Il crepuscolo dello scientismo
di Stefano Serafini - 12/02/2011
È salutare far conoscere meglio la figura straordinaria di Giuseppe Sermonti, ilgenetista noto per le sue critiche al darwinismo e al totalitarismo della scienza ideologizzata. Basta infatti un giro sul grande fratello collettivo Internet (ad es. una scorsa alla combattuta storia di redazione della sua poco attendibile scheda su Wikipedia) per constatare il rovello di alcuni “attivisti” indaffarati a screditarne l’immagine. Graffitari di provincia dello scientismo[1] che amano riempirsi la bocca dei titoli di riviste stimate e accreditate dalla «comunità scientifica» (della quale per la maggior parte non fanno parte, neanche come gregari), senza rendersi conto di ignorare quale sia, propriamente, il contenuto della scienza, quale funzione abbia in questa contingenza storica, né a cosa serva la divulgazione critica, costoro hanno lasciato in Rete le accuse più strane contro l’importante scienziato e intellettuale italiano: devoluzionista, creazionista, luddista, guru ecc.; si agitano affinché le sue riflessioni, che sono in buona sostanza epistemologiche, vengano classificate come «pseudo-scienza».
Sermonti d’altronde, che è molto amato dai suoi lettori, ha sempre attirato l’odio ideologico di certi ambienti settari. Negli anni ’70, all’uscita del suo primo libro contro lo scientismo, tale prevenzione venne mascherata paradossalmente da “progressismo di sinistra”… contro Sermonti, in difesa delle industrie! Darwin non era ancora in gioco. Causa plausibile dell’avversione di allora, poteva essere l’invidia personale di un potente aspirante barone, che mal ne tollerava la brillante carriera. Ma da sola non bastava, neanche a quei tempi, a spiegare tutta la profondità dell’ostracismo, ben distinguibile dai normali dissidi accademici che bene o male contrappuntano sempre la distinzione di un percorso. Qualche anno fa il progressismo, inteso come “difesa” di Darwin, venne brevemente richiamato alla ribalta da una lettera di sei professori de La Sapienza di Roma, i quali – autentici libertari – pretendevano si censurasse la presentazione di un libro di Sermonti all’Università, giungendo ad accusarlo addirittura di tendenze razziste (quando è invece Sermonti ad additare nel darwinismo una sponda della dottrina della razza).[2] Oggi, più modestamente, altri graffitari rivestono la medesima avversione di un candido amore per la purezza ed il metodo, lamentando presunti o reali «errori», ai quali danno la caccia con tendenziosa acribia nei suoi scritti, indagati piuttosto che letti.[3]
Un’accusa illuminante che ultimamente viene mossa al genetista, è poi quella di essere un «ex scienziato». Ciò denota, nei critici, un’idea curiosamente religiosa, quasi “calcistica”, della scienza: ad essa – indipendentemente da competenze metodologiche, titoli e scoperte – un uomo “apparterrebbe”, e sarebbe così chiamato scienziato, finché ne accettasse le interpretazioni condivise dalla maggioranza, e da essa potrebbe “uscire” perdendo il titolo per apostasia![4]
Il motivo che da quarant’anni rende il nostro Autore una sorta di spauracchio per una certa nebulosa para-culturale, va spiegato in prospettiva. Coloro che getterebbero Sermonti all’inferno, infatti, ve lo scaglierebbero volentieri insieme a tutta la filosofia, a tutto il pensiero che eventualmente non sottostà all’imperio della ragione mercantile, alla riflessione critica nei confronti del presunto “valore universale e normativo” della conoscenza positivistica, a chi non si piega alla «dittatura del fatto» (Husserl). Non parliamo poi di altre forme dello spirito umano, come la religione e la mistica (o la teoria sociale rivoluzionaria, ormai scomparsa all’orizzonte). Tra gli accusatori di Sermonti, inevitabilmente, e senza che il vecchio biologo abbia a che fare con questo genere di cose, si riscontrano esaltati e beffardi arcinemici di tutto ciò che Piero Angela – simbolo vivente dello statuto televisivo del sapere per tutti – mette in un fiorito mazzo e indica come “cattivo”: dall’omeopatia ai cerchi nel grano, dall’astrologia alla parapsicologia, dalla lettura dei fondi di caffè alla mistica indiana. Non a caso, ogni volta che pare loro esservene l’occasione, ed evitando eventualmente di entrare nel merito, Sermonti viene accusato di misticismo, religiosità, oscurantismo, ecc. Per la maggior parte di queste persone, la scienza non è tanto un particolare metodo e modo della conoscenza umana, storicamente formatosi per il contributo di determinate forze sociali ed economiche, con un suo preciso ambito di competenze formali che ne delimita e in gran parte preforma l’oggetto; ma è l’unica ammissibile forma vera e certa di conoscenza, una conoscenza che avrebbe conchiuso in sé il proprio fine. Persino l’arte e la poesia, se espongono pretese conoscitive (ma a parte rarissimi casi, ciò non avviene più almeno dal XVII sec.), vengono gettate nel cesso da simili signori con il termine molto in voga di «fuffa», e un dirompente rumore di sciacquone.
Sembra incredibile, ma un pensiero talmente limitato da ritenere che la realtà possa essere spiegata unicamente nei termini di una scienza congelata nei suoi traguardi oggettuali odierni, incapace di rendersi conto che gli occhiali scientifici con i quali guarda il mondo e se stesso sono anch’essi parte del mondo, sono anch’essi un prodotto storico, ha assunto al giorno d’oggi, per diffusione, un ruolo di dominio totalizzante. La sua infiltrazione s’è realizzata attraverso i mezzi d’informazione di massa, col sostegno che essi inevitabilmente forniscono alla mediocrità, al ragionamento automatico, acritico, passivo, alla superficialità, al mercato, e all’ideologia che tutto preforma e predigerisce per i cervelli connessi allo spettacolare integrato.[5] Tale pensiero, di fatto, è esso stesso un elemento portante di quella “matrice” di presupposti indiscussi – la merce, lo sfruttamento del forte sul debole, il denaro, lo sterminio “bellico”, la tecnologizzazione dell’esistenza come progresso, ecc. – che dominano e spogliano la nostra vita, e che hanno sostituito di fatto la realtà, tanto da non permetterci più nemmeno di pensarla indipendentemente da essi. Dopo aver proceduto sottotraccia nella società per molti decenni, contrastato sempre più debolmente da una cultura umanistica spettacolarizzata ma comunque di forti radici, recentemente in Italia ha cominciato ad articolarsi sulla bocca delle masse.[6] La teodicea Whig del pensiero positivistico, che ha accompagnato fin dal suo nascere l’imperialismo della borghesia britannica, trionfa così, quando il capitalismo finanziario è giunto al suo sbraco, nel cuore del Mediterraneo come volgare arroganza da blogitaliota.
Un’ipotesi non darwiniana: la periodicità biologica morfofunzionale dell’ala secondo il citogenetista dell’Università di Lund Antonio Lima-de-Faria (fatto conoscere in Italia per primo da Sermonti) non ha una causa genetica. L’ala compare improvvisamente in generi e specie privi di relazione genetica diretta – pterosauro, pipistrello, uccello, insetto, pesce volante – secondo un ritmo ordinato, come nel paradigma della tavola degli elementi di Mendeleev.
Il tutto, indipendentemente dal fatto che nel frattempo la biologia molecolare ha ormai da tempo superato il dogma dell’evoluzionismo, cioè la centralità della selezione naturale e del caso nello sviluppo di forme e funzioni biologiche, togliendo, per così dire, la terra sotto i piedi ai sedicenti (e ignari) scudieri della Scienza identificata con Darwin.[7] Una conclusione storicamente inevitabile, ma che non avrà presa comunque sul fondo ideologico di costoro, né sul corso dominante delle cose, che ormai del darwinismo già ha smesso di avere bisogno. L’origine è oggi una questione superata dai “gregari” veri, i quali non si occupano certo di Sermonti. Il circuito li ha completamente integrati nella propria intangibilità autoreferenziale, essi la natura non l’indagano più – la creano in laboratorio.
Una vita da biologo
Nato a Roma nel 1925, quarto di sei fratelli (Rutilio, avvocato, politico e giornalista; Tina Bianca; il suo gemello Enrico, agronomo; Vittorio, il famoso dantista; Lia) Giuseppe Sermonti si laurea dopo la guerra in Scienze Agrarie presso l’Università di Pisa e in Scienze Biologiche all’Università di Roma. La sua carriera inizia prestissimo, a soli 25 anni, con la chiamata come responsabile del reparto di Genetica del Centro internazionale di chimica microbiologica (CICM) dell’Istituto Superiore di Sanità diretto da E. B. Chain. Dobbiamo alle sue ricerche la scoperta della sessualità nel Penicillium (a Glasgow, con Guido Pontecorvo) e negli streptomiceti (con sua moglie Isabella). Gli tocca dunque il titolo di padre della Genetica dei microorganismi industriali.[8] Di tale disciplina fonda e dirige la Commissione Internazionale. Consulente di alcune fra le più importanti multinazionali farmaceutiche, come Ciba-Geigy, Lepetit, Eli Lilly e Pliva, dirige la International School for General Genetics del Centro Ettore Majorana, a Erice, presso la quale organizza corsi quadriennali di Microbial Breeding. Nominato cattedratico di Genetica all’Università di Camerino, passa dopo un anno a quella di Palermo, poi a quella di Perugia; è presidente per due anni dell’Associazione Genetica Italiana, e nel 1980 è invitato come vicepresidente al XIV Congresso Internazionale di Genetica, a Mosca.
La reazione del pubblico fu di grande interesse: i libri ebbero numerose edizioni, che andarono tutte esaurite. La reazione di potenti colleghi accademici fu invece di tutt’altro verso. Il trasferimento alla cattedra di genetica dell’Università di Roma previsto di lì a poco – la famiglia aveva già traslocato – inspiegabilmente si blocca. Una serie di attacchi personali compaiono su L’Unità, e in lettere anonime recapitate al suo mentore scientifico in Gran Bretagna, il genetista Guido Pontecorvo. Il settimanaleL’Espresso, non pubblica la recensione de Il Crepuscolo dello scientismo scritta da Guido Ceronetti, che abbandonò la rivista. Approfittando del clima politico degli anni ’70, quando anche la casa editrice Rusconi cade oggetto di poco edificanti inviti ad erigerle intorno un «cordone sanitario», si organizza (in contumacia) una contestazione “studentesca” alle idee dell’Autore, accusato senza troppe spiegazioni di conservatorismo ideologico.
Confronto tra i crani di un feto di scimpanzé (sinistra) e di un feto umano (destra), e tra due esemplari adulti: l’allontanamento del pongide dalla forma “giovanile” è assai più grande di quanto non avvenga nell’umano, il quale tende a mantenerla (neotenia) [da G. Sermonti, Il tao della biologia, Torino, Lindau 2007, p. 79
In Russia qualcosa di simile stava accadendo con l’approccio nomogenetico, rappresentato da L. Berg, A. Ljubiš?ev, S. Meyen e altri, ispirati dall’alternativa del grande von Baer al darwinismo. Partecipando a entrambi, l’embriologo dell’Università di Mosca Lev Belousov, rappresenterà iltrait-d’union fra le conferenze nomogenetiche della Scuola biologica russo-estone e gli incontri del Gruppo di Osaka che si svolgeranno negli anni successivi (Praga 1987, Cornwall 1988, Mosca 1989, Oaxtepec 1991, Potsdam 1993).
Giuseppe Sermonti, nella sua veste di direttore della Rivista di Biologia orienterà i propri sforzi controcorrente a favorire tale comunicazione tra le linee strutturaliste della biologia est-europea, giapponese e occidentale, dando così vita in Italia a un plesso fondamentale della presa di coscienza e della diffusione delle idee strutturaliste in biologia.[13]
Il 1986 è anche l’anno della pubblicazione di Dopo Darwin, di cui parleremo più avanti, e quello in cui Sermonti decide di lasciare l’insegnamento universitario. Sul piano culturale e divulgativo l’impegno non è minore, con la pubblicazione di centinaia di elzeviri che nel corso degli anni compariranno sui quotidiani Il Tempo, Roma, Il Giornale e infine Il Foglio (compresa una divertita collaborazione al periodico Astra, in spregio del bigottismo di molti suoi colleghi che mai si “contaminerebbero” dialogando con chi crede all’astrologia), numerose conferenze, e la pubblicazione di sorprendenti volumi che punteggiano un percorso di ricerca vivace e multidisciplinare, intessuto di una scrittura bellissima.
L’anima scientifica
Se già nel 1974 una deliziosa raccolta di fiabe su temi scientifici[14] aveva dimostrato l’interesse dell’Autore per il significato e le simbologie della scienza nascoste nella tradizione delle favole (ad es. la storia di Biancaneve, nata in ambienti della Rühr come figura dell’estrazione dell’argento, “avvelenato” col cianuro e dormiente fino al “bacio” della fornace), nel biennio 1981-1982 compaiono due brevi saggi di intensa meditazione: Le forme della vita[15] e L’anima scientifica.[16] In particolare quest’ultimo, edito inizialmente in poche centinaia di copie, destò l’ammirazione di originali pensatori come Zolla («il capolavoro di Sermonti»), Panikkar (il teologo raccontò di non aver chiuso occhio per divorarlo in una notte) e Cattabiani, il quale, oramai in fin di vita per il cancro che lo affliggeva, pregò l’editore Marco Albertazzi (La Finestra) di ripubblicare «la gemma di Sermonti».[17]
L’anima scientifica è «una discussione sul metodo, una sorta di dialogo sui massimi sistemi, di cui uno è l’evoluzionismo e l’altro è la realtà».[18] Vi scrive Sermonti:
«Come insegnava Goethe, non dovremmo chiederci il perché ma il come delle cose. Nel chiedere il perché c’è un tacito presupposto che dietro ogni cosa ci sia un’intenzione, un proposito (appunto, un “perché”) e quindi che ogni cosa sia scomposta o scomponibile in fini e strumenti, o mezzi di produzione, come un’azienda umana. Sotto tutto questo c’è una sottile mentalità ottimistica, economicistica, produttivistica. No. Il mondo opera su un’altra dimensione, galleggia nell’eterno, è sospeso nell’infinito, ed è per l’appunto questo spostarci nelle sue dimensioni incantate il più raffinato e prezioso risultato della conoscenza, e non, al contrario, quello di rovesciare il mondo ai nostri piedi.
Comprendere la realtà per rappresentazioni, per riferimenti a tipologie, vuol dire riceverla per simboli. (…) [Ma] una scienza che riceve la natura per simboli, che la interpreta attraverso archetipi, si dispone ad offrirci una immagine delle cose che stranamente richiama quella di un’antica ermeneutica, oppure quella di una sacra rappresentazione. (…) Gli scienziati hanno esplorato il mondo per innumerevoli ragioni e ispirazioni, con amore o con odio, con rispetto od arroganza, al servizio della verità o della menzogna. Ciò che semmai si può rimproverare loro è quello d’aver consentito (ma non tutti l’hanno fatto, specie tra i maggiori) a farsi rappresentare dai cavalieri dell’apocalisse, di aver accettato l’invito alla tavola del lupo, o anche d’essersi fatti commuovere dalle omelie di profeti travestiti.
Non voglio processare l’umanità o me stesso, ma proporre una strada in cui trovo più senso, più garbo, più saggezza che nelle piste della scienza ufficiale. E non sono certo io il primo a suggerirla. Io non faccio che ricercare un sentiero che piedi sapienti hanno percorso molto prima di me, e non ho mai ambito né pensato, né preteso, di saper fare qualcosa di più di questo.»[19]
Oltre Darwin
Nel 1980 era già uscita la principale opera sul darwinismo,[20] scritta a due mani col giovane paleontologo Roberto Fondi[21] il quale si dedicò alla seconda parte del volume dedicata all’applicazione dell’Evoluzione all’uomo. In essa si indaga l’aspetto ideologico nascosto sotto l’apparente obiettività scientifica della teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Charles Darwin, che aveva mutuato l’idea fondamentale di «sopravvivenza del più adatto» dalla “bibbia” dell’economicismo inglese del suo tempo, il Saggio sul principio della popolazione (1798) di Thomas Malthus. L’idea che il debole debba soccombere, e che la natura porti comunque, automaticamente, verso un miglioramento della specie, piaceva molto ai sostenitori del Progresso e del sistema capitalistico, allora in piena fioritura nel mercantilismo dell’impero britannico.
Se il darwinismo si impose, scalzando in breve tempo altre ipotesi e interpretazioni, si deve insomma soprattutto a fattori sociali ed economici, e non certo, come propugnano i divulgatori della teodicea darwiniana, a una “evoluzione” del sapere per selezione dell’idea migliore. In realtà è il concetto stesso di evoluzione a selezionare e rinforzare la cornice ideologica che l’ha a sua volta scelto, allevato e abbracciato: società mercantile e ideologia scientifica, entrambi frutto del medesimo modello capitalistico, si giustificano a vicenda. Di fronte a un simile incesto, la sola esistenza di altre valide spiegazioni del mondo biologico, genera sorpresa e un senso di liberazione intellettuale. Il libro di Sermonti destò dunque clamore, e in soli due anni conobbe cinque edizioni.
La ricca documentazione offriva per la prima volta ai lettori italiani la conoscenza di ricerche biologiche non darwiniane condotte in molti paesi, riabilitava la dignità scientifica della forma, e ribaltava l’idea di un’origine spontanea della vita e dello sviluppo graduale dal semplice al complesso, mostrando che la ricchezza delle forme viventi non è aumentata col progredire delle ere, e che non sono mai esistite incompiute “forme intermedie”. La vita echeggia nel tempo variazioni di temi perenni, dentro l’architettura senza storia delle leggi naturali. Una rilevante appendice al dibattito verrà aggiunta da Sermonti cinque anni dopo, pubblicando La luna nel bosco, saggio sull’origine della scimmia,[22] che contesta l’origine scimmiesca dell’uomo. Naturalmente Sermonti non vi abbraccia, come si è voluto far credere, una visione devoluzionista (l’idea cioè di una sorta di evoluzione al contrario, discendente, appunto una devoluzione, ad es. dall’uomo alla scimmia). Egli riprende piuttosto l’esposizione della ricapitolazione e della pedomorfosi di Stephen Jay Gould,[23] e la grande idea ologenetica di autori come Karl Ernst von Baer e Daniele Rosa, secondo la quale la completezza, la maggiore ricchezza d’informazione, la massima potenzialità, si trovano al principio piuttosto che alla fine della tassonomia, e lo svolgersi della filogenesi non fa che specificare, adattare a una funzione di nicchia specifica, ciò che era totipotente e dunque aspecifico. Queste tematiche si intrecciano al fenomeno della neotenia, cioè la “risalita” di certe specie verso i propri caratteri originari e potenziali, secondo quanto indicato da Kollman e Bolk. Per quest’ultimo, ad es., la nostra specie si distingue tra gli ominidi proprio per essere neotenica: «l’uomo, nel suo sviluppo fisico, è un feto di primate che è divenuto sessualmente maturo».[24]
L’origine dunque non va intesa in senso temporale e meccanicamente causale. In effetti “le origini” ricercate dalla scienza moderna, interessano poco:
«Esse non sono le ragioni delle forme, ne sono puramente uno strumento, il fango primigenio che, anziché indicare, contraddice e si oppone alla forma che da esso sta per generarsi (…) L’origine – nella tradizione di von Baer – è il piano generale entro di noi, è la classe entro cui siamo collocati nello spazio dei viventi».[25]
Possiamo affermare in tal senso che l’uomo è più giovanile, più vicino all’origine, degli antropoidi arrampicatori ben adattati al proprio pezzo di mondo. L’uomo, animale incompleto e senza nicchia, «creatura aurorale e primigenia», girovaga per il pianeta come l’adolescente del creato, alla ricerca di un’idea sempre al di là dell’orizzonte.
L’argomento verrà ripreso dall’Autore un ventennio dopo nel volume Dimenticare Darwin,[26] una sorta di pacata ed elegantissima resa dei conti col vecchio avversario, davanti al tribunale del tempo. Con argomenti aggiornati alla letteratura scientifica del post-darwinismo e dei grandi colleghi di fronda coi quali ha potuto confrontarsi in tutto il mondo dopo l’edizione del primo libro, conferma le proprie conclusioni, e porge alle discipline della vita l’invito del matematico e filosofo Alfred N. Whitehead: «Una scienza incapace di dimenticare i propri fondatori è perduta». A conclusione della prefazione, Sermonti fra l’altro puntualizza:
«Per le riserve che nutro nei confronti dell’Evoluzionismo sono stato accusato d’essere un “creazionista”. Non lo sono: se me lo si permette, aspirerei soltanto ad essere una creatura.»[27]
Dalla storia della scienza a quella della scrittura
In quegli anni l’editore romano Di Renzo comincerà l’opera ancora in corso di pubblicazione delle «commedie da tavolo»,[28] dialoghi immaginari ma verosimili tra i protagonisti delle più illuminanti vicende storiche della scienza, dalla scoperta delle leggi di Mendel al dibattito sulla circolazione sanguigna, dal Progetto Manhattan, alla vita dello scienziato e filosofo russo Pavel Florenskij.
Esse uniscono il piacere di piccoli e squisiti pezzi teatrali, con l’indagine rivelatrice di avvenimenti cruciali nella scienza, spesso ribaltando luoghi comuni impostisi per decenni. È ad es. divertente constatare come lo scopritore della circolazione sanguigna, William Harvey, il quale difendeva la centralità del cuore nel circolo paragonando l’organo a un re, espungesse la metafora, e abbracciasse addirittura il modello contrario, che dava più importanza alla periferia dei vasi, subito dopo la rivoluzione di Cromwell e la decapitazione di Carlo I.[29]
Dall’interesse per le modalità simboliche, il significato e le origini della scienza, Sermonti, impegnato ad aggiornare e ripubblicare le sue opere, negli ultimi anni ha tratto anche un sorprendente filone di ricerca, apparentemente sconnesso dal suo campo d’indagine. È lo studio dell’origine zodiacale degli alfabeti semitici, basato sulla comparazione formale, simbolica e ordinale con gli antichissimi segni di raffigurazione delle costellazioni (databili a oltre 20.000 anni dal presente) e le lettere della nostra famiglia alfabetica, testimoniate già intorno al III millennio a.C.
L’ordine costante (A, B, C, ecc.) e la forma stessa delle lettere, che in versioni variate vediamo ripetersi per tutti gli alfabeti della nostra civiltà, dal sinaitico, al lineare B, al greco, all’etrusco, al latino, non sarebbero dunque del tutto convenzionali, ma avrebbero una radice rovesciata, che rivolgendosi verso l’alto affonderebbe nel cielo. L’alfabeto non sarebbe che un’immagine derivata delle forme delle costellazioni (vedi figura 6).
Sebbene la corrispondenza formale e ordinale fra i segni alfabetici e le costellazioni sia effettivamente impressionante, l’idea genera sconcerto. Cosa può mai esserci in effetti di più arbitrario, e dunque variabile, delle forme che gli uomini hanno immaginato unendo dei puntini luminosi nel cielo stellato? Eppure, quelle “forme immaginate” hanno una costanza plurimillenaria. Con uno studio transculturale di grande fascino, avvalendosi di contributi pressoché dimenticati di studiosi come Marcel Badouin, Sermonti ricostruisce la misteriosa antichità delle forme del nostro zodiaco, ipotizzandone un’origine paleolitica.[30]
Di più, egli è riuscito a trovare un terzo elemento di paragone, una logica di collegamento extra-formale tra le due classi di segni, e cioè una dinamica astronomica dei miti più antichi della nostra civiltà. Le stesse radici semantiche che sovrintendono alle narrazioni antiche, non sarebbero che illustrazioni dei movimenti dei cieli, come aveva detto il grande Giorgio De Santillana,[31] e ci aiutano a comprendere l’ordine e i sottogruppi (corrispondenti a cicli mitici) delle nostre lettere.
In realtà non si tratta che della medesima riflessione sull’enigma della forma, mossa da una prospettiva più generale, quella culturale. Nel 2002 esce così, dopo una serie di articoli comparsi su varie riviste, Il mito della grande madre, dalle Amigdale e Çatal Hüyük,[32] un saggio avvincente, ricco di osservazioni astronomiche, archeologiche, filosofiche e naturalistiche sulle origini della nostra civiltà. Ad esso sta per aggiungersi un nuovo volume,[33] il quale ne approfondisce e puntualizza molti aspetti.
L’atto di indagare la genesi della scienza (questa religione rispettata e temuta), di sollevare il velo che tutti ritenevano inesistente, e guardare là dove era inconcepibile si potesse spingere lo sguardo, ha condotto lontano l’Autore, dimostrando la fecondità delle sue riflessioni e delle sue intuizioni. Per noi risulta un insegnamento prezioso, e un’inestimabile speranza di libertà e verità.
Tratto da NEXUS New Times n. 79 .
[1] Scientismo è la metafisica che assolutizza (o essenzializza) l’oggetto come definito dai parametri del metodo sperimentale quantitativo nato in Europa tra la fine del XVI sec. e i primi decenni del XVII sec. Esso, in breve, postula che tutta la realtà si riduce a ciò che la condivisione linguistica e teorica (a sua volta convenzionata in termini matematici) preseleziona e definisce come reale, senza porsi il problema della genesi del linguaggio e della teoria stessi, né della relazione costitutiva dell’oggetto con tali variabili, ovvero con il soggetto conoscente. In termini più semplici è l’ingenua fede nella “verità” astorica, assoluta e onnicomprensiva della scienza (sia come metodo, sia come risultati), o un’indebita identificazione della razionalità e della conoscenza medesime con la scienza. In un certo senso lo scientismo è il provincialismo della conoscenza, ed è divenuto per questo il verbo comune della cosiddetta globalizzazione. La globalizzazione ha infatti ridotto il mondo a “provincia” non solo in termini di tempo e spazio, ma anche di qualità e differenze; il suo abitatore tipico è il turista occidentale middle-class convinto di rappresentare a buon titolo, con le sue reazioni e i suoi interessi standard, l’umanità, magari mentre a Parigi, New York o Shanghai cerca il suo pranzo al McDonald.
[2] La vicenda venne seguita dal quotidiano romano Il Messaggero il 20 e il 25 maggio 2003.
[3] Strettamente parlando, non è neanche un’operazione particolarmente originale cercare errori in una produzione che negli anni ha accumulato forse un migliaio di articoli, senza contare i libri!
[4] A titolo di esempio si veda la recensione del CICAP, a firma Andrea Bottaro, al libroDimenticare Darwin, sul sito www.cicap.org. L’autore si prodiga nel mettere in bocca a Sermonti solenni sciocchezze da lui mai profferite, ovviamente senza citare le fonti, s’incaponisce alla ricerca di errori per “trarre in fallo” il professore, e riferendo con acredine un complimento mosso da un lettore al suo stile letterario («Uno che credesse nella reincarnazione, direbbe che Sermonti in una vita precedente fosse [sic] un poeta») conclude: «La cosa veramente difficile da credere è che, solo qualche decennio fa, Sermonti sia stato uno scienziato». Se l’eleganza pare a costui una colpa e quasi un trucco da illusionista, si capisce la competenza estetica dalla quale può accusare l’Autore di «uso pretenzioso di arcaismi» (sic)! Visti i termini – poesia versus scienza – dev’essergli davvero costato un grande sforzo allontanarsi dalle sue solite letture per scrivere la recensione.
[5] Cfr. Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, IV: «…in definitiva il senso dello spettacolare integrato è che si è integrato nella realtà stessa man mano che ne parlava; e che la ricostruiva come ne parlava. Così questa realtà non gli sta più di fronte come qualcosa di estraneo (…) Lo spettacolo si è mischiato a ogni realtà, irradiandola. Come era facilmente prevedibile sul piano teorico, l’esperienza pratica della realizzazione sfrenata delle volontà della ragione mercantile avrà dimostrato rapidamente e senza eccezioni che il divenir-mondo della falsificazione era anche un divenir-falsificazione del mondo. Eccetto un patrimonio ancora cospicuo, ma destinato a ridursi sempre di più, di libri e di edifici antichi (…) non esiste più nulla, nella cultura e nella natura, che non sia stato trasformato, e inquinato, secondo le capacità e gli interessi dell’industria moderna. La genetica stessa è diventata pienamente accessibile alle forze dominanti della società» (1988, trad. It. di Fabio Vasarri). Id, La società dello spettacolo, I, 6: «Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale. In tutte le sue forme particolari, informazioni o propaganda, pubblicità o consumo diretto di distrazioni, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo conseguente. Forma e contenuto dello spettacolo sono entrambe l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.» (1967, trad. It. di Paolo Salvadori). Entrambe le opere di Debord, brevi quanto dense e preziose, meritano di essere lette e meditate, senza spaventarsi per la difficoltà apparente di queste citazioni (all’opposto dell’insignificante facilità del modello Piero Angela, che invece dovrebbe spaventarci). Le si trovano riunite in un unico volumetto tascabile riedito fin dal 2001 da Baldini Castoldi Dalai, e altri (l’importante, a detta dello stesso Autore, è evitare le straduzioni realizzate in Italia prima del 1979).
[6] La diffusione “culturale” attraverso popolari quotidiani (come La Repubblica) e importanti case editrici, è iniziata prima, perché il suo sistematico e ininterrotto martellamento giungesse a ottenere tale risultato. L’apparente obiettivo antireligioso (una vera missione) dei libercoli semi-comici di Odifreddi, Dawkins, Onfray, Hitchens, o l’erotofilia spinta che si riscontra un po’ ovunque, non sono che falsoscopi. Quel che realmente viene mediata è una visione oggettivista della realtà.
[7] Cfr. ad es. l’allegra panoramica di A. Lima-de-Faria, Praise of Chromosome “Folly”. Confessions of an Untamed Molecular Structure, World Scientific, Singapore, 2008, in attesa del prossimo libro di M. Piattelli-Palmarini e J. Fodor, previsto per quest’anno, sull’evoluzione senza adattamento, come annunciato da Piattelli-Palmarini stesso in “L’ornitorinco sconfigge Darwin”, Corriere della Sera, 14/05/2008. Un volume “storico” sull’argomento resta A. Lima-de-Faria, Evoluzione senza selezione. Autoevoluzione di Forma e Funzione, trad. It. Genova, Nova Scripta, 2003. Ma è dell’ottobre 1998 (11 anni fa!) la copertina della rivista New Scientist intitolata: «Evolution is Dead».
[8] Cfr. G. Sermonti, Genetics of Antibiotic-Producing Microorganisms, Wiley & Sons, London 1969.
[9] Rusconi, 1971, riedito nel 2002 per i tipi di Nova Scripta.
[10] Rusconi, 1974, anche questo riedito da Nova Scripta, 2006.
[11] Mae-Wan Ho, “A Structuralism of Process”, in B. C. Goodwin – A. Sibatani – G. Webster (eds.), Dinamyc Structures in Evolution, Edinburgh University Press, Edinburgh 1989. Lo strutturalismo in biologia (più propriamente strutturalismo dinamico) pone al centro della ricerca il problema della forma, della sua genesi e delle leggi che la regolano nel vivente. Rappresenta un’importante tradizione parallela al dominante modello darwinista, e ha dato vita a concetti come quello di «campo morfogenetico».
[12] Cfr. G. Sermonti – A. Sibatani, “Dieci anni del Gruppo di Osaka”, Rivista di Biologia92 (1999), pp. 211-218. Il testo teorico di riferimento più importante comparso in Italia è l’eccellente volume: G. C. Webster – B. C. Goodwin, Il Problema della Forma in Biologia, Armando, Roma 1988. Rapporti sugli incontri nazionali e internazionali del Gruppo di Osaka si trovano in diversi numeri della Rivista di Biologia.
[13] La nomogenesi (declinata da Autori diversi in varie forme come autogenesi, ortogenesi, ologenesi, evoluzione regolata, ecc.) vede nelle forme viventi e nelle loro disposizioni tassonomiche un ordine non casuale e autopoietico, già presente in potenza al principio del loro dispiegarsi. Per una panoramica della biologia non darwiniana e una trattazione critica (ma – occorre dirlo? – non creazionista) dei contorni culturali della teoria dell’evoluzione cfr. la rivista Atrium, IX (2007) 1, numero speciale sull’evoluzionismo a cura di S. Serafini.
[14] Il Ragno, il Filo e la Vespa, Mondadori, Milano 1974, riedito nel 2004 col titolo La Danza delle Silfidi dall’editore La Finestra (Lavis). A questo volume ne seguiranno altri tre, a carattere tematico: Fiabe di Luna, Rusconi, Milano 1986; Fiabe del sottosuolo, Rusconi, Milano 1989; Fiabe dei fiori, Rusconi, Milano 1992. Col titolo Fiabe di tre reami. Simbolismo e funzione delle fiabe, essi sono stati raccolti in una silloge illustrata di oltre 650 pagine dall’editore La Finestra nel 2004.
[15] Armando, Roma 1981, riedito da Sodalitium, Verrua Savoia 2003.
[16] Dino, Roma 1982, poi Solfanelli, Chieti 1994, poi La Finestra, Lavis 2003, e infine (con il titolo Una scienza senz’anima) Lindau, Torino 2008.
[17] Comunicazione personale di Marco Albertazzi.