loro identità, cui puntano gli strateghi della globalizzazione.

Soltanto guardando i nostri paesi antichi si comprende l’abisso fra la civiltà europea e la distruttiva civilizzazione occidentalista. E proprio la Maremma è uno di questi luoghi che più di altri custodiscono le nostre intime origini. Meglio difesa dalla modernità, meno degradata di altre plaghe italiane, in molti punti ancora intatta, la Maremma è ancora un luogo sacro allo spirito del popolo. Basta aprire magari una piccola guida di Pitigliano – la perla della Maremma – per comprendere quando grande sia il nostro patrimonio culturale, che risiede in modo assai più genuino nella provincia che nelle “città d’arte” universalmente note, ma abbandonate al turismo di massa e allo sfruttamento economico dei bacini artistici, come se si trattasse di merce qualsiasi. Sfogliando Pitigliano particolare. Guida agli angoli sconosciuti, pubblicata anch’essa da Stampa Alternativa, si ha una bella testimonianza della ricchezza del particolare, della vivezza del dettaglio. Marco Bisogni, il giovane fotografo e ricercatore che ne è l’autore, in poche pagine e con una selezionata scelta di scatti di alta qualità, ci mette davanti a una realtà antica ma viva. Lo scorcio sugli speroni tufacei, un tempo sedi di riti e culti; la fuga di chiaroscuri in un vicolo del borgo; il particolare di una decorazione medievale, di un’edicola, di uno stemma: da questa microstoria ad immagini esce l’inquadratura di una realtà che in Italia e in Europa è ancora molto spesso intatta. Dagli etruschi a Bolsena a Pitigliano. La voce dell’identità oggi va ricercata fuori dai grandi itinerari, ormai corrotti dalla massificazione, e nel cuore della nostra terra antica. Finché dura. Finché ci sarà ancora chi tiene fermo e non si arrende alla civiltà delle escort e dei faccendieri.