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Pomeriggio di febbraio

di Francesco Lamendola - 18/02/2011




Chiara è la giornata e corte le ombre che questo Sole di febbraio disegna in terra e lungo i muri bianchi delle case, orlando i cornicioni di finestre e verande.
Il cielo e le nuvole si specchiano nel rivo che corre in fondo al suo letto incassato fra gli argini, per poi infilarsi sotto l’arcata del ponte e scomparire temporaneamente nell’umidità semioscurità, prima di riemergere in piena luce.
Le prode erbose sono ammantate d’un verde povero, disseccato dai rigori dell’inverno; manca ancora molto allo spuntare dell’erba nuova e solo i cipressi, che si protendono sul ciglio dell’argine, brillano d’un verde smeraldo, che introduce una nota di freschezza.
In alto, la sagoma del castello si staglia nitida sulla sommità arrotondata della collina, visibile da molti chilometri di distanza.
In basso, le vie del paese si incurvano silenziose nella luce diafana e carezzevole, mostrando ora muri a secco intessuti di vite selvatica e piante rampicanti, ora archi di pietra che si aprono su vasti ed ombrosi cortili interni.
La facciata della chiesa antica, rifatta in sobrie linee neoclassiche, si crogiola nel tepore del primo pomeriggio e pare che beva la carezza del Sole con dolce voluttà, come per farne la scorta prima del sopraggiungere delle ore gelide, dopo il tramonto.
Attraverso il piccolo giardino sul lato destro del tempio ed entro dalla porta laterale, che ricordo essere sempre socchiusa.
Lì, nella fresca penombra, la luce del Sole filtra attraverso le vetrate colorate adorne di seniori e di vergini dalle figure solenni, e diffonde i suoi tenui riflessi gialli, azzurri, rossi, scivolando sulle superfici rotonde delle colonne e posandosi con un senso di pace sui marmi del pavimento e sui banchi di legno.
Solo pochi passi mi separano dall’altare maggiore e dalla pala d’incredibile bellezza con la Madonna in trono, fra angeli e santi, dipinta nel 1525 da Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone.
Meraviglioso Paese, l’Italia, ove anche il più modesto borgo di provincia può vantare almeno un autentico capolavoro dell’arte, vecchio di secoli!
Era l’anno della battaglia di Pavia: Francesi, Spagnoli ed Imperiali si susseguivano nelle invasioni e nelle sistematiche devastazioni; appena due anni dopo vi sarebbe stata la tragedia nazionale del Sacco di Roma: e intanto un grandissimo pittore, famoso in tutto il mondo, terminava quest’opera che ora adorna la chiesa parrocchiale di un piccolo centro italiano, sconosciuto a tutti fuori dai confini di questa provincia.
La grazia del volto della Vergine, la delicatezza dei gesti, la sobria, commossa dignità delle altre figure, uomini e donne ancor giovani, dai volti bellissimi e dalle membra atletiche, con le loro vesti di foggia rinascimentale, sono quasi impossibili da descriversi a parole.
In basso, un angelo musicante sta accordando il suo liuto con un gesto di così straordinaria naturalezza, da sembrare vivo e reale e non un’immagine dipinta.
Alle loro spalle, sullo sfondo, s’innalza un paesaggio architettonico rappresentato con sapiente abilità prospettica,  mentre il cielo azzurro fa capolino tra le colonne e, rannuvolato, si apre libero al di sopra dei marmi e della vegetazione che li incornicia.
Proporzione, equilibrio, armonia, luminosità, senso del colore e della plasticità, freschezza, vivacità, sapienza compositiva, poesia del raccoglimento, dell’eleganza e, al tempo stesso, della sobrietà: tutto questo balza allo sguardo dell’osservatore già dal primo istante, strappandogli un moto istintivo di profonda, incondizionata ammirazione.
Dopo aver trascorso qualche minuto nella contemplazione di un’opera del genere, l’anima si fa più leggera e, quasi trasfigurata, vorrebbe evadere dalla dimensione del finito, inseguendo il nostalgico richiamo della sua patria lontana.
Ed ecco, nel silenzio della chiesa deserta, le note dell’organo si spandono attraverso la penombra delle navate, struggenti e armoniose, con una saldezza architettonica che richiama la proporzione aurea, la matematica pura nella sua forma più sublime, e trasmettendo un senso di perfetta armonia, di calore, di pace infinita.
Assorto e rapito, riconosco tuttavia qualche brano celebre, interpretato con maestria dal misterioso organista della cui presenza non m’ero accorto; fra gli altri, lo stupendo «Vieni, o Salvatore dei gentili» di Johann Sebastian Bach.
Per qualche minuto, o forse per una eternità, i confini dello spazio e del tempo si dissolvono, così come si dissolve la distinzione fra l’esterno e l’interno, fra l’alto e il basso: la mente si acquieta, si distende, si svuota e un senso di immensa letizia, di appagante serenità sostituisce il fluire incessante e irrequieto dei pensieri ordinari.
Adesso non  vi sono un prima e un dopo, un passato e un futuro; esiste solo un presente calmo, quieto, consapevole,  equanime e assolutamente non giudicante.
Quando la musica, infine, si spegne, con un’ultima eco che indugia sotto le volte e fra le colonne, è con il passo più sciolto e con l’occhio più limpido che esco dalla penombra della chiesa, di nuovo nella luce diffusa del limpido pomeriggio invernale.
Senso di libertà, di leggerezza, di pace.
Mi tornano alla mente i celebri e bellissimi versi di William Wordsworth:

«Io vagavo solitario come una nuvola
Che galleggia in alto, oltre valli e colline,
quando all’improvviso vidi una folla,
moltitudine di dorate giunchiglie,
presso il lago, sotto gli alberi,
svolazzanti e danzanti nella brezza.»

«I wandered lonely as a cloud
that floats on light o'er vales and hills
when all at once I saw a crowd,
a host, of golden daffodils;
beside the lake, beneath the trees,
fluttering and dancing in the breeze.»

Chissà perché, poi, mentre le palpebre si stringono al cospetto della vampa del sole basso nel cielo, ma bruciante, profumi, sapori e ricordi dell’infanzia incominciano a danzare nell’aria, insieme ai puntini luminosi che si accendono dei colori dell’iride?
Chi lo sa quali arcani legami si creano, in particolari circostanze, magari fuggevoli ed elusive, fra i sensi esterni e quelli interni: fra l’aroma di un arbusto di rosmarino, per esempio, e un ricordo lontano, risalente agli anni dell’infanzia?
Anzi, neppure un ricordo: il ricordo di un ricordo; nemmeno: il ricordo di una sensazione, di uno stato d’animo, di una atmosfera, non di un evento preciso; il ricordo di aver avuto, chissà quando, negli anni dell’infanzia, l’intuizione della carezza della vita, dolce, sottile, enigmatica e, soprattutto, sempre sfuggente e inafferrabile.
La mente, perennemente ambiziosa e inquieta, vorrebbe capire, vorrebbe spiegare tutto; ma vi sono dei momenti nei quali è giusto limitarsi ad accogliere i fenomeni della vita, ad accoglierli così come vengono: come un dono, con semplicità e riconoscenza.
Il segreto, in fondo, è tutto qui. Non è un segreto che si rivela agli ambiziosi o ai presuntuosi; non si trova scritto in alcun libro, ma si rivela a quanti sanno farsi piccoli.
La musica è in grado di realizzare taluni di simili momenti; ma lo è anche il puro abbandono al fluire dell’esistenza, quando l’anima è sgombra e liberata dai perpetui fantasmi della brama e del timore, della passione egoistica, del diuturno inseguimento della felicità.
Perché la felicità non si può inseguire, non si lascia catturare da nessuno, mai; piuttosto, talvolta si concede in dono, come una donna orgogliosa e consapevole di sé, a quanti non la corteggiano con goffe smancerie, né la pretendono con ridicola imperiosità, ma seguono la propria chiamata con tranquilla coscienza, fedeli alla voce dell’Essere.
Ora seguo le sponde del torrente, fiancheggiate dai tigli e da una lunga staccionata di tronchi, nella vampa di questo inaspettato Sole di febbraio.
Al di là del ponte s’intravvede la campagna, punteggiata di vigneti e casolari, della bassa pianura, che si perde laggiù in lontananza, verso il mare.
Quella vista riporta alla mente le immagini dell’estate, quando si percorre la strada per andare in vacanza; la strada accompagnata dai salici e dai pioppi, che si snoda con pigre curve in mezzo ai campi di granturco già alto e ai filari di vite rigogliosa.
Sembra così strano pensare all’estate, adesso, nel mezzo dell’inverno freddo e cristallino; eppure questo cielo luminoso ne suggerisce quasi l’illusione, come se essa dovesse apparire da un momento all’altro, magari dietro quella macchia di carpini laggiù: come un’amica che non si era mai realmente allontanata, anche se si teneva nascosta alla vista, così, forse per fare un semplice scherzo…
Più in là, in direzione del fiume che, da qui, non si vede, s’innalza all’orizzonte, tremolando per la distanza, la torre quadrata del tempio dedicato ai caduti della prima guerra mondiale: la sua sagoma massiccia costituisce un elemento caratteristico del paesaggio, introducendovi una nota solenne e, al tempo stesso, pensosamente malinconica.
Volgo lo sguardo dall’altra parte, in direzione del settentrione: le montagne sono vicine, ma non appaiono severe e incombenti, come quelle della mia terra natale, che pure non sono poi tanto lontane; hanno, al contrario, qualcosa di svelto e di gentile, nonché di elegante, quasi fossero uscite dal pennello del Giambellino o di Giorgione.
La chiara vastità del cielo azzurro; la dolcezza quasi bucolica delle campagne intorno, con la colline incurvate, dal dorso ammantato di boschi; la pace e il silenzio dell’ora pomeridiana: tutto concorre a favorire uno stato d’animo lieto e disteso, serenamente contemplativo.
Eppure non c’è direzione in cui si volga lo sguardo, non c’è cosa su cui possa posarsi, che non rievochino momenti lontani che più non torneranno, ricordi non sempre lieti, volti, parole, gesti mai del tutto dimenticati, che rinnovano una sottile, ma intensa sofferenza, proprio quando la si poteva credere definitivamente assopita…
No, nulla mai si perde, nei meandri della vita; nulla mai si dimentica: pensieri pronti a ferire alle spalle, come direbbe Kierkegaard, escono da remote lontananze, all’improvviso, e colpiscono con la stessa forza che se fossero emersi da un eterno presente.
Non si può barare con la vita: nulla si dimentica. Si possono, tuttavia, integrare anche le ore buie nella crescita del proprio sé, trasformando il veleno che ci diede la morte, in una nuova linfa vitale, capace di sostenerci e di renderci più forti, qui e ora.
Noi viviamo nel presente: non è il passato a poterci ferire; non più di quanto lo potrebbe il fantasma che, dicono, si aggira in certe notti oscure fra le rovine del castello medievale, sul fianco della collina, per annunziare qualche grave sciagura non ancora manifesta.
Sono le contraddizioni non risolte della nostra anima, che ci possono ferire; e, per farlo, talvolta si ammantano dei fantasmi del passato, ingannandoci sulla reale natura di quel che proviamo. Ma non sono quei fantasmi a provocarci il dolore; bensì le nostre insufficienze presenti, le nostre viltà, le nostre infedeltà verso noi stessi.
Questo pensiero è consolante: perché non potremmo mai avere la meglio sulle creature della nostra mente, se realmente venissero di lontano, da un punto fuori di noi. Invece sono in noi, qui, adesso: e noi le possiamo esorcizzare, se apriamo la nostra vita ad una volontà di redenzione.
Trovare la pace, dipende solo da noi stessi…