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La natura, spogliata della Grazia, porta in sé una ferita che genera il disordine

di Francesco Lamendola - 25/02/2011


Wuthering heights 1

La natura è, in se stessa, circoscritta e limitata:  questa è una constatazione che ha trovato d’accordo praticamente tutti i pensatori, d’ogni tempo e d’ogni luogo.

Ora, la domanda è: come gestire questo dato di partenza, come rapportarsi alla finitezza e alla limitazione della natura?

Le risposte sono state innumerevoli; eppure, a ben guardare, tutte discendono da tre atteggiamenti fondamentali:

- primo, accettare questo limite e convivere con esso;

- secondo, non accettarlo e tentare di oltrepassarlo con lo strumento della ragione o con quello della volontà (di potenza);

- terzo, non accettarlo e affidarsi alla medesima fonte da cui la natura stessa deriva, e noi con lei, onde redimere la sua e nostra imperfezione, recuperando la perfezione originaria.

Il primo atteggiamento è, in sostanza, quello del materialismo rigoroso e conseguente; il secondo, quello di chi, come Nietzsche, cerca di andare oltre l’umano, ma solo ed esclusivamente con i mezzi della natura stessa, e in una prospettiva radicalmente immanentistica; il terzo è quello di chi vede nella imperfezione e nella finitezza della natura, che sono anche le nostre, un segno della perfezione e della assolutezza originarie, così come avviene che l’alterità ci riveli la nostra identità: e intraprende la strada del ritorno verso il divino, onde realizzare pienamente quella promessa di perfezione che è riconoscibile, attraverso l’imperfezione e la finitezza, nella natura medesima.

La terza strada si inscrive nella prospettiva filosofica di alcune religioni e, in modo particolare, di quella cristiana; non del Manicheismo, che rifiuta la natura come opera di un Dio maligno, né di tutte quelle visioni religiose, a cominciare dall’animismo e arrivando fino al panteismo, che tendono a deificare la natura COSÌ COME ESSA È.

Nella prospettiva cristiana, la natura non è affatto il regno delle tenebre e non è neppure una copia sbiadita, come in quella neoplatonica, di un regno ideale ed eterno, ma un riflesso della perfezione divina che, attraverso di essa, manifesta la propria potenza e la propria sapienza e che, per mezzo di essa, richiama a sé tutte le cose, mediante una libera scelta.

Al tempo stesso, nella prospettiva cristiana la natura non si pone come un dato assoluto, che chieda una adesione incondizionata; e ciò sia perché la natura non è che il simbolo, la metafora di un ordine superiore, ad essa sotteso e tuttavia nascosto; sia perché la natura non è né perfetta né autosufficiente, e tanto meno eterna, ma attende il suo compimento, il suo significato e, da ultimo, la sua spiritualizzazione, da quella Fonte originaria onde ha incominciato ad esistere.

Nella teologia cristiana ortodossa, la creazione del mondo naturale culmina nell’uomo, unica creatura dotata di libero arbitrio e, perciò, suscettibile di rispondere, affermativamente o negativamente, alla chiamata dell’Essere.

Tuttavia, alcune correnti minoritarie, soprattutto di tipo mistico, hanno sempre faticato a vedere l’intero universo materiale come un semplice fondale, inerte e inconsapevole, affinché l’uomo possa rifulgere, quasi per contrasto, come l’unica creatura fatta ad immagine di Dio e, al tempo stesso, perché in esso egli possa dispiegare illimitatamente la propria azione dominatrice e manipolatrice.

In tempi a noi vicini, anche in grazia della mutata sensibilità della cultura post-moderna nei confronti di un tale atteggiamento, imperiosamente antropocentrico, taluni teologi hanno ripreso quelle antiche intuizioni, anche alla luce della nuova consapevolezza ecologica la quale ci fa avvertiti che l’uomo non è al di fuori della natura, ma è parte della natura egli stesso e che, ogni qual volta se ne dimentica, trascinato dalla propria “hybris”, finisce per creare una situazione che, come l’esperienza ci insegna, rischia di diventare pericolosissima per lui stesso.

La natura tutta, dunque, e non l’uomo soltanto, attende la propria redenzione, la propria trasfigurazione per opera della Grazia: questa ci sembra una legittima interpretazione, non solo di un famoso passo paolino, ma del senso complessivo dell’Evangelo cristiano, del «lieto annunzio» di Gesù Cristo.

Il fatto che quest’ultimo, stando ai Vangeli, non abbia mai detto nulla  a proposito dell’anima degli animali e della loro attesa di redenzione e di trasfigurazione, non ci sembra costituire un argomento contro tale interpretazione, soprattutto se consideriamo la speciale sensibilità, sempre da lui dimostrata, nei confronti delle creature sofferenti, specialmente se prive del conforto della ragione o della tutela della legge (bambini, donne, stranieri, malati, carcerati, indemoniati).

Vengono alla mente, a questo proposito, le significative parole di San Paolo, nella sua massima opera teologica, la «Epistola ai Romani», là dove afferma (8, 19-24):

 

«Tutto l’universo aspetta con grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli. Il creato è stato condannato a non avere un senso, non perché l’abbia voluto, ma a causa di ciò che l’ha trascinato. Vi è però una speranza: anch’esso sarà liberato dal potere della corruzione per partecipare alla libertà e alla gloria dei figli di Dio. Noi sappiamo che fino a ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce. E non soltanto il creato, ma anche noi, che già abbiamo le primizie dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che Dio, liberandoci totalmente, manifesti che siamo suoi figli. Perché è vero che siamo salvati, ma soltanto nella speranza…»

 

Non solo l’uomo, dunque, per San Paolo, ma l’universo tutto, ossia l’intera natura, attendono la redenzione della Grazia, che li trasfiguri e li proietti oltre la speranza, nella luce di una realtà altra, ove si realizzerà pienamente e gloriosamente ciò che ora si può appena intravedere, come attraverso una densa nebbia.

Teilhard de Chardin, in particolare, fra i teologi contemporanei, ha delineato il grandioso spettacolo di un universo che tende a Cristo come alla sua meta finale, spettacolo del quale la creatura umana non è la sola protagonista, ma a cui partecipa la natura nella sua interezza e a cui è stata chiamata fin dall’inizio, secondo la formula degli antichi Padri che vedevano in Cristo - non il Cristo storico, ma il Cristo eterno del Vangelo di Giovanni - l’Alfa e l’Omega di ogni cosa.

Si dice e si ripete, e ormai è diventato perfino un luogo comune, che il Cristianesimo ha svalutato la natura, dal momento che avrebbe svalutato la vita terrena: ma come è possibile sostenere una tesi del genere, quando la teologia cristiana si spinge sino ad affermare, con estrema coerenza concettuale, la dottrina della resurrezione della carne? Una carne, però, divenuta gloriosa; un corpo divenuto luminoso e incorruttibile: non un corpo perituro, cui sia stato concesso il privilegio di una eterna durata, ma un corpo radicalmente, intimamente trasformato.

A ben guardare, una tale dottrina, che critici grossolani o in malafede hanno sempre descritto, e per conseguenza deriso, come puerilmente attaccata al dato materiale, presenta invece non poche analogie con alcune dottrine orientali, che vedono nella creazione materiale un sogno della Divinità; e anche con il neoplatonismo, che vi vede una emanazione o una ipostasi del Divino: perché cos’altro è un corpo di luce, se non un corpo che non è più materiale, ma spirituale; non una supernatura, ma una realtà che oltrepassa la natura, pur accogliendola e glorificandola, per trasfigurarsi e spiritualizzarsi totalmente, ossia per rientrare in quel Divino dal quale aveva preso le mosse, ovvero dal quale aveva creduto di essere separata?

Non vogliamo forzare troppo le analogie, né nascondere le differenze; tuttavia, ci sembra che i punti di contatto fra il trascendentalismo cristiano e l’immanentismo spiritualistico neoplatonico e orientale, soprattutto induista, esistano, e siano più profondi di quel che non appaia ad uno sguardo distratto o ad un pensiero che voglia essere pregiudizialmente oppositivo, anziché inclusivo.

Ha scritto il filosofo francese Jean Daujat (1906-1998), neotomista, discepolo di Jacques Maritain e fondatore del Centro di Studi religiosi, nella sua opera «La vita soprannaturale», opera premiata dall’Accademia di Francia (titolo originale: «La vie surnaturelle», 1958; traduzione italiana di Francesco Pellegrini, Roma, Edizioni Ares, 1958, pp. 237-39):

 

«”Allo stato di natura decaduta le miserie dell’uomo sono molto più gravi di quel che non sarebbero state allo stato di pura natura” (Sant’Alfonso de Liguori). La Chiesa ci insegna che non soltanto la natura è stata spogliata dal peccato dei doni di Dio ma ancora che è stata ferita. È ben evidente che l’amputazione della grazia e del dono dell’integrità non poteva avversarsi senza lasciare nella natura come una piaga che la pura natura non avrebbe comportato. Sappiamo che la grazia non è aggiunta come una specie di sovrapposizione o di giustapposizione, ma che assorbe e trasforma la natura intera innalzandola. La perdita della grazia non poteva dunque aver luogo senza lasciare traccia poiché la natura e la grazia erano unite in un tutto che viveva con siffatta unione. Tutta la natura è stata come coperta d’una piaga orribile dalla perdita della grazia; non è stata né distrutta né corrotta in se stessa come dicevano l’eresia di Lutero e quella giansenista che la Chiesa ha condannate, ma è stata ferita e diminuita. È stata ferita al punto che senza il soccorso della Rivelazione non potrà mai più giungere alla conoscenza completa e senza errore della verità d’ordine filosofico che solo la ragione può dimostrare e della legge morale e naturale che la ragione da sola può scoprire è stata ferita al punto che senza un soccorso nuovo di Dio non potrà mai più giungere a praticare tutta la legge morale naturale la cui pratica è tuttavia accessibile alle capacità naturali della volontà. Ce lo mostra sufficientemente attraverso la storia l’inverosimile confusione di religioni, di morali e di sistemi filosofici.

In che cosa consiste dunque questa ferita della natura? Chiamando ed elevando l’uomo all’ordine soprannaturale, Dio aveva essenzialmente ordinato la natura alla grazia, di maniera che la natura non potesse venir meno ad un tal ordine soprannaturale senza introdurre in se stessa un profondo disordine. Secondo quanto siamo venuti dimostrando. Destinato ad un fine soprannaturale, l’uomo spogliato della grazia è privato d’una qualità essenziale che dovrebbe di fatto possedere poiché non ha creato la natura se non essenzialmente ordinata alla grazia, di maniera che l’uomo spogliato della grazia è distolto dal fine per il quale Dio l’ha creato e porta in sé una vera macchia morale, il peccato originale, ed è per questo che, pur senza essere un peccato personale in ciascun uomo, il peccato originale tuttavia è un vero peccato. Nella natura stessa non c’è nessuna esigenza della grazia poiché la grazia è un dono gratuito e generoso di Dio, ma di fatto, con la sua libera volontà e col dono del suo amore, Dio ha ordinato essenzialmente la natura alla grazia, di maniera che la natura non può più essere legittimamente sola per cui, spogliata della grazia, la natura porta in sé un disordine venendo sottratta all’ordine nel quale di fatto Dio l’ha posta. Inoltre la natura comporta in sé non certo l‘esigenza de doni soprannaturali di Dio, ma l’esigenza d’accettare i doni sopranaturali di Dio con gioia, riconoscenza ed umiltà, una volta che Dio li offre. Perdendo questi don con la propria ribellione, la natura introduce in sé un profondo disordine. La natura porta in sé un ordine essenziale verso Dio suo creatore e per conseguenza un ordine essenziale a ricevere tutto ciò che Dio le darà per perfezionarla. Essa distrugge quest’ordine quando pone la propria compiacenza in se stessa al punto da preferirsi così com’è, circoscritta e limitata, col pretesto d’una indipendenza che altro non è se non un puro limite, e di ribellarsi contro i doni di Dio che costituirebbero la vera indipendenza per chi li ricevesse,  dato che lo libererebbe dai limiti della propria natura. Poiché limita e circoscrive l’essere ricevuto da Dio, la natura è ordinata ad essere indefinitamente perfezionata da Dio (questo senza che esiga  delle perfezioni che sopassino le sue capacità e potendo comunque riceverle solo per un libero e generoso dono di Dio), per cui, preferendo rimanere limitata a non ricevere nulla da Dio, contraddice alla propria esistenza ricevuta da Dio e stabilisce il disordine nel bel mezzo di se stessa.  Così come nasce dalle mani di Dio, per suo dono, la natura è buona. Compiacendosi poi in se stessa al punto di rifiutare i doni di Dio e non accettando d’essere elevata da Dio al di sopra di se stessa e di subordinarsi al soprannaturale, diviene piena di malizia. Per conseguenza la natura umana, perdendo i doni di Dio a causa del peccato originale,  e sottraendosi all’ordine soprannaturale, ha introdotto in sé Un’insubordinazione, un disordine intimo.  La natura ferita è quindi una natura insubordinata e disordinata, una natura che preferisce fare a meno di Dio.

Distolta da Dio per orgoglio e volta verso se stessa inferiore a Dio, la natura si volgerà ben presto verso la parte inferiore di se stessa, verso l’uomo carnale: prenderà gusto alla terra perché l’uomo con la sua carne viene dalla terra, e col gusto delle cose terrestri e passeggere, tutte mortali, assumerà un aspetto di morte, destinata come è alla morte  e a divenire terra e polvere.  Quando Dio vorrà salvare l’uomo da una tale miseria,  l’uomo avrà paura di Dio perché ormai attaccato alla terra e alla morte.»

 

Riassumendo.

La natura non è perfetta, ma imperfetta; e, pur nella sua magnificenza, reca in se stessa una ferita originaria, che l’ha spinta nel disordine e nella sofferenza.

Che altro significa il racconto biblico della «Genesi» circa la pace e l’armonia esistenti nel mondo della natura prima della Caduta; e che altro significa la profezia di Isaia, secondo la quale il lupo e l’agnello pascoleranno insieme, se non che la natura, ferita, aspira alla propria redenzione, e soffre e geme nelle doglie del parto, quanto più quest’ultima si sta avvicinando?

La natura non è buona: gli animali vivono divorandosi reciprocamente; le piante prosperano sottraendosi la luce l’una con l’altra, e, ciò facendo, operano una implacabile selezione fra quelle destinate a sopravvivere e quante sono destinate a soccombere.

Anche la cosiddetta natura inanimata è sconvolta da catastrofi rapide o lentissime: dalle eruzioni vulcaniche ai terremoti, dal fondo del mare alle stelle più lontane, ovunque si compie un processo inesorabile di trasformazione, di crescita, di distruzione.

Adorare la natura così come essa è, o identificarla con il Divino, significa assolutizzarne la provvisorietà e prostrarsi davanti ai suoi aspetti crudeli o, per dire meglio, amorali: perché se noi possiamo riconoscere, ad esempio, una responsabilità della volontà malvagia nella morte di un bimbo sotto le bombe, nel corso di una guerra, e, quindi, adoperarci affinché quelle forme di male vengano sempre più limitate, non possiamo però riconoscere alcun senso nella morte di un bimbo per malattia, magari attraverso dolori strazianti. E la mancanza di senso è l’esperienza più frustrante che possa essere data, in assoluto.

Forse, in origine, la natura non era così; forse, prima che rivestisse l’abito di una pesante materialità, essa conservava una perfezione che le proveniva dalla sua origine divina; ma è certo che la natura, così come ci si presenta nel suo aspetto attuale, soffre quanto noi, esseri umani, di tutte le limitazioni e di tutte le imperfezioni che tormentano noi pure.

Del resto, se la natura è una emanazione o un sogno di Dio, allora essa possiede la perfezione, fino a quando le creature del sogno non cominciano a credersi auto-sussistenti e fino a quando i riflessi della emanazione non cominciano a ritenersi autonomi e separati dall’Essere. L’orgoglio della indipendenza, l’ignoranza della separazione ribaltano il giusto ordine di cose e gettano la natura nel disordine; quel disordine che non le è connaturato, ma che deriva dalla ferita della separazione, ossia dal rifiuto della Grazia.

La Grazia è l’invito mediante il quale l’Essere richiama a sé gli enti, li invita a rientrare nella loro dimensione originaria, reintegrandosi nel Suo splendore. Il rifiuto della Grazia è il rifiuto, da parte della natura, di riacquistare la propria perfezione, medicando la ferita originaria e ritrovando nella fusione con l’Essere il senso del proprio esistere.

Le cose non esistono per se stesse; nessun ente si realizza nella propria finitezza e nessun ente può giustificare la propria esistenza, limitata e imperfetta, in un quadro immanentistico: ogni cosa tende verso il punto originario da cui tutto ha tratto il principio della propria esistenza.

Tale è l’ordine necessario degli enti, tale il senso ultimo della natura: un tendere oltre, un aspirare al superamento e alla trasfigurazione di se medesimi: così come i fiumi non esistono per se stessi, ma, fin da quando incominciano a zampillare fra le rocce di montagna, non hanno altro scopo che quello di affrettarsi verso il mare, che li chiama a sé per tutti raccoglierli e abbracciarli nel suo grembo.