Qualche considerazione sul piano Marshall
di William Blum - 30/05/2006
Ai paesi beneficiari il piano Marshall imponeva una lunga serie di restrizioni; erano stabiliti criteri economici e fiscali a cui bisognava attenersi, che avevano come unico scopo quello di assicurare un grosso ritorno economico alla libera impresa. Più che una “distribuzione di ricchezza” si trattava di un’ accordo tra governi – con gli avvocati di Washington che fissavano le regole – e spesso di negoziazioni d’affari tra le classi al potere negli Stati Uniti e in Europa |
Negli anni trascorsi a scrivere e a parlare dei danni e delle ingiustizie inflitte al mondo dall’eterno interventismo degli Stati Uniti, sono spesso stato accusato di dar voce solo alle ripercussioni negative della politica estera americana ignorandone il gran numero di aspetti positivi. Se chiedo ai miei accusatori di darmi qualche esempio del volto virtuoso dell’America moderna nei suoi rapporti col resto del mondo, una delle cose che viene menzionata più di frequente è il piano Marshall con commenti del tipo: “Dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo ricostruito economicamente l’Europa con altruismo – anche per quanto riguarda quei paesi che durante il conflitto erano nostri nemici – e abbiamo permesso a diverse nazioni di farci concorrenza”. Anche coloro che oggi mostrano un certo cinismo verso la politica estera degli Stati Uniti, coloro che diffidano dei motivi che hanno portato la Casa Bianca in Afghanistan, in Iraq e in altre parti del mondo, non hanno problemi a bersi l’altruismo dell’America nel periodo che va dal 1948 al 1952. Dopo la guerra, gli Stati Uniti, vittoriosi all’estero e senza difficoltà di ricostruzione in patria, videro spalancarsi le porte della supremazia mondiale, verso cui si frapponeva un unico ostacolo, allo stesso tempo politico, militare e ideologico: il “comunismo”. Tutto l’establishment che si occupava della politica estera degli Stati Uniti venne mobilitato per affrontare questo “nemico”, e il piano Marshall divenne parte integrante di questa campagna. Avrebbe potuto essere altrimenti? Già dall’epoca della rivoluzione russa, e fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’anticomunismo era stato al centro della politica estera del paese, accantonato soltanto durante il periodo bellico fino agli ultimi mesi della campagna del Pacifico – quando Washington stabilì che sfidare il comunismo era più importante che combattere i giapponesi. Il lancio della bomba atomica sul Giappone, in quanto segnale per l’Unione Sovietica, faceva parte di questa politica. Con l’avvento della pace, poi, l'anticomunismo continuò a fare da sottofondo alla politica estera, come se l'alleanza di guerra con l'Unione Sovietica non fosse mai esistita. Il piano Marshall, assieme alla CIA, alle Fondazioni Rockfeller e Ford, al Council on Foreign Relations [Consiglio per i rapporti con l’estero, NdT], a vari gruppi e istituzioni private, non era che un’altra freccia nell’arco di Washington per ricostruire l’Europa secondo i propri desideri – attraverso la divulgazione del vangelo del capitalismo (per controbilanciare le forti tendenze socialiste del dopoguerra). Il tutto con l’apertura di mercati che portassero nuovi clienti alle aziende statunitensi (motivo determinante per sostenere la ricostruzione delle economie europee: ad esempio quella del tabacco, che ai prezzi del 1948 valeva quasi un miliardo di dollari); con la spinta per la creazione del Mercato Comune e della NATO come elementi integranti del baluardo dell’Europa occidentale contro la presunta minaccia sovietica; con la soppressione della sinistra in tutta l’Europa occidentale, soprattutto sabotando i partiti comunisti di Francia e Italia e i loro tentativi di arrivare a una vittoria elettorale non violenta. I fondi del Piano Marshall furono segretamente dirottati verso il finanziamento di quest’ultima impresa, dato che le promesse di aiuti a un paese o le minacce del loro ritiro venivano impiegati come mezzi di coercizione; e bisogna dire che sicuramente Francia e Italia non avrebbero ricevuto niente se non avessero acconsentito ad estromettere i comunisti. Anche la CIA si prese una grossa parte di questi fondi per finanziare in segreto istituzioni culturali, giornali ed editori – tra le mura domestiche e all’estero – che promulgassero l’accesa e onnipresente propaganda della Guerra Fredda; e il piano Marshall venne presentato sia in America che fuori come uno strumento indispensabile per combattere la "minaccia rossa". Inoltre, nel corso di operazioni segrete, gli agenti della CIA occasionalmente lo usarono come copertura, tanto che uno dei suoi ideatori principali, Richard Bissell, in seguito si trasferì alla CIA – dopo aver fatto una breve sosta alla Fondazione Ford, che costituiva da lungo tempo un canale su cui venivano deviati i fondi segreti dell’Agenzia: ma che bella famiglia! Ai paesi beneficiari il piano Marshall imponeva una lunga serie di restrizioni; erano stabiliti criteri economici e fiscali a cui bisognava attenersi, che avevano come unico scopo quello di assicurare un grosso ritorno economico alla libera impresa. Gli Stati Uniti non solo godevano del diritto di controllare come venivano spesi i dollari assegnati, ma anche di quello di approvare la spesa di una somma equivalente in valuta locale – elemento che garantiva a Washington un considerevole potere di decisione sui piani e progetti interni degli stati europei. E l’America non gradiva una politica di welfare per le persone bisognose, persino il razionamento veniva considerato troppo vicino al socialismo e doveva essere eliminato o quantomeno ridotto – per non parlare della nazionalizzazione dell’industria, a cui Washington si opponeva con una veemenza ancora maggiore. La maggior parte dei fondi del piano Marshall, se mai lasciarono il paese, tornarono negli Stati Uniti per comprare merci americane, trasformando così i grossi gruppi industriali nei suoi maggiori beneficiari. Più che una “distribuzione di ricchezza” americana si trattava di un’ accordo tra governi – con gli avvocati di Washington che fissavano le regole – e spesso di negoziazioni d’affari tra le classi al potere negli Stati Uniti e in Europa (molte tra queste ultime fino a non molto tempo addietro erano subordinate al terzo Reich – e magari anche alcune tra le prime). Ciò dava anche l’impressione di un accordo tra il Congresso e alcuni interessi industriali, che gli erano vicini, a cui rendeva possibile l’esportazione di alcuni beni cruciali, incluso un bel po’ di materiale bellico. In questo modo il piano Marshall ha posto le basi per una ricca industria militare come caratteristica permanente della vita americana. È quindi molto difficile fornire una descrizione chiara e credibile di come il piano Marshall sia stato determinante nella ricostruzione delle sedici nazioni beneficiarie. La visione opposta, certamente più chiara, è che l’Europa – ricca di cultura, abilità ed esperienza – avrebbe potuto riprendersi da sola dalla guerra, senza bisogno di un gigantesco programma d’aiuti dall’estero (in realtà le nazioni europee avevano già compiuto passi significativi in questa direzione prima ancora che i soldi avessero iniziato ad arrivare). I fondi del piano Marshall poi non avevano come funzione principale quella di assistere i singoli individui o di costruire nuove abitazioni private, nuove scuole e nuove fabbriche, bensì di rafforzare la sovrastruttura economica generale, soprattutto per quanto concerne le industrie metallurgiche ed energetiche. Infatti, quel periodo fu contrassegnato da una politica deflazionistica, dalla disoccupazione e dalla recessione. L’unico risultato inequivocabile di questa politica è stata la restaurazione dei ricchi al potere.
Il letame del toro Dalla sede dell’"US Interests Section" dell'Havana continuano a lampeggiare messaggi elettronici, per il beneficio dei passanti cubani. Uno di questi dice che Forbes, il settimanale finanziario, ha stabilito che Fidel Castro è al settimo posto tra i capi di stato più ricchi del mondo, con una fortuna stimata in 900 milioni di dollari. I passanti ne sono stati sconvolti, come è giusto che sia in una società socialista che si vanta di avere la distribuzione della ricchezza più equa del mondo. Non ne è sconvolto anche il lettore? Di cosa si tratta? Volete sapere su che cosa ha basato le proprie classifiche Forbes? Bene, sembra che due mesi prima che l’Interests Section trasmettesse questo messaggio, Forbes avesse già affermato che le stime costituivano più un "esercizio artistico che un fatto scientifico". “In passato”, scriveva la rivista, “ci siamo basati su una percentuale del prodotto interno lordo di Cuba per valutare la fortuna di Castro. Quest’anno, abbiamo usato metodi di valutazione più tradizionali, e abbiamo confrontato i beni posseduti dallo stato che Castro controlla con quelli di analoghe aziende pubbliche quotate” (Gli esempi riportati erano quelli di società statali di vendita al dettaglio, case farmaceutiche e anche un centro congressi). Facile no? Tutto si basava sul nulla. Allora, dal momento che George W. “controlla” l’esercito degli Stati Uniti, dobbiamo considerare i beni del Dipartimento della Difesa tra i suoi beni personali? Come, allo stesso modo, tra le proprietà di Blair c’è la BBC! Un altro messaggio che lampeggia nell’"US Interests Section" è: “In una nazione libera non servono permessi per lasciare il paese. Cuba è un paese libero?" Anche questo è un tentativo di gettare del fumo negli occhi della gente. Implica che saremmo in presenza di restrizioni poste in essere dal governo cubano nei confronti del proprio popolo, come il divieto di viaggiare all’estero; quindi, una limitazione della loro “libertà”. La realtà è ben più complessa e molto meno simile a quella descritta da Orwell in 1984. L’ostacolo principale verso gli spostamenti all’estero, per la maggior parte dei cubani, è di natura finanziaria: semplicemente non se lo possono permettere. Se hanno i soldi e un visto possono andare ovunque, ma è molto difficile ottenere un visto per gli Stati Uniti se non si fa parte del programma annuale d'immigrazione. Poiché Cuba è un paese povero che si preoccupa dell'uguaglianza tra i suoi cittadini, cerca di assicurarsi che i tutti adempiano all'obbligo di leva o prestino servizio civile. Prima di emigrare all’estero, i professionisti che hanno studiato e completato un tirocinio devono restituire al governo parte di quello che lo stato ha speso per la loro istruzione, come avviene anche in campo medico. E viste le costanti minacce costituite da una nota nazione del nord, Cuba è obbligata a prendere qualche precauzione. È quindi possibile che alti ranghi militari o dell'Intelligence, o comunque chi è in possesso di informazioni riservate, abbiano bisogno di un permesso per viaggiare – qualcosa che a livelli diversi esiste in tutto il mondo. Gli stessi americani hanno bisogno di un permesso per recarsi a Cuba. Ma gli Stati Uniti sono un paese libero, vero? Washington rende così difficile ai suoi cittadini recarsi a Cuba che in realtà è come se lo vietasse. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti a me lo ha impedito ben due volte. Inoltre, gli americani presenti sulla No-fly list [lista di coloro che non possono espatriare, NdT] non possono andare proprio da nessuna parte. Tutti gli americani hanno bisogno di un permesso se vogliono lasciare il loro paese. Il modulo necessario – è opportuno disporne una certa quantità – è verde ed è illustrato con l’immagine di un presidente degli Stati Uniti.
I musulmani americani sono molto conservatori. Il 72%, nel 2000, ha votato per Bush – prima di vederne all’opera lo stato di polizia. Adesso, continuano ad essere conservatori; in più, sono spaventati. Anche i funzionari delle università sono conservatori. Si fanno tirare per la giacca dalle organizzazioni conservatrici all’interno dei campus, le stesse che partecipano alle campagne nazionali finanziate con denari pubblici (è il pensiero di David Horowitz) e attaccano la sinistra – sia che si tratti di membri della facoltà che di studenti o oratori esterni. Da quando bin Laden il 19 gennaio ha parlato in mio favore non mi è più stata offerta la possibilità di tenere un discorso in nessun campus. I tentativi di qualche studente di farmi parlare non hanno portato a nessun risultato, nonostante il periodo tra gennaio e maggio sia di gran lunga il più ricco in quanto a partecipazioni e interventi da parte degli oratori universitari.
William Blum è tra gli autori dell'antologia 'Tutto in vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi'.
Fonte: http://www.counterpunch.org/blum05222006.html |