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La scelta di Adana

di Emilio Michele Fairendelli - 18/02/2011

Sulla parete della sala di preghiera al primo piano, a lato del piccolo crocifisso, stava scritto in sottili lettere nere: ho sete.
Quale era la nostra sete?
Sete di un istante ancora di vita nel corpo, un ultimo istante per una carezza sul viso, per uno sguardo, sete d’Amore, di Verità, se questa mai esiste qui o in qualche altro luogo dell’Universo, sete di un fresco velo sulla fronte rovente, di acqua d’oblio a poter infine dimenticare la caduta nel tempo e nella carne, ogni peso, ogni terribile male di Calcutta.
Come convocato dalla nostra voce alle prime parole dell’Inno del lucernario, il tramonto indiano, immediato e privo di ogni dolcezza, invadeva la sala scurendola.
Allora lame d’ombra si raccoglievano negli angoli delle pareti, cadevano lungo gli spigoli dei pilastri di legno come nere linee verticali, rune di una scrittura che contemplavo ogni volta, certa dicesse, indecifrabile, la storia del mondo e la mia.
Nacqui, Adana Jers, il 15 di Agosto del 1950 a Gomsiqe, nel Nord dell’Albania.
Ragazza, vidi il mio villaggio dalla cima del monte Jezerces, piccoli sassi bianchi che la mano di Dio aveva lasciato cadere in casuale forma di virgola sulla collina.
Verso oriente stavano la Macedonia e Skopje, dove era nata lei, Teresa.
Mi fu facile volgermi alla vita religiosa.
La mia famiglia, cattolica, era devota e non avrei mai potuto abitare nulla di ciò in cui vivevo: l’Albania, spazio diroccato della storia dove stavano sconvolti, immobili da millenni detriti latini e slavi, il suo regime nero come la notte.
Nel 1974 scrissi al Khaligat delle Suore Missionarie della Carità di Calcutta. Mi rivolsi direttamente a lei, Madre Teresa, scrivendo ciò che avrei voluto fare della mia vita e fu lei, forse perché ero albanese, a rispondermi accettandomi per il noviziato.
Lasciai senza problemi – non ero che una giovane con fama di religiosa eccentrica e non interessavo a nessuno – l’Albania quello stesso anno dal porto di Valona.
Il vento del mare sollevava le mie vesti e, mi parve di credere, il corpo da terra, verso la consacrazione, la consistenza che attendevo.
Partii dall’Italia.
Con il primo respiro in lei l’India volle mostrarmi la sua forza, il peso che mi avrebbe imposto: fu come mi avessero premuto a forza uno straccio umido e bollente, pieno di sabbia e polvere, contro il viso.
Quella sera stessa, al Khaligat, vidi Teresa.
Quando entrò nella sala – dopo tutte le altre sorelle come seppi poi essere sua abitudine – per fare iniziare il Vespro sentii una Forza precederla.
Una Forza dura e impersonale, la cui onda mi toccò per un istante senza riconoscermi e senza che io la potessi amare.
Pochi giorni dopo mi fu assegnato il compito del noviziato: con due sorelle, Aditi e Judith, avrei percorso ogni giorno le vie del quartiere, contemplato e consolato i sofferenti, portato nel tramonto al Khaligat chi doveva morire.
Ci insegnarono a riconoscere i segni, non sempre evidenti – il corpo desidera così tanto la vita da effondere nelle ultime ore la sua antica pienezza: la vita del cuore e del sangue, uno sguardo più luminoso, memorie lontane, il desiderio di un cibo – dell’agonia.
Sotto i nostri piedi di donna, sotto i sottili sandali di cuoio, sentivamo nelle vie polverose salire la febbre della terra, la febbre del tempo e della corruzione di ogni cosa manifestata dopo la Caduta, una febbre che colpiva anche noi e che ora attaccava quell’ uomo dagli occhi bianchi, un bambino deforme lasciato come un rifiuto in un angolo, il vecchio dai piedi gonfi e squarciati.
Ogni sera i morenti venivano ricoverati nell’enorme salone del piano terreno, adagiati sui lettini azzurri, una coppa d’acqua a lato sul pavimento per la sete di ognuno.
Quando ci alzavamo per la prima preghiera della giornata i gemiti erano cessati: l’Anima di molti aveva già lasciato quella distrutta veste di carne entrando nel suo segreto destino in altri mondi.
Sotto il nostro sguardo alcuni volavano in quell’istante oltre il tetto di lamiera del padiglione, in alto, nel cielo sopra Calcutta.
Altri sarebbero durati nel mondo ancora un giorno, forse due.
Teresa attraversava le file di uomini ogni sera: la vedevo chinarsi, toccare le mani e le fronti, sorridere come una madre al figlio malato.
Indugiava con la mano su un corpo mentre il suo sguardo si faceva più grave ed io comprendevo quanto quello fosse il mondo che cercava, quanto lei ricevesse molto più che dare.
Ma quale energia potevano trasmettere quei corpi nel Khaligat?
Incomiciai a capire solo molto tempo dopo.
Una notte, nel caldo insopportabile, mi alzai molto prima dell’alba.
Decisi che avrei pregato.
Quando entrai nella sala la vidi seduta in prima fila, minuscola, curva sulla sua devozione e su quel suo sentire che nessuno conosceva.
Dopo forse mezz’ora Teresa si girò parlandomi nella nostra lingua.
“Il silenzio è così grande – disse piano – io Lo cerco e non lo trovo, provo ad ascoltare ed è il niente. Non Lo trovo né in me né fuori di me. Tu, Adanìca, tu Lo senti?”
Tante volte mio padre aveva usato – chiamandomi, bambina, a sé – quel vezzeggiativo.
Non risposi.
Chinai il capo, perché vedesse come avevo accolto le sue parole, immergendole di nuovo nella preghiera.
Entrambe, sapevo, cercavamo il Supremo, l’impensabile Divino, ma per la coscienza di Teresa non esisteva che Gesù, il crocifisso che moriva in quella sete.
Solo dopo anni lessi le lettere disperate che aveva scritto al suo confessore, Padre Brian.
Con il tempo tutto mi apparve chiaro.
Quanto compresi non cambiò mai ciò che provavo per Madre Teresa, per quella Forza che, senza che fosse possibile capirne il vero volto e lo scopo, la natura angelica o di demone della terra, la precedeva sempre di un passo.
Un uomo è uno e molti, la più alta coscienza e il niente, il bene e il male.
Sento di nuovo sul viso, sugli occhi chiusi a forza, le labbra di Balmir, l’uomo che volle prendermi in quella legnaia del villaggio.
Mentre la sua bocca disperata mi cercava come il devoto un’icona l’altra metà di lui, il sesso, avrebbe voluto aprirmi il ventre come una lama, senza pietà, solo per la sua gioia feroce.
Nell’intensità intollerabile di quella sofferenza, nella visione dei corpi distorti e piagati Madre Teresa riusciva finalmente a sentire, a pronunciare le domande che desiderava, a trovare la forza per credere, per immaginare il mondo che doveva venire.
Per il suo sentire la sofferenza non era che il sorriso di Gesù, la sua benedizione, in realtà, più nel profondo, era l’aculeo sottile e già insanguinato che, infitto in lei, la rendeva viva, capace di intravvedere la vera immagine del Divino.
Come desiderarne la scomparsa?
Era tutto.
Quella terra, l’India, non le aveva mai parlato ma era il solo mondo che voleva e che poteva abitare.
Non aveva mai creduto che i miserabili scontassero il karma, le colpe di altre vite o dei loro maggiori, né aveva mai immaginato quella verità che ora mi appare chiara, cioè che l’Anima, nella sua suprema libertà, aveva scelto per sè, per una vita, quell’esperienza vuota oscura sino all’inimmaginabile e così dolorosa.
Perché tutto è Uno, perché tutto possa alla fine del tempo compiersi.
Nonostante ogni sua opera e ogni sua compassione, la vidi perduta.
Una notte sognai la Madre mentre, inginocchiata, pregava: pesanti catene di ferro la legavano ad un albero nero e dai rami ritorti che si stagliava contro un freddo cielo d’alba.
Decisi che me ne sarei andata, un giorno, nell’ora libera che ci era destinata ogni settimana, camminando per le vie della città.
Un vento leggero portava un profumo di spezie, poi di altre terre, di una libertà che forse non mi avrebbe mai consolato ma che appariva certa e giusta.
Scrissi, come era obbligo, a Madre Teresa, comunicandole la mia scelta: dal mio arrivo al Khaligat erano trascorsi quattordici anni.
Volle vedermi, impartendomi gli obblighi del caso per l’Ordine e poi quelli organizzativi, stringendomi forte una mano con le sue, lasciandomi un biglietto con un pensiero e una piccola rosa.
Cosa mi attendeva?
Non ero più giovane ma i miei genitori ancora abitavano la nostra casa di Gomsiqe.
Sarebbe bastato salire i quattro gradini semicircolari di pietra rovinata, riconoscerli, così anziani, e salutarli, ritornare nella mia stanza e cadere nel sonno per svegliarmi verso nuovi giorni.
Cosa avrebbe fatto, Adana, della sua vita, già giunta oltre la sua metà, dopo avere compreso la verità e il senso del Khaligat?
Non lo sapevo.
Dall’aereo vidi dapprima Calcutta diventare sempre più piccola ed apparire i limiti di altri dominii del mondo che avevano in luoghi lontani il loro centro.
Poi vidi solo gonfie nubi bianche in cui falde di luce quasi materiali aprivano squarci.
La luce colpiva allora la piccola ellisse di vetro, poi i miei occhi, che dovevo socchiudere, infine colmava il luogo in cui io e gli altri stavamo sospesi nel cielo.
Era l’ora per una giusta preghiera.
A quella l’Eterno si sarebbe chinato un poco più vicino al mondo, a me, a Teresa, a ogni uomo, rendendoci liberi, capaci di vedere il Male al di là della finzione del tempo, parte e necessità dell’Opera, con il Suo sguardo.